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La Camera Usa approva il compromesso sul debito

 

L’accordo sull’aumento del tetto del debito pubblico Usa passa il primo traguardo al Congresso: il primo via libera è arrivato stasera dalla Camera, con 269 voti a favore e 161 contrari. Per l’occasione è tornata in aula anche Gabrille Giffords, la deputata democratica ferita gravemente in gennaio in una sparatoria in Arizona. Fra poche ore toccherà al Senato. Poi, con la firma del presidente, l’accordo sarà legge, evitando il default dello stato, previsto per il 2 agosto se il tetto del debito non fosse stato alzato.

La diplomazia è stata al lavoro nei corridoi di Capital Hill l’intera giornata, per raccogliere i voti necessari. L’accordo (se sarà approvato) scongiura il rischio di un default, ma non quello di un downgrade (abbassamento della valutazione) del debito pubblico americano da parte delle agenzie di rating: l’ammontare della misura, un aumento del tetto del debito da 2.100-2.400 miliardi di dollari e tagli per almeno 2.100 miliardi di dollari in 10 anni, è decisamente inferiore ai 4.000 miliardi di dollari identificati da Standard & Poor’s per il mantenimento del rating AAA (il migliore). E l’impatto della misura sull’economia, già fragile, preoccupa.

«L’accordo è positivo per l’economia, evita altri danni» afferma il segretario al Tesoro, Timothy Geithner. Il presidente della Fed, Ben Bernanke, convoca una riunione del board per discutere di «politiche fiscali e di bilancio».

Secondo gli osservatori, la Fed dovrà aiutare ancora l’economia. Barack Obama ha rassicurato: «I tagli saranno graduali, non peseranno e ci consentiranno di continuare a effettuare investimenti in settori che creano occupazione». Ma il presidente non convince i mercati: Wall Street, dopo un balzo iniziale, procede negativa, con la doccia fredda dell’indice Ism manifatturiero sceso ai minimi degli ultimi anni, confermando le difficoltà della ripresa. La crescita americana è lenta e i tagli alla spesa nell’accordo sull’aumento del tetto del debito potrebbero rallentarla ulteriormente. Se ci sarà un downgrade da parte delle agenzie di rating, la frenata potrebbe essere anche più forte. Standard & Poor’s ha messo sotto osservazione il rating degli Stati Uniti e messo in guardia su un possibile downgrade nei prossimi 3 mesi. Moody’s e Fitch si sono mostrate più caute, evidenziando che gli Usa potrebbero mantenere la tripla A. Un downgrade da parte di una sola agenzia sarebbe maggiormente gestibile e avrebbe un impatto più ridotto.

«Abbiamo contatti regolari con le agenzie di rating» afferma il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, sottolineando che l’accordo rappresenta «una vittoria per gli americani» e un «messaggio rassicurante per il mondo». L’accordo prevede un aumento del tetto del debito di 2.100-2.400 miliardi di dollari, tagli alle spese immediati per 1.000 miliardi di dollari, fino ad arrivare a 2.100 miliardi complessivi in 10 anni.

Una commissione bipartisan sarà creata per determinare ulteriori tagli per 1.500 miliardi di dollari e dovrà presentare le proprie proposte entro il Giorno del Ringraziamento, a novembre. Il Congresso dovrà approvare i tagli proposti entro il 23 dicembre, altrimenti scatteranno tagli automatici a sanità e difesa.

Il dollaro si mantiene debole contro lo yen, a 77,39, tra cautela e rumor di un possibile intervento del governo giapponese per ‘raffreddarè la propria valuta. L’euro, invece, passa di mano a 1,4266 contro il biglietto verde, poco mosso rispetto ai riferimenti di New York, mentre segna un frazionale recupero sullo yen, a 110,42. Il ministro delle Finanze nipponico, Yoshihiko Noda, ha detto di ritenere lo yen «fortemente sopravvalutato», chiarendo che è in contatto con «le autorità estere di politica» monetaria alimentando le voci di mosse dirette dell’esecutivo.

«In linea di principio, è auspicabile che i fondamentali si riflettano sul mercato, e in questo senso, lo yen è fortemente sopravvalutato», ha spiegato Noda in una conferenza stampa dopo la riunione di gabinetto, osservando che «il movimento continua a essere unilaterale». Il ministro ha espresso tutto il suo disappunto all’indomani del tonfo del dollaro, crollato a New York a 76,29, a un soffio dal minimo storico dal dopoguerra di 76,25, segnato il 17 marzo. Noda ha evitato di precisare se il Giappone stia considerando o meno l’intervento sui mercati valutari per la prima volta dal 18 marzo, quando il G7 decise un’azione di concerto. I segnali di insofferenza sono comunque in crescita, in considerazione del fatto che la Corporate Japan incontra sempre più ostacoli sull’export, ancora più necessario per guidare la ripresa dopo il sisma/tsunami dell’11 marzo. «È vero che ci sarà un impatto positivo o negativo sulle sui diversi settori delle esportazioni e delle importazioni, a seconda dei livelli raggiunti dallo yen, ma se la tendenza al rialzo dello yen dovesse continuare, non c’è dubbio che tutti i comparti saranno colpite». Per questo motivo, ha osservato, «abbiamo bisogno di esaminare più da vicino l’impatto». Nonostante l’accordo sull’innalzamento del debito Usa, lo yen ha proseguito il suo apprezzamento. È possibile anche che «ci sia attenzione su come le cose si svilupperanno ulteriormente al Congresso sulla questione del debito», ha concluso Noda.

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Un po’ d articoli sulla stampa di oggi, a partire dall’obamiano di ferro de “il manifesto”, Marco D’Eramo.

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Marco d’Eramo
OBAMA E LA RESA INCONDIZIONATA

 

L’accordo raggiunto nella notte di domenica sull’innalzamento del tetto debito pubblico statunitense è un compromesso per modo di dire, poiché è una resa pura e semplice dei democratici che hanno ingoiato tutti i possibili rospi e pitoni che i repubblicani gli hanno fatto ingerire. Una resa senza condizioni che ha infuriato i liberals, cioè la sinistra del partito democratico. Una resa che il premio Nobel per l’economia, professore a Princeton e columnist del New York Times, Paul Krugman, ha definito nientemeno che «abietta».
E visto che col loro ricatto i parlamentari repubblicani e gli esponenti del Tea Party hanno ottenuto già più di quel che volevano (e che anzi neanche osavano sperare) è anche possibile che giochino al rilancio e minaccino di rescindere l’accordo appena trovato se non strappano altre concessioni. Si profila anche un altro scenario: contrariamente a quel che si crede, negli Usa un partito di sinistra esiste ed è costituito dal progressive caucus, il «gruppo parlamentare progressista» che conta 75 deputati (su 435, e cioè il 17,2% della Camera dei rappresentanti). Ora è possibile che tutto il progressive caucus o una sua parte voti contro il compromesso e si unisca così ai deputati del Tea Party che anch’essi voteranno contro l’accordo ma da destra, e che quindi il compromesso sia respinto dalla Camera dei rappresentanti. Lo sapremo probabilmente questa mattina (il voto era atteso ieri sera, notte in Italia).
Nel frattempo due considerazioni. La prima sul presidente Barack Obama che dimostra, una volta di più, di aborrire il confronto aperto e di essere incapace di tenere duro. Se alle Termopili ci fosse stato lui al posto di Leonida, non staremmo qui a raccontare quella storia, ma tutti gli opliti spartani (democratici) avrebbero trascorso la loro vecchiaia prigionieri dei persiani (repubblicani) in catene a Ectabana o Susa. Obama non solo si è rimangiato quasi tutte le promesse elettorali (dal chiudere Guantanamo al promuovere la produzione di energie riciclabili), ma dallo scorso novembre, dalla batosta elettorale di mezzo termine, ha concesso tutto e di più: sul rinnovo dei tagli delle tasse voluti da Bush nel 2001 e che erano in scadenza, con i milionari Obama è stato ancora più generoso del suo predecessore: non solo ha confermato tutti i tagli, compresi quelli per super ricchi, ma ha fatto loro un altro megaregalo. Prima erano esentasse tutte le eredità inferiori a 3,5 milioni di dollari per un singolo o a 7 milioni per una coppia; sopra questa cifra l’eredità era tassata al 45%. Dallo scorso dicembre invece la quota esente è salita a 10 milioni per le coppie (e 5 per gli individui) e per di più la tassa è scesa al 35% (un 10% in meno). Stesso cedimento su tutta la linea quando si è trattato di discutere la finanziaria.
Il compromesso di domenica notte cede sull’ultimo bastione su cui si erano attestati i democratici: avrebbero accettato tagli alla spesa sociale solo in cambio di meno riduzioni fiscali ai super-ricchi.
Invece nel compromesso il capitolo tasse è rinviato a un supercomitato paritario (in cui i repubblicani avranno sei membri su 12 e quindi non farà nulla), mentre per il taglio alle spese sociali è stato accettato il principio dell’automatismo: dopo 918 miliardi di tagli subito, se non saranno raggiunti altri accordi, si procederà a ulteriori tagli per per 1.200 miliardi di dollari che diventeranno effettivi all’inizio del 2013. La (flebile) speranza dei democratici è che per allora gli americani abbiano eletto un nuovo parlamento, più «ragionevole».
Barack Obama pensa di avere guadagnato nell’opinione pubblica accreditandosi come presidente responsabile pronto a cedere e a perdere la faccia pur di salvare la nazione. Il suo calcolo potrebbe anche riuscire, ma solo a una condizione: che la disoccupazione cominci davvero a calare negli Usa. Ma, come ha spiegato per l’ennesima volta Krugmann, proprio i tagli alla spesa pubblica tarperanno le ali a una vera ripresa (ha paragonato questi tagli ai salassi cui ricorrevano i cerusici medievali e che finivano per ammazzare il paziente).
La seconda considerazione, più strutturale e più di lunga durata, è la profonda asimmetria che si è creata tra repubblicani e democratici: quando il Congresso è democratico e il Senato ed il presidente sono invece repubblicani, questi ultimi procedono a realizzare il loro programma come rulli compressori senza la benché minima resistenza democratica. Lo si vide bene negli anni dal 1980 al 1992, quando gli Stati uniti vissero quella vera e propria «rivoluzione reazionaria» che fu il reaganismo: quando nell’80 Ronald Reagan vinse, i democratici ottennero alla Camera una maggioranza di 243 seggi contro 192 (praticamente l’inverso della camera attuale: 242 repubblicani contro 193 democratici); nel 1984 la maggioranza democratica alla Camera divenne ancora pià schiacciante (258 contro 177); nel 1988 crebbe ancora (260 contro 175) e in quell’anno i democratici conquistarono la maggiornaza anche al Senato. Eppure Reagan e poi George Bush sr. poterono procedere alla loro controrivoluzione, ai loro tagli fiscali per i ricchi senza incontrare opposizione. Invece adesso sono i repubblicani a dettare condizione anche se il presidente e il Senato son ambedue democratici.
Il punto è che i democratici sono molto più divisi tra loro di quanto siano i repubblicani; che tra i democratici c’è un’ala destra più a destra di Attila, mentre tra i repubblicani c’è qualche liberal sui problemi di costume (aborto, gay, minoranze) ma sono tutti di destra estrema in economia. Quest’asimmetria va ben al di là della cedevolezza caratteriale di Obama. Finché i democratici non risolveranno questo problema, per loro non c’è speranza. E la nazione più potente del mondo sarà in ostaggio degli integralisti del mercato, dei fondamentalisti capitalisti che rischiano di devastare la prosperità statunitense (e di qualche altro paese, by the way).
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Roberto Tesi
L’accordo Annuncio ad effetto per il «deal» sul debito Usa. Niente tasse ai super-ricchi. Si tratta fino all’ultimo in attesa della firma
Il default di Obama
I repubblicani impongono un «affare» al ribasso: aumento del tetto del deficit in cambio di tagli pesanti. Nessuna nuova imposta. Ma per la Casa Bianca è una «vittoria per gli americani» Stamattina sapremo come ha votato il Congresso: contrari all’accordo il Tea Party e i liberal

 

