Menu

Memorie dal “fronte orientale”. Testimonianza di Jordan Zahar

Jordan Zahar aveva 16 anni nel gennaio 1945, quando il suo villaggio (Boršt-S. Antonio in Bosco, in provincia di Trieste) fu oggetto di un rastrellamento operato congiuntamente dalle SS e dall’Ispettorato Speciale di PS, questi ultimi guidati dal commissario Gaetano Collotti che si occupò personalmente degli interrogatori, torture comprese.

Jordan, come molti altri paesani, fu torturato con la corrente elettrica prima di essere condotto alla sede di via Cologna e poi al carcere del Coroneo; e mentre veniva torturato, i nazifascisti localizzarono il bunker dove si erano nascosti tre partigiani e li uccisero sul posto. Un altro partigiano fu catturato ferito e poi ucciso nella Risiera di San Sabba.

Assieme a Collotti “lavorava” anche un ufficiale sloveno della Bela Garda, la formazione collaborazionista: oltre ad applicare gli elettrodi, faceva anche da interprete.

Il 10 gennaio 1945 la madre di Jordan Zahar andò al comando SS in piazza Oberdan a cercare il marito arrestato due giorni prima. Nel cortile vide la sua bicicletta: allora la donna si rivolse ad un ufficiale che stava passando e che seppe poi trattarsi di Dietrich Allers: “questa è la bicicletta di mio marito” gli disse “e allora dov’è mio marito?”. “Signora” le rispose il comandante delle SS “io non so dove sia suo marito, però se la bicicletta è la sua, se la riporti pure a casa”.

Nel 1958 Zahar, che si trovava ad Amburgo per motivi di lavoro, ebbe modo di incontrare Allers, che gli disse che si ricordava di sua madre. Quando, negli anni ‘70, Allers seppe che stava per iniziare il processo per i crimini della Risiera, si mise in contatto con Zahar, per chiedergli se la madre sarebbe stata disposta a venire a testimoniare in suo favore, dato che le aveva restituito la bicicletta del marito arrestato.

Alla fine della guerra Zahar fu convocato dal Tribunale militare per testimoniare contro l’ufficiale della Bela Garda che l’aveva torturato. Il giovane entrò nell’aula e vide la madre dell’imputato che piangeva perché si aspettava che condannessero a morte il figlio per tutto quello che aveva fatto durante la guerra.

Jordan decise che non voleva essere tra coloro che avrebbero portato alla condanna a morte del suo aguzzino e disse che non si ricordava nulla e che non riconosceva l’imputato.

“Volevo chiudere con quella storia”, disse poi.

Nel dicembre del 1945, dovendo richiedere la carta d’identità, Zahar fu indirizzato alla caserma di via Cologna, dove era stato sistemato l’ufficio per le carte d’identità, proprio in una delle stanze in cui si torturava: l’appendiabiti a cui era stato legato un suo compagno per essere torturato era nello stesso posto in cui si trovava otto mesi prima. Ma non solo: due degli agenti di Collotti erano rimasti in servizio in quella sede erano stati adibiti al servizio carte d’identità.

(Nella foto, Jordan Zahar in una delle stanze che erano state usate come camere di tortura in via Cologna, che indica la finestra da cui si gettò per sfuggire alle torture e fracassandosi al suolo, un aviere che era stato fatto prigioniero dagli agenti di Collotti. La testimonianza complete di Zahar si trova nel mio libro “La Banda Collotti”, Kappa Vu 2013).

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa
Argomenti:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *