In questa lunga intervista, condotta dagli insegnanti Giovanni Carosotti e Sergio Arangino, disponibile sul canale youtube del “Manifesto per la Nuova Scuola”, il prof. Emiliano Brancaccio, economista dell’Università del Sannio, interviene nel dibattito sul complesso rapporto economia-scuola, toccando i punti salienti delle trasformazioni dell’istruzione pubblica nell’ultimo ventennio di riforme, da Berlinguer a Bianchi, fino ad arrivare al recente quadro di interventi previsti dal PNRR.
L’Imperialismo metodologico del pensiero economico neoclassico, dominante a livello internazionale nel campo dell’istruzione, con i suoi precisi obiettivi strategici, di natura squisitamente politica, e la sua falsa “oggettività”, il cui scopo è escludere ogni forma di contraddittorio di idee e metodi; il ruolo determinante che la scuola assume come agente di disciplinamento funzionale al sistema economico produttivo; la colossale mistificazione del discorso dominante sul problema del mismatching tra scuola/università e mercato del lavoro, ovvero il mancato incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, attribuita alla mancanza di competenze dei giovani rispetto alle esigenze del mondo produttivo.
Questi sono solo alcuni dei temi trattati nell’intervista, di cui riportiamo di seguito il testo con i passaggi più rilevanti.
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Carosotti:Vorremmo discutere con Lei sui provvedimenti e le trasformazioni che coinvolgono la scuola, per provare ad analizzarle da un punto di vista esterno, che può aiutare noi insegnanti a fare ulteriore chiarezza.
Il prof. Brancaccio è personalità molto nota, che spesso compare sui mezzi di informazione di massa e sui suoi canali personali. Vorrei precisare il motivo di interesse, da parte di noi docenti che da oltre vent’anni portiamo avanti una critica alle politiche di riforma che hanno trasformato in questi anni radicalmente la scuola pubblica, ad interloquire con una personalità il cui campo di ricerca specifico è quello dell’Economia.
Il motivo è che gli interlocutori polemici con cui noi docenti ci confrontiamo giustificano le trasformazioni della scuola – che noi giudichiamo più come un’involuzione che come progresso – sempre con motivazioni di carattere economico. Proprio le giustificazioni di carattere economico dovrebbero imporre una motivazione non sindacabile e oggettiva, a cui il legislatore farebbe poi riferimento.
Quindi noi docenti “volenti o nolenti” (Andrea Gavosto, Fondazione Agnelli, vedi qui ) dovremmo semplicemente adattarci. Queste trasformazioni hanno delle conseguenze su diversi piani.
Prima di tutto determinano un limite oggettivo alla libertà di insegnamento, imponendo alcune metodologie didattiche quali unico modello capace di raggiungere determinati obiettivi; poi cambia radicalmente le finalità della scuola pubblica rispetto a quanto precisato dalla Costituzione repubblicana; facendone sostanzialmente un serbatoio nel quale il processo di formazione risponde alle esigenze economiche del processo produttivo. Inoltre, tali trasformazioni portano ad una svalutazione di altri obiettivi, forse più decisivi, che la scuola deve perseguire: l’emancipazione culturale e civile degli alunni, che devono dovrebbero diventare cittadini consapevoli, oltre a poter consapevolmente partecipare ad un dibattito democratico, che si auspica caratterizzato dal pluralismo delle proposte.
Queste giustificazioni economiche vengono affermate – per questo ci interessa il confronto con il professor Brancaccio – alla luce di una visione economica che corrisponde ad un unico paradigma, che noi chiamiamo, non so con quanto rigore, “neoliberista”, con riferimento ad una cultura, un progetto di società e di economia.
Una visione che non ha certo il monopolio esclusivo della ragione, rispetto al pluralismo epistemologico che dovrebbe coinvolgere non solo l’economia, ma tutte le scienze sociali e umane.
Anche in pedagogia c’è un naturale pluralismo epistemologico, che porta anche alla formulazione di teorie tra loro pure confliggenti, rispetto alle quali il docente dovrebbe liberamente scegliere la più adatta al proprio contesto. Invece anche alla scuola si vuole imporre – questa è l’analogia che abbiamo trovato – un unico paradigma pedagogico, che ci sembra di derivazione paleo-positivista, a cui gli insegnanti dovrebbero piegarsi.
La prima domanda che vorremmo porre è dunque di carattere generale.
Gli economisti in molti casi ritengono che la loro disciplina possa diventare una koiné universale, cui fare ricorso in particolare quando è in discussione la governance della scuola, quando ci sono problemi riguardanti la relazione tra attività e risultati attesi; in questi frangenti gli economisti avrebbero maggiore competenza per intervenire e per imporre a chi lavora nel settore, prescrizioni su come dirigere l’attività stessa. Tale loro competenza garantirebbe criteri talmente oggettivi da sfuggire al contraddittorio. In che senso allora l’economia può pretendere questo ruolo di supervisione sulla scuola?
Brancaccio: Innanzitutto ringrazio per il gentile invito su una materia di estrema rilevanza e meriterebbe un dibattito molto più ampio di quanto non avviene.
Non certo per spezzare una lancia nei confronti degli economisti, bisogna chiarire una cosa che ci aiuta a definire il campo delle idee e della lotta.
Questi studiosi sono in genere economisti che appartengono ad un preciso ambito della ricerca e della teoria economica. Gli studiosi che oggigiorno si fanno portatori delle istanze di riforma del ministero e in generale dei ministeri – perché è una cosa che avviene in Italia, ma anche altrove- questi sono appartenenti a una determinata scuola di pensiero, che si definisce neoclassica o marginalista.
Perché faccio questa precisazione? Perché l’imperialismo metodologico che contraddistingue questa scuola è una sua connotazione ben precisa e definita. Si è parlato spesso di imperialismo dell’economia neoclassica come tentativo di questo approccio metodologico di pervadere gli altri campi del sapere: la sociologia, la psicologia, la pedagogia, etc.
Qual è il centro nevralgico di questa impostazione e approccio degli economisti ideologi delle riforme della scuola e non solo?
Il centro nevralgico è l’idea che l’analisi del comportamento umano debba basarsi sull’individualismo metodologico e che tale individualismo, ossia l’analisi del singolo individuo come ente su cui costruire una scienza razionale, deve avvenire in base a un criterio di massimizzazione sotto il vincolo.
Il nucleo fondativo di questo approccio all’economia è l’individuo, e solo l’individuo, e che questo individuo, nella sua enorme complessità, possa ridursi a soggetto che agisce per massimizzare un determinato obiettivo sotto il vincolo delle risorse.
Questo tipo di impostazione risulta funzionale a giustificare un certo tipo di politica che definire razionale dal punto di vista economico è una bella impresa. Faccio un paio di esempi.
Questa idea del vincolo delle risorse, che contraddistingue tale approccio teorico, è un’idea funzionale alla giustificazione di politiche che determinano lo strutturale sottofinanziamento delle risorse, soprattutto destinate ai beni pubblici. La scuola è il bene pubblico collettivo per eccellenza.
In sostanza quindi, il vincolo delle risorse viene utilizzato per poter dire che in fin dei conti non ci sono abbastanza risorse per difendere beni collettivi come la scuola e l’istruzione.
Il secondo problema è che, in quanto individualismo metodologico, questo approccio tende a valutare le prestazioni dei singoli, risultando strutturalmente inadeguato a valutare le prestazioni del collettivo. Eppure, a ben pensarci, la scuola, e in generale l’istruzione, è un processo collettivo.
Questi studiosi, da questo punto di vista, risultano completamente inadeguati all’analisi dell’istruzione come processo collettivo. E risultano funzionali all’esigenza di sottrarre a tale processo collettivo le risorse di cui esso ha bisogno.
Parlare di razionalità economica secondo me è fuorviante. [Tali studiosi] perseguono una precisa razionalità politica, che punta a sottofinanziare l’istruzione pubblica e a fare dell’istruzione un processo collettivo servitore dell’ideologia individualistica dominante.
In questo modo, si producono pratiche. Non si tratta dunque di una razionalità economica, ma politica, che serve interessi specifici. Giusto per citare un esempio, quando si parla di sotto-finanziamento di scuola e istruzione, in generale si scopre che poi questo finanziamento si vorrebbe destinarlo a più o meno giustificabili e sedicenti centri di eccellenza.
Quindi la riduzione delle risorse disponibili si realizza in una situazione di centralizzazione delle poche risorse disponibili in sempre meno mani.
E’ evidente la razionalità politica di questo processo, razionale dal punto di vista di specifici interessi. Dunque l’idea dell’oggettività viene meno molto facilmente appena si va a toccare con mano il metodo che contraddistingue questi studiosi.
Arangino: L’impressione che si ha e abbiamo è che questo stia avvenendo da diverso tempo, con l’introduzione dell’idea di mercato competitivo in diversi ambiti, tra cui i servizi pubblici, che competitivi non dovrebbero essere, come quello dell’istruzione.
L’autonomia scolastica, introdotta 20 anni fa, ha alla base l’idea di una concorrenza tra le diverse scuole e un sotto-finanziamento del sistema di istruzione, così come per l’università. In nome dell’autonomia, che è un larvato processo di privatizzazione e di introduzione di un mercato concorrenziale laddove non c’era, di classifiche, eccellenza e inefficienza.
Tutte queste logiche la scuola italiana le ha assorbite a partire dalle riforme Berlinguer di 20 anni fa. Le ulteriori riforme fatte sia nella scuola che nell’università hanno accentuato sempre più questi meccanismi di competizione interna, che hanno destrutturato il servizio pubblico dell’istruzione, indebolendola, così come è accaduto nell’Università, che ha ormai interiorizzato la logica dell’introduzione del mercato.
Qui farei una annotazione. Siamo preoccupati leggendo i documenti del PNRR, da cui si evince che la logica del PNRR è quella di introdurre il mercato concorrenziale capitalistico ovunque nei settori pubblici, in maniera da portarle ad una sostanziale e progressiva privatizzazione.
Certe logiche economiche o economicistiche si tanno impadronendo di tutti i settori della vita pubblica, colonizzando gli stesi centri di decisione politica. Non è la politica che sta governando l’economia, ma viceversa l’economia che governa, attraverso i propri organismi finanziari, la politica.
Carosotti: In merito all’affermazione del prof Brancaccio – e cioè che non si tratti di una razionalità economica, quanto politica – sospetto che anche noi abbiamo avuto – farei riferimento ad un episodio apparentemente banale, che Tomaso Montanari ha portato alla luce , su un fuori onda tra Draghi e Franceschini al Colosseo in cui Franceschini illustrava i lavori di ristrutturazione del Colosseo, sui quali gli archeologi esprimevano un parere contrario.
Draghi risponde al ministro della Cultura con un’affermazione sorprendente, secondo la quale nel nostro Paese se si continua ad ascoltare gli esperti non si fa poi nulla. Come dire, il governo degli “esperti” ritiene “esperti” solo coloro che ragionano in termini economici. Mentre gli esperti di altri campi vengono considerati quasi un inciampo per quella razionalità orientata all’efficienza che si vuole realizzare.
Vi sono economisti, come Andrea Gavosto, Andrea Ichino, i quali ci spiegano come insegnare, senza alcuna competenza specifica, ma in virtù dei risultati produttivi che secondo loro si intendono raggiungere.
Sorge però un ulteriore dubbio: questa idea è razionale anche rispetto al loro obiettivo? Cioè, una formazione ed educazione dedicate unicamente a far sì che la preparazione degli studenti sia orientata esclusivamente al successo nel mondo produttivo, può avere un esito positivo oppure no, visto il grande cambiamento che il mondo produttivo conosce?
Dirigere l’istruzione verso obiettivi così specifici, tralasciando quelli relativi alla costruzione di una personalità culturale più complessa siamo sicuri che sia un bene anche rispetto alle finalità esclusivamente produttive che tali intellettuali vorrebbero imporre alla scuola?
Brancaccio: Innanzitutto, l’episodio di Draghi che dice di mettere da parte gli esperti perché sono soltanto un intralcio è indicativo e interessante, perché chiarisce che ci sono esperti ed esperti. Vanno bene i loro esperti.
Draghi stesso è il tecnico, l’esperto che ci salva dalla crisi della democrazia, l’esperto che dovrebbe salvaguardarci da quel «bivacco di manipoli» che è diventato il Parlamento, secondo alcuni. Quindi ci sono esperti ed esperti. Se gli esperti pongono dei problemi, questi vengono immediatamente messi da parte.
C’è un aspetto di questa ideologia e visione dominante, che si palesa immediatamente nella sua estrema contraddittorietà. Si parla di “competizione” con insistenza. Competizione come paradigma. Eppure, quando si tratta di competizione delle idee, degli approcci, dei metodi, si rasenta un oscurantismo oserei dire medievale.
