Dieci anni fa – il 22 giugno 2010 – si consumava una importante pagina della storia sindacale del nostro paese: il Referendum nello stabilimento FIAT di Pomigliano d’Arco (Napoli) circa la cosiddetta approvazione o eventuale bocciatura del Piano Marchionne.
L’accordo di Pomigliano, sottoscritto da Fiat e Fim-Uilm-Fismic il 15 giugno 2010, prevedeva un rilevante passaggio ristrutturativo nell’ambito di un generale riassestamento alle nuove condizioni del mercato dell’industria dell’auto su scala mondiale.
Per la Fiat si trattava di adeguare la propria struttura multinazionale agli sconvolgimenti che il ciclo dell’auto registrava dentro le nuove dinamiche della produzione, della guerra dei marchi e dell’inasprimento dei fattori di competizione globale. Una sfida vitale per la Fiat e per la sua capacità di continuare a fare profitti conquistando nuovi spazi in un mercato costantemente stressato da restringimento delle vendite e necessità di frequenti adeguamenti tecnologici.
Il piano proposto da Fiat – denominato “Fabbrica Italia” – prevedeva un investimento di 20 miliardi di Euro nel quadriennio 2010/2014, il raddoppio dei volumi delle produzioni in Italia, una pesante riorganizzazione interna con la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese ed un “impegno per il futuro” su Pomigliano di 700 milioni di Euro, tramite il trasferimento delle produzioni della nuova Panda fin lì realizzata in Polonia).
In cambio la Fiat poneva una serie di pesantissime condizioni: 18 turni di lavoro (dal lunedì al sabato compreso, tre turni giornalieri di 8 ore); flessibilità più accentuata; nuova organizzazione del lavoro e nuova metrica (sistema di assegnazione e misurazione dei tempi ciclo e delle diverse fasi di lavoro); superamento delle “anomalie presenti”, specie in tema di assenteismo, attraverso un ferreo comando sulla forza lavoro, con drastiche limitazioni per malattie, permessi, ferie e diritti sindacali.
Con questo progetto la multinazionale Fiat pose un aut/aut verso i sindacati complici, chiedendo loro di avallare una progettualità che avrebbe dovuto garantire gran parte delle produzioni e dei livelli occupazionali in Italia in cambio di un consistente peggioramento delle condizioni di lavoro e delle agibilità collettive e sindacali.
Fim e Uilm accettarono subito di porsi, completamente, al servizio di quello che veniva idolatrato come il nuovo guru dell’imprenditoria italiana – Sergio Marchionne – mentre la Fiom, retta dall’allora “ribelle” Maurizio Landini, ebbe un atteggiamento ondivago – come è prassi nella storia ultradecennale del riformismo sindacale – fino ad accettare, dopo qualche anno, tale Accordo e tutte le nefandezze aggiuntesi nel corso del tempo.
Giova, a distanza di un decennio, ricordare che quell’Accordo – ed il successivo Referendum – incontrarono, nonostante la grancassa mediatica con cui fu positivamente accreditato agli occhi del paese e dei lavoratori, la diffidenza e l’ostilità di molti lavoratori.
La stessa Fiom/Cgil, sotto la spinta di molti delegati interni, si mostrò inizialmente critica verso il nuovo corso di Marchionne, il complesso delle scelte autoritarie e ferocemente antisociali del management Fiat, tornando così a conquistarsi un credito ed una autorevolezza che, da tempo, aveva perso.
Si arrivò, dunque, al fatidico Referendum.
Da un lato il padronato tutto, con Marchionne e Confindustria alla testa, la grande stampa e l’intero sistema della comunicazione mainstream, naturalmente il PD del “sinistro” Bersani ed infine Cisl e Uil con tutta la loro rete clientelare ed affaristica.
Il refrain di questo schieramento puntava, esplicitamente, a terrorizzare la classe operaia delineando scenari apocalittici in caso di non approvazione dell’Accordo.
Sull’altro fronte i sindacati conflittuali i quali – particolarmente nel gruppo Fiat – a causa della blindatura del sistema delle relazioni sindacali, erano scarsamente radicati ma comunque presenti, seppur in forze ridotte, in tutti i siti produttivi della Fiat.
In mezzo – con un agnosticismo tipico della “sinistra” italica – si collocò la Fiom di Landini la quale, con buona pace di tutte le roboanti dichiarazioni televisive contro la Fiat, lasciò “libertà di voto” ai propri aderenti e rinunciò a fare campagna politica e di informazione contro l’Accordo.