«Mancano ancora delle importanti votazioni al Congresso, ma voglio annunciare che i leader dei due partiti, nelle due Camere, hanno raggiunto un accordo che ridurrà il deficit ed eviterà il default. Un default che avrebbe avuto un effetto devastante sulla nostra economia. Comincia a diradarsi l’incertezza che pesava sulla nostra economia», ha annunciato, con la voce un po’ emozionata, Barack Obama da Washington domenica sera alle 20,40, le 2,40 del mattino in Italia. Con questa dichiarazione sembra spazzato via l’incubo del default del debito sovrano statunitense che incombeva sull’economia mondiale.
Quello appena trascorso non è stato un fine settimana tranquillo, ma di trattative serrate fino all’annuncio dell’accordo raggiunto a poco più di 24 ore dalla scadenza per innalzare il tetto ed evitare il default del Paese. Non è certo il piano che desiderava Obama. Il quale nella dichiarazione l’ha detto esplicitamente: «Abbiamo trovato un compromesso, entrambe le Camere sono d’accordo. Non è il piano che avrei voluto, ma allontana dalla nostra economia l’ombra dell’incertezza».
Ma trovato l’accordo non è ancora finita: il Congresso deve ancora votare e, se al Senato la maggioranza di 60 voti sembra garantita, alla Camera i repubblicani del Tea Party e i liberal democratici potrebbero ancora giocare brutti scherzi. Il voto dovrebbe arrivare già oggi: secondo indiscrezioni il Senato dovrebbe procedere nel primo pomeriggio americano e il testo dovrebbe passare subito dopo alla Camera. Il capo dei democratici al Senato, Harry Reid, parla di «storico compromesso bipartisan che mette fine a uno stallo pericoloso», mentre il presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, attribuisce al suo partito una sostanziale vittoria: «Non c’è nulla in questo accordo che contraddica i nostri principi. Non ci siano nuove tasse».
L’accordo prevede un aumento del tetto del debito in tre fasi, per un totale di 2.400 miliardi di dollari (400 miliardi subito, 500 miliardi nel corso dell’anno e altri 1.500 fino alla fine del 2012; gli ultimi due sono soggetti a un voto di sfiducia del Congresso, che non invaliderebbe l’aumento ma imporrebbe una nuova approvazione da parte di Obama). È prevista una riduzione del deficit di uguale misura (2.400 miliardi) nel corso di dieci anni e in due fasi (900 miliardi la prima, 1.500 miliardi la seconda), con la creazione di una speciale commissione congressuale bipartisan incaricata di delineare i tagli da fare nella seconda fase. Qualora la commissione fallisse, scatterebbero tagli automatici per 1.200 miliardi, la metà dal settore difesa e la restante parte dagli altri settori, a cominciare dalla Social Security e Medicaid.
C’è sollievo per l’accordo raggiunto, ma non mancano i «mal di pancia» di parecchi parlamentari Usa sia repubblicani che democratici: la sinistra del partito democratico, ma anche esponenti della destra anti-tasse che fa riferimento al Tea Party che premevano per varare una norma costituzionale sull’obbligo di pareggio del bilancio. Tra i democratici, Nancy Pelosi, capogruppo dei democratici alla Camera: non ha voluto fare previsioni sull’esito del voto e ha dichiarato: «esaminerò la proposta legislativa col mio gruppo parlamentare, per vedere quale livello di sostegno possiamo raggiungere». In realtà questa appare come una dichiarazione molto di maniera per conquistare posizione all’interno del partito perché è certo che i democratici sanno che l’accordo al ribasso raggiunto è l’ultima sponda per cercare di rivincere le elezioni presidenziali del prossimo anno.
Da sottolineare che un feroce attacco a Obama è arrivato dal premio Nobel Paul Krugman che dalle colonne del New York Times critica i futuri tagli alla spesa pubblica, in un editoriale in cui accusa il presidente Barack Obama di essersi «arreso ai repubblicani». Per Krugman, l’economia americana è «molto depressa e continuerà a esserlo il prossimo anno e probabilmente anche nel 2013. La cosa peggiore che si può fare in queste circostanze è tagliare la spesa pubblica».
Per quanto riguarda i repubblicani, Boeher, presidente della Camera, deve riuscire a convincere una buona parte dei suoi 240 deputati. Cosa non facile, vista l’opposizione del Tea Party, ma non impossibile. Anche perché i repubblicani sono riusciti a far ingoiare ai democratici una manovra economica fortemente restrittiva con tagli alle spese e senza nuove tasse. Di più: finora l’aumento del tetto del debito era una manovra di routine (utilizzato per una dozzina di volte da Regan, Bush padre e figlio) a questo punto la destra è riuscita a creare un precedente, trasformando in uno strumento di ricatto sul presidente. Occorre tenere presente, infatti, che il debito pubblico non si muove autonomamente, ma sulla base di leggi di spesa autorizzate dal Congresso. Per Obama il successo è stato unicamente quello di aver evitato il default e di aver imposto un negoziato che facesse l’interesse del paese e non quello dei due partiti.
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Krugman: «Disastro per l’America» Politico: lo scoglio dei liberal

 

