La crisi francese è una tragedia per l’Unione Europea. Nello stesso momento in cui Ursula von der Leyen legge il suo «discorso sullo stato dell’Unione» davanti ad un parlamento distratto e spaccato (ne parleremo a parte), si insedia il nuovo primo ministro scelto da Emmanuel Macron e parte la prevista protesta, con sciopero egnerale, convocata «dal basso» e via social, ma con La France Insoumise come terminale politico di riferimento.
Appare emblematica la scelta di Sébastien Lecornu, per anni ministro della Difesa («un vero duro», verrebbe da pensare) sotto la cui “guida” l’esercito francese è stato praticamente cacciato dall’Africa, portando a conclusione il lento disfacimento dell’ex potenza coloniale.
Vedremo nel corso della giornata come evolverà la protesta, che il vecchio-nuovo governo (i protagonisti si scambiano le poltrone, ma restano più o meno gli stessi) affronta col solito piglio repressivo (75 arresti nella prima ora di proteste, circa 80.000 poliziotti schierati dal ministro dell’Interno Bruno Retailleau, 6.000 soltanto a Parigi), ma è evidente che persino «Houdini» Macron ha esaurito le tattiche per svicolare.
Il programma politico è il solito, deprimente, ricettario dell’austerità “europea”: taglio della spesa pubblica, ma solo di quella sociale (pensioni, sanità, scuola, ecc), mentre si prevede di aumentare – come in tutta Europa – quella militare, per far fronte al diktat statunitense (portare la spesa pro-Nato almeno al 5% del Pil).
Il tutto mentre si corre a mettere insieme una coalizione internazionale di «volenterosi» che dovrebbe mandare truppe in Ucrana non appena verrà raggiunto un cessate il fuoco (garantendo così che durerebbe lo spazio di un mattino). Truppe che peraltro, a parte Parigi e quegli squinternati dei «