Questa è l’ennesima prova di una crisi ideologica, di una crisi che ormai tocca proprio il liberalismo in quanto tale. In fin dei conti, questa visione dominante, anche nel campo della scuola, ma non soltanto.
Nei campi delicatissimi della vita civile e collettiva, è una visione liberale. Ed è interessante notare che tale visione entra in contraddizione con la propria idea di libertà, non appena si ponga il problema di competizione delle idee o approcci metodologici alternativi. Bisognerebbe indagare su questa incoerenza e aporia così evidente.
Aggiungo un’altra cosa rispetto al richiamo ad Andrea Ichino. Non credo che Ichino abbia coscienza di quel che fa. Penso che Ichino sia convintamente persuaso dal fatto che i suoi modelli economici (di ottimizzazione vincolata, etc) siano rappresentativi del reale e in cui egli crede. Buon per lui. I semplici vanno in Paradiso, si dice.
Se guardati con metodo scientifico, questi lasciano il tempo che trova. Ci sono poi altri soggetti, forse un pochino più raffinati e consapevoli, che in effetti hanno un obiettivo. E cioè io credo che in fin dei conti, ci sia sempre all’interno di questo contraddittorio paradigma liberale prevalente, la volontà di istituire un’alternativa all’antico patriarcato.
In fin dei conti, la famiglia, la scuola, la chiesa, le istituzioni in genere, un tempo avevano anche il compito di costruire una personalità individuale funzionale agli interessi dominanti. Costruire il lavoratore disciplinato, colui il quale fosse già pronto, nel più breve tempo possibile, al comando capitalistico. Le antiche istituzioni, che io chiamo per semplificare patriarcali, servivano anche questo scopo.
Ecco, alcune di queste istituzioni sono venute un po’ meno, dalla famiglia patriarcale alla chiesa, e cosi via. Secondo me la scuola, nell’ottica di alcuni potrebbe diventare il nuovo agente disciplinante del sistema, cioè la nuova struttura di comando che fondamentalmente non è che segua tanto la razionalità economica aziendale, dei costi e dei benefici – quello è un aspetto secondario della questione – ma serve l’interesse aziendale e la vocazione dell’azienda a costruire gerarchie, a costruire un comando.
Il giovane, uscito dalla scuola, essendo stato un po’ abituato anche ad un uso dei dati basato sulla prestazione ed anche ad un po’ di mortificazione, è allenato alla disciplina, al comando e in ultima istanza al comando capitalistico.
Arangino: Questo sta accadendo a scuola, con l’alternanza scuola lavoro, oggi PCTO, che altro non è che un protocollo per imparare ad essere ubbidienti. Anche noi insegnanti sono sottoposti ad una continua pressione. Gli insegnanti devono obbedire al potere politico.
Carosotti: Bisogna far passare il convincimento che gli insegnanti non sono dei lavoratori intellettuali, sono erogatori di un servizio e quindi devono esercitare – come dice lo stesso Bianchi – un compito di coordinamento di attività pensate da altri, i cosiddetti «soggetti del territorio».
Nella scuola con queste riforme si gioca la partita la cui posta è il restringimento degli spazi di dibattito democratico. Non perché ci sia una diretta forma di comando, ma perché naturalmente viene meno il pluralismo del metodo, l’importanza del contraddittorio, dell’interpretazione del confronto storiografico, a favore di quello che viene chiamato problem solving, ovvero una didattica fondata sull’imparare a risolvere problemi di cui si sono già date le procedure per poterli risolvere; sulla base di un’idea per cui a domanda c’è una sola risposta.
Il che fa saltare l’obiettivo formativo non solo delle discipline umanistiche, ma anche scientifiche, che è invece quello di creare una mentalità capace di suscitare i problemi e non solo risposte.
Ci sono stati casi, che ci hanno riferito molti colleghi, specie degli istituti tecnici, in cui la proposta didattica degli istituti è stata tutta orientata in ragione di attività produttive locali, alle quali si è sacrificata la didattica.
Poi, a seguito di crisi aziendali o delocalizzazioni, la stessa formazione specifica non era più spendibile in quel mercato del lavoro per cui era stata organizzata. Oltre al fatto che, probabilmente, alcune competenze specifiche rischiano di diventare obsolete nel corso degli anni.