Insomma, in un momento topico dello scontro, mentre occorreva il massimo della coesione e dell’unità contro l’affondo padronale, la Fiom disertò la lotta lasciando migliaia di iscritti e decine di maigliaia di lavoratrici e lavoratori senza indicazioni precise in una sorta di avvilente “…io speriamo che me la cavo!”
A Pomigliano d’Arco – dove si tenne la prima votazione del Referendum – fu grazie all’intelligenza politica del piccolo nucleo di operai dello Slai/Cobas, animato da Mara Malavenda e da Vittorio Granillo, che due giorni prima del voto in fabbrica, decise di dare indicazioni di voto per un NO esplicito, rifiutando sia l’abituale atteggiamento di astensione, sia la scheda bianca.
Oggi quella scelta potrà sembrare solo formale, ma l’aver fatto emergere dalle urne (in molti seggi le procedure di voto erano controllate da personale Fiat e da scagnozzi di Cisl e Uil) un’alta percentuale di NO provocò un evento politico (e sociale) enorme che conquistò per settimane il centro dell’agenda e del dibattito politico.
Il 62,2% dei votanti approvò l’Accordo ma – come registrarono giornalisti, sociologi e tantissimi osservatori – non si registrò quel plebiscito da tutti auspicato. La stessa stampa, in quei giorni, riportava di un Marchionne irritato per le eventuali conseguenze circa la “gestione interna dello stabilimento” e di una Mercegaglia (allora presidente di Confiundustria) “rammaricata di come i lavoratori non avessero compreso la sfida innovativa di tale accordo”.
Insomma, prima a Pomigliano e dopo qualche mese nell’analogo referendum che si svolse a Mirafiori, si palesò un consistente settore operaio che intendeva tenere testa a Marchionne e che auspicava una ripresa del conflitto.
Ma quel segnale di disponibilità ad una possibile mobilitazione fu soffocato ferocemente dalla intransigenza della Fiat e dall’accelerata resa politica della Fiom di Landini.
La Fiat – specie a Pomigliano – scatenò il massimo di dispotismo aziendale: in un reparto confino allestito appositamente a diversi chilometri dalla fabbrica (a Nola), la direzione confinò la stragrande maggioranza degli iscritti allo Slai/Cobas assieme ad altri delegati combattivi, mentre cominciò a licenziare i compagni prendendo a pretesto alcune forme simboliche messe in scena in alcune manifestazioni (tutta la vicenda dei “5 licenziati Fiat”, trascinatasi per anni nei Tribunali, è frutto di questa repressione).
La Fiom, invece, si trovò davanti ad un bivio: o dare consequenzialità pratica alle dichiarazioni del leader maximo Landini o iniziare un lavoro di riaccreditamento verso Confindustria e la Fiat mettendo la parola fine alla sua momentanea “anomalia”.
Prima con un nuovo accordo/simbolo alla Bertone, e poi in tante altri stabilimenti, la Fiom iniziò a sottoscrivere accordi e patti di ogni tipo con il dichiarato obiettivo di “rientrare ai tavoli di trattative”.
Mai, in quei mesi ed anni che seguirono ai NO di Pomigliano e Mirafiori, la Fiom ha provato a costruire, veramente, una stagione articolata e generale di organizzazione operaia nelle fabbriche e di indipendenza dalle compatibilità economiche aziendali e nazionali.
Anzi, il terreno della fabbrica, della vertenzialità e del conflitto operaio veniva costantemente messo in ombra da un rinnovato attivismo di Landini verso il proscenio politico (da “Uniti contro la Crisi” alle varie ipotesi di “Coalizione Sociali”), in cui la Fiom, per un lungo periodo, si è proposta come capofila dei vari tentativi della “sinistra” di dare vita a diversificati caravanaserragli che puntavano a ridare ossigeno al fantasma di una “sinistra” sempre più integrata nella governance, subordinata all’egemonia dell’ideologia europeista.
Oggi la Fiat ha cambiato pelle e configurazione.
Quella che si chiama FCA è una multinazionale globale, con sede sociale in Olanda, che fa il “bello ed il cattivo tempo” con i governi (vedi la querelle sugli aiuti di stato post Covid 19) e che calpesta platealmente ciò che resta delle tutele dello Statuto dei Lavoratori e della “vecchia” organizzazione del lavoro.
In FCA – da Torino a Melfi, passando per Termoli e Pomigliano – la conflittualità è al minimo storico (nonostante i pochi delegati che ancora lavorano si prodigano ad agire in una condizione di autentica dittatura aziendale). Fim e Uilm continuano ad essere i cani da guardia padronali, mentre la Fiom si limita ad una sorta di timido “controcanto” su questo o quell’aspetto di vicende locali e specifiche che, di volta in volta, si manifestano.