Sulla stampa americana emerge una posizione comune, pur con toni e intensità differenti, riguardo l’accordo sul tetto del debito raggiunto domenica notte in Senato: il suo impatto politico creerà problemi e difficoltà a tutti, soprattutto al presidente Barack Obama e al Partito Democratico. Sugli effetti economici le idee invece differiscono.
Il New York Times, nel suo editoriale, non usa giri di parole: «Per evitare il caos, un accordo terribile». Rincara la dose il commento di Paul Krugman, dal titolo « Le capitolazioni del presidente». «L’accordo eviterebbe un catastrofico defaul del governo, nell’immediato e forse nel 2012; ma per il resto è una capitolazione completa alle richieste degli estremisti repubblicani», sostiene il Nyt. Krugman aggiunge: «Molti commentatori dichiareranno che il disastro è stato evitato, ma si sbagliano; l’accordo è un disastro, non solo per Obama e il suo partito. Danneggerà un’economia già depressa.» «Obama si è piegato alle minacce repubblicane; ha gettato tutto via, e il danno per i Democratici non è ancora finito».
Critico sulla portata del compromesso anche il Washington Post, che titola: «Indietro dal limite del debito: una debole soluzione». «Il circo è durato troppo a lungo,e non c’è ancora un testo nero su bianco». Matt Miller commenta: «dunque è per questo che abbiamo portato l’economia globale e il rating di credito americano al limite? Non è nemmeno vicino a ciò di cui c’era bisogno; abbiamo evitato il disastro solo per raddoppiare la velocità del declino».
Più morbido il Chicago Tribune, anche se non mancano le critiche. «Trattenete l’applauso sull’accordo sul debito», titola l’editoriale, nel quale si specifica: «saremo felici di dimenticare per un po’ il timore per un potenziale default del debito. L’accordo riduce la minaccia per ora, e costituisce una caparra per la riduzione dei deficit futuri. Entrambi dati positivi». Ma «per molti versi l’architettura di questo accordo riflette i disegni repubblicani».
Su posizioni simili anche Usa Today, che suggerisce che l’unica cosa buona dell’accordo sul tetto del debito è che un accordo è finalmente stato raggiunto.
Chicago Tribune e Usa Today si concentrano sugli aspetti economici dell’accordo, mentre il sito Politico.com e il magazine progressista The Nation sottolineano le conseguenze politiche sul presidente e, in particolare, sui suoi rapporti con l’ala sinistra del Partito Democratico. Rapporti a dir poco tesi, considerando il tono degli editoriali: «L’accordo sul debito complica il sostegno dei liberal» (Politico.com); «Il Caucus progressista al Congresso stronca l’accordo di Obama sul debito» (The Nation). Quest’ultimo continua: «Obama ha appena fatto a sé e al partito un danno enorme», e presenta delle interviste ad alcuni deputati democratici, molti dei quali membri del Caucus stesso, che criticano fortemente l’accordo raggiunto per la scarsa attenzione ai temi sociali, in particolare al lavoro. La conclusione dell’editoriale è lapidaria: «La domanda è: quanto danno? Quanto danno agli americani vulnerabili? Quanto danno alla reputazione mondiale degli Stati Uniti? Quanto danno all’immagine del Partito Democratico quale difensore delle famiglie dei lavoratori?».
Politico.com riprende le stesse interviste critiche nei confronti del presidente e aggiunge: «se Obama pensava di avere problemi con i liberal prima, adesso ne avrà ancora di più; non importa quanto la Casa Bianca cercherà di far passare questo accordo come-una vittoria del compromesso bipartisan, per l’economia e per il popolo americano».
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L’ affondo di McConnell l’ ex «Ponzio Pilato» che addormenta le liti

La mossa del repubblicano per la mediazione

 

 

WASHINGTON – Tre settimane fa, quando capi che non tirava aria di ampie intese parlamentari sulla riduzione della spesa pubblica, Mitch McConnell aveva offerto una via d’ uscita a Barack Obama: una norma che avrebbe messo nelle mani del presidente la decisione di aumentare ogni sei mesi il tetto del debito federale. Il Parlamento avrebbe potuto bloccarlo ma solo votando con una maggioranza dei due terzi. Una soluzione che avrebbe lasciato ai repubblicani la possibilità di votare sempre tutti contro, scaricando le responsabilità del dissesto su Obama e i democratici, senza rischiare l’ insolvenza. E anche senza toccare la spesa. Furibondi, i deputati della destra conservatrice alla Camera soprannominarono subito quello del capo dei senatori repubblicani il «piano Ponzio Pilato». E lo affondarono. Da allora questo vecchio politico del Sud (69 anni, nato in Alabama e cresciuto in Kentucky, lo Stato che l’ ha mandato al Congresso 27 anni fa) si è tenuto in disparte. Ha atteso che il suo «dirimpettaio» alla Camera, John Boehner, facesse il suo tentativo di disegnare un percorso accettabile tanto per l’ estrema destra dei «Tea Party» quanto per i democratici. Quando ha fallito e la Casa Bianca si è trovata davvero con le spalle al muro, McConnell ha ripreso l’ iniziativa. Ha tirato fuori un’ altra ipotesi di mediazione alla quale lavorava segretamente da martedì, ha cominciato a tempestare di telefonate Obama e il suo vice, Joe Biden e, in una conferenza stampa congiunta con un Boehner piuttosto irritato e, forse, anche un po’ sorpreso, ha annunciato il cambio di passo: «La Casa Bianca è di nuovo a bordo, senza il presidente non si può fare l’ accordo, stanno lavorando alacremente con noi. Il “default” non deve esserci assolutamente e io, ora, sono ottimista». Una trappola? Un eccesso di protagonismo? Un sospettoso Harry Reid, il capo dei democratici che al Senato sono ancora maggioranza, dopo un incontro alla Casa Bianca, scendeva poco dopo in aula per accusare McConnell, in piedi a fianco a lui, di fare un gioco degli specchi: «Non vedo nessun vero progresso della trattativa. Mitch parla. Certo, bisogna parlarsi, ma pare che finisca lì». In una memorabile «piece» di teatro parlamentare McConnell gli rispondeva un attimo dopo guardandolo negli oggi: «Quanto a fare cose inutili, ho appena interrotto un’ importante telefonata con Biden per venire qui per una votazione puramente procedurale, un voto di bandiera senza alcun contenuto concreto, voluta dal presidente Reid». Che controreplicava accusandolo di usare con cinismo le armi dell’ ostruzionismo parlamentare anche in un momento così drammatico». Poco dopo, però, lo stesso Reid accettava di rinviare il voto notturno sulla sua proposta e di riaprirla: evidente segno che il dialogo era ripreso davvero. Se l’ intesa ci sarà, insomma, porterà l’ impronta di «Ponzio Pilato». I rivoluzionari dei «Tea Party» potranno dire di aver comunque vinto imponendo cose – come l’ emendamento costituzionale sul pareggio di bilancio – impensabili fino a pochi mesi fa. Ma, in quest’ era di cambiamenti repentini e di instabilità, ci sarà anche la paradossale rivincita di un politico vecchio stampo il cui sogno fin da ragazzo – quando si laureò in legge con una tesi sul Senato dopo aver passato l’ infanzia combattere la poliomelite – è sempre stato quello di diventare il leader di quell’ aula. Che lui stesso ha definito «il luogo nel quale convivono le cento persone con gli ego più smisurati e i gomiti più aguzzi d’ America». Un politico tradizionale con un’ oratoria puntigliosa e a volte soporifera della quale, però, lui va molto orgoglioso. Un atteggiamento che ricorda l’ Arnaldo Forlani di un celebre «Sostenete che non sto dicendo nulla? Bè, posso andare avanti così per ore». McConnell non pensa in grande, non vola mai alto: è un professionista pragmatico che conosce bene corridoi e anfratti della politica. E che sa come mediare. «In una città divisa a metà tra bugiardi e idealisti, lui è un cinico onesto» ha scritto il commentatore del Washington Post , Ezra Klein. E lui non se l’ è presa. Così come non si è arrabbiato quando, avendo portato all’ esasperazione i suoi avversari (e anche alleati come McCain) col suo «no» a controlli più severi sui meccanismi di finanziamento della politica, venne soprannominato «Darth Vader». Anzi si mostrò compiaciuto e i suoi «supporter» si misero ad andare in giro agitando spade luminose di «Star Wars». Massimo Gaggi RIPRODUZIONE RISERVATA **** Chi è Senatore Mitch McConnell, 69 anni, di confessione battista, è nato in Alabama e cresciuto in Kentucky, lo Stato che l’ ha mandato al Congresso 27 anni fa. È il leader dei repubblicani al Senato

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