Il riferimento del professore all’individualizzazione è per noi è importante, perché nei confronti del gruppo classe dobbiamo prestare attenzione ai bisogni individuali; mentre, nella logica della scuola proposta dai riformatori, il rischio è quello di considerare della persona unicamente a partire dalle proprie doti individuali, per sviluppare quelle in modo esclusivo ma di fatto condannandola a non emanciparsi rispetto alle proprie doti di partenza.
Non esiste più l’idea di un tempo, magari utopica, che individuava nelle scuole professionalizzanti la possibilità di creare una personalità capace di emanciparsi sul piano culturale, di imparare a fare altro rispetto alle sue competenze iniziali, di aspirare a una posizione sociale e intellettuale migliore rispetto a quella occupata all’inizio del percorso di studio; e non semplicemente spingerlo a mettere in atto quelle doti manuali, produttive etc a cui sembra già dall’inizio destinato.
Alcune riforme degli istituti tecnici, regionali etc, mirano proprio a questo, cioè unicamente a far raccordare tutte le discipline del curricolo su quest’ultimo scopo produttivo.
Il problema è che questo viene imposto agli insegnanti come una sorta di dovere deontologico. Se il fine della scuola è fare il bene degli alunni, e il bene degli alunni è in questo momento trovare successo in un mercato del lavoro feroce, bisogna dedicare i nostri sforzi unicamente a questo obiettivo.
Nel libro “Le competenze”, promosso della Fondazione Agnelli, ad un certo punto ci si chiede se la scuola può dare competenze a quegli studenti che hanno un buon titolo di studio, ma saranno costretti a eseguire, in modo frustrante, un lavoro inadeguato alla loro formazione.
In quel libro, tra l’altro, si parla del nuovo mercato del lavoro, per precisare che a esso non tutti potranno avere accesso, anche se tutto ciò viene positivamente descritto come un passaggio da un welfare passivo ad uno attivo.
Le competenze necessarie da parte di questi lavoratori parzialmente frustrati e a rischio, secondo quell’analisi, coinciderebbero proprio con le capacità di farsi forza e di rimanere attivi e produttivi in un mercato del lavoro per loro sempre a rischio.
Non si tratta, quindi, di una competenza attiva in cui si dà un contributo all’apparato produttivo a cui si partecipa, ma unicamente della capacità di accettare una condizione lavorativa sempre a rischio e di attivarsi continuamente per darsi da fare in un orizzonte competitivo nel quale ci si deve imporre. L’insegnante deve preparare gli studenti ad un destino di futura diseguaglianza.
A questo discorso si collega il tema del mismatching scuola-produttività, di cui si parla da tempo.
Sembrerebbe che il mondo produttivo sia lì in attesa di chissà quanti lavoratori, pronta a offrire loro un lavoro di qualità, a dei professionisti che però non ci sono in quanto la scuola non è in grado di formarli. In realtà tali casi sembra che possano riferirsi solo a piccole realtà locali, che non potrebbero certo rappresentare un modello.
Brancaccio: Sono un sostenitore dell’uso dei dati, nel senso che esiste un modo scientifico e critico di analizzare i dati. Da questo punto di vista, i dati ci aiutano a chiarire che esiste una colossale mistificazione, nell’approccio alla scuola, nell’analisi del suo rapporto col mercato del lavoro.
La grande mistificazione sta in quest’idea secondo cui ci sono in linea di principio tanti posti di lavoro disponibili per quanti sono gli studenti che escono dalle istituzioni scolastiche e ci sarebbe tuttavia, dicono, un problema di mismatching. Ossia di mancato incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, dovuta essenzialmente al fatto che questi giovani non hanno le competenze necessarie per venire incontro alle esigenze del mondo produttivo.
Se fosse vera questa tesi, noi dovremmo registrare nei dati statistici disponibili una corrispondenza tra lavoratrici e lavoratori disoccupati da una parte e posti di lavoro vacanti messi a disposizione, dall’altra. Dovrebbero grosso modo coincidere o quanto meno non essere molto distanti.
Per cui a quel punto si potrebbe affermare che il motivo per cui ci sono disoccupati da un lato e posti vacanti dall’altro è dovuto al fatto che, evidentemente, questi disoccupati non hanno le competenze per poter occupare quei posti vacanti. Se fosse vero questo, l’impianto e l’interpretazione avrebbe senso.