Ritornare – a dieci anni di distanza – a quegli avvenimenti non è dunque un nostalgico remake storiografico, ma vuole essere uno stimolo per un bilancio critico ed autocritico di un ciclo politico e sindacale, in cui il dato oggettivo saliente è stata la mancanza di una credibile alternativa organizzata all’offensiva padronale che si andava concretizzando a larga scala.
Tanti, troppi delegati e tanti e troppi attivisti politici e sociali, in quel frangente, offrirono aperture di credito politico a Landini, alla Fiom ed alla Cgil. Molti compagni si illusero che la cosiddetta anomalia Fiom potesse dare voce, forza e rappresentanza ad una classe operaia e al variegato mondo del precariato sociale che iniziava ad impattare con la gabbia dell’Unione Europea e le politiche di austerity.
Questa ubriacatura che contagiò la stragrande maggioranza dell’allora sinistra radicale fu nefasta da ogni punto politico di osservazione e foriera di ulteriori arretramenti culturali, politici e materiali; in fabbrica e nell’intera società.
L’autonomia e l’indipendenza – allora come oggi – sono una qualità politica (e materiale) preziosa. Sono l’unico antidoto per innescare processi politici che vadano in controtendenza rispetto al al rullo compressore del capitale.
In questi dieci anni trascorsi dall’imposizione di Fabbrica Italia in Fiat/FCA, le lavoratrici e i lavoratori hanno saggiato sulla propria pelle gli effetti del tallone di ferro di Marchionne e dei suoi eredi, ma stanno anche consumando le residue illusioni verso organizzazioni sindacali sempre più integrate nei dispositivi del comando aziendale e produttivo
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il manifesto con cui l’USB e lo SLAI/Cobas organizzarono un appuntamento nazionale di discussione:
Dal NO di Pomigliano al rifiuto della collaborazione sindacale con padroni e governi
SABATO 3 LUGLIO – ore 10 – NAPOLI
ASSEMBLEA NAZIONALE
Hotel Ramada (adiacenze uffici Inps – Via Galileo Ferraris – stazione centrale-)
Ciò che sta accadendo alla Fiat di Pomigliano dimostra la volontà padronale di fare piazza pulita di ogni vera opposizione ai processi di ristrutturazione selvaggia, ma anche dell’insostituibile ruolo delle organizzazioni sindacali di base, capaci di “ridare forza e voce” ai lavoratori infliggendo un primo e duro colpo al cosiddetto “Piano Marchionne”, una importante premessa e direzione di marcia per la ripresa della mobilitazione e delle lotte dei lavoratori.
Tutto ciò nonostante l’imponente campagna mediatica e di ricatto messa in atto dalla Fiat nel tentativo di schiavizzare i lavoratori dell’industria e (con Brunetta) del pubblico impiego.
Una campagna appoggiata da Fim e Uilm e dal doppio gioco della Fiom (sindacato che mentre “criticava” il referendum invitava i lavoratori a recarsi al voto senza avere il coraggio di fare campagna per il “NO”).
La stessa Fiom che da circa un anno, insieme a Fim ed Uilm – ed in ossequio alla ‘melfizzazione’ prevista dal “Piano Marchionne” – continua a sequestrare l’elezione delle RSU a Pomigliano ed in queste settimane è promotrice di una legge di iniziativa popolare dettata dalla Fiat e funzionale alla prospettata controriforma della rappresentanza sindacale auspicata da CGIL-CISL-UIL e dall’asse Marchionne-Bersani-Brunetta-Berlusconi.
Nell’Assemblea di Napoli del settembre scorso lo avevamo affermato: “dall’appoggio ai licenziamenti politici, dei reparti-confino al sequestro del voto RSU concertato con la Fiat, Fiom-Fim-Uilm stanno scrivendo una delle pagine più nere della storia sindacale!”.
E sulla scia della Fiat, Brunetta ed i sindacati collaborazionisti hanno oggi deciso il rinvio “per legge” delle elezioni delle RSU nel pubblico impiego in scadenza a pochi mesi, incluse quelle per la scuola già scadute dal 2009.
Le manifestazioni nazionali e gli scioperi indetti dall’USB, la “mazzata” assestata dallo Slai Cobas nei giorni scorsi alla Fiat Pomigliano, rappresentano quella “alterità di classe” indispensabile all’orientamento ed allo sviluppo della mobilitazione e delle lotte dei lavoratori tutti (privati, pubblici, precari, immigrati) contro l’offensiva economica e sociale del padronale e del governo.
Su questi temi lo Slai/Cobas e la Confederazione USB invitano
i lavoratori, i precari, i delegati onesti e non asserviti, le organizzazioni politiche e
ad un confronto ed una discussione pubblica.
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