Il problema è che non soltanto in Italia, ma a livello internazionale, potremmo dire a livello di mondo capitalistico, il numero dei disoccupati è sistematicamente e significativamente molto superiore al numero di posti vacanti disponibili.
Addirittura in Italia, nel corso dell’ultimo decennio, ci siamo trovati con un rapporto tra disoccupati e posti vacanti disponibili per cui il numero dei disoccupati è all’incirca 10 volte più grande del numero dei posti vacanti disponibili.
Già solo questa semplice ed elementare evidenza empirica ci aiuta a chiarire che in questa narrazione dominante qualcosa evidentemente non funziona.
E allora qual è il discorso retrostante? A mio parere il discorso non è quello della costruzione delle competenze necessarie ad incontrare le esigenze del mondo produttivo e delle imprese.
Questo va messo da parte visti i dati. No.
L’esigenza è sempre di mismatching, di squilibrio che va pareggiato, ma finalizzato al fatto che bisogna aiutare lo studente, il giovane che si affaccia al mercato del lavoro ad adattarsi, ad abituarsi.
A tollerare, ad accettare e restare in una condizione di disciplinamento, sotto comando capitalistico, per cui le poche occasioni che avrà deve prenderle al volo; deve immediatamente accettarle, pena il rischio che dalla prof.ssa ForNero a John Elkan venga definito choosy, ossia schizzinoso, non disposto a farsi sfruttare.
Qui c’è il problema dell’interesse dei ragazzi. Che cosa dobbiamo fare nell’interesse delle giovani e dei giovani studenti? Qual è il loro interesse? Questa è una questione senza dubbio dura da dirimere.
Io penso che sia nell’interesse di questi giovani avere dentro la loro testa la possibilità di concepire una critica di sistema. E anche la possibilità di concepire una critica del sistema nella consapevolezza che questa critica deve costruirsi sulla base di una intelligenza collettiva.
Instillare questo seme del dubbio, che qualcosa non funzioni nel sistema, un po’ come accade nel celebre film Matrix, accennare la critica e il bisogno dell’intelligenza collettiva per cambiare lo stile dei singoli, questo è il compito della scuola e delle istituzioni formative nell’interesse degli studenti.
Arangino: Questa logica di disciplinamento mi pare si intraveda nella generalizzazione nelle pratiche di benchmarcking e valutazione standardizzata; scale di buoni e cattivi, eccellenti ed efficienti, che è un tipo di logica che si vuole introdurre in maniera ancora più pervicace nella scuola e nelle università (ruolo dell’istituto INVALSI e dei test di misurazione delle competenze).
Brancaccio: A rischio di essere considerato un positivista, quale non sono, io credo che i dati siano importanti. Il problema è quello di capire le basi su cui si costruisce il dato.
Prendiamo le classifiche, di cui siamo inondati: dagli studenti alle scuole, alle università. Io riporto l’esempio di un sito web che ha avuto un grande successo ROARS, e che è stato fondato e gestito da un gruppo di professori universitari.
Su ROARS hanno mostrato tante volte come queste classifiche siano totalmente fallaci, bizzarre, talvolta irrazionali, perché servono solo la razionalità della giustificazione del sotto-finanziamento e della centralizzazione in poche mani delle risorse che ci sono.
Il problema del dato è un problema della sua costruzione. A me interessa anche un altro aspetto. E cioè che il dato, nella forma di classifica, può essere visto come l’ennesima dimostrazione e prova di una degenerazione individualistica e competitiva del sistema.
Da questo punto di vista c’è qualcosa in questa ossessione per il dato e la classifica che ha una natura persino antropologica. C’è un meccanismo antropologico che gioca a favore del dato, della classifica numerica, ed è secondo me questa tentazione da parte di ciascuno di noi, anche di voi docenti, a compensare l’ansia, l’angoscia dell’incertezza del vivere, con il confronto del dato, ossia una misura del sé che sia altra da sé. Vedo docenti che non fanno altro che cercare di capire dove si trovano in classifica, senza più avere il benché minimo approccio critico alla classifica stessa.
Questa è una degenerazione antropologica, la costruzione di un nuovo tipo umano, persino tra noi docenti, che risultiamo vittime di questa incertezza generalizzata, per cui andiamo alla ricerca del dato, accettiamo la mortificazione se il dato ci punisce, ci entusiasmiamo per la gratificazione se il dato ci premia.
A quel punto, l’idea di un’intelligenza collettiva, e del sapere come processo collettivo svaniscono. Anche i migliori talvolta vengono presi da questa terrificante malattia, a dimostrazione di quanto l’ideologia dominante sia pervasiva anche nelle migliori menti.
Arangino: Nel PNRR si conta di incrementare le misure di valutazione sia nella scuola che nell’università.
Carosotti: Il sapere “apparentemente inutile” che valorizza se stesso, che importanza ha avuto anche nella sua formazione di economista?
Brancaccio: Quel sapere meravigliosamente inutile, quel pensare per pensare, quel gioco dialettico della ricerca di una comprensione più generale dei processi non è diventato inutile, tutt’altro. E’ diventato un privilegio. Dei ceti superiori, della classe dominante, che ci propina il problem solving e destina al proletariato intellettuale il mero problema della risoluzione processuale, e riserva per sé quel sapere inutile e meraviglioso che è poi l’unico modo per comprendere il mondo come funziona.
Non meraviglia che dei capitani di industria, coloro che detengono le leve del potere, si formino in termini classici. Il comando capitalistico ha fatto studi classici, dove per studi classici intendo anche una concezione dialettica della scienza.
Tutta la distinzione tra approccio umanistico e scientifico è fuorviante. C’è una distinzione di livello tra il mero e proletario problem solving e l’aristocratico sapere totale. Quella è la vera distinzione.
Una cosa sul PNRR. Sul Financial Times insieme ad altri colleghi ho cercato di chiarire che questa ripresa, di cui si stava già parlando, era una ripresa di rimbalzo, cioè fondamentalmente quando precipiti nel fondo delle cose devi in qualche modo risalire.
Si dice che recupereremo il 5% del PIL, ma avendone perduto il 10% nell’anno passato ciò significa che recupereremo a stento la metà di quel che abbiamo perso. Dico questo perché credo che bisogna innanzitutto sfatare il mito del PNRR come grande determinante della ripresa economica dinanzi al quale ci troviamo.
Le cose non stanno esattamente così. Difatti è una ripresa più modesta di quanto si lasci intendere. Il piano europeo complessivo è caratterizzato da risorse – insisto, contrariamente alla vulgata, – modeste, molto modeste.
Basti notare semplicemente che dovrebbero essere nel complesso non quei 209 miliardi di cui si parla, fondati su calcoli completamente errati, ma circa 60 miliardi in 6 anni, quindi al limite una decina di miliardi all’anno.
Considerato che abbiamo perso circa 150 miliardi soltanto l’anno scorso si capisce che le dimensioni macroeconomiche del PNRR non sono particolarmente rilevanti. E’ questa poi la spiegazione per cui l’obiettivo strategico di questi piani di ripresa economica è sempre quello di centralizzare in poche mani le scarse risorse che vengono messe a disposizione per es. delle istituzioni pubbliche.
Ancora una volta, contrariamente a quello che si sta dicendo e nonostante il grande piano europeo, assisteremo purtroppo ad una situazione di penuria di risorse, che presto si paleserà. È la nuova tendenza verso la centralizzazione, i centri di eccellenza, le scuole e università di serie A contro le scuole e università di serie B.
La logica, purtroppo, da questo punto di vista, non è cambiata e, se posso permettermi, il tecnico Draghi, l’esperto Draghi, è la perfetta incarnazione di questa fenomenologia.
Carosotti: La ringraziamo e chiudiamo qui, non senza aggiungere che sull’autentica didattica della scienza, si contrappone la moda attuale delle cosiddette discipline STEM, che è di fatto, come è in effetti scritto nel PNRR, l’insegnamento delle discipline scientifiche finalizzato puramente al problem solving e alla praticità, senza alcuno spessore teorico.
La ringraziamo per questo contributo importante e illuminante, con il quale speriamo di aumentare la consapevolezza nei colleghi, in modo da riuscire a far fronte a quest’offensiva che vede proprio la scuola al centro dell’azione dell’attuale governo.
La scuola è la prima cosa da cambiare, per realizzare quei processi di soggettivazione (disciplinamento) nei confronti degli alunni, ma in parte già compiuto ormai anche verso i docenti, al fine di creare quella mentalità e soggettività disciplinata di cui ci ha parlato.
Qui il link per ascoltare il dibattito:
https://www.youtube.com/channel/UCTQn6zIjFf_h5T7-DwUmSaA
* da Roars – Return on Academic Reserch and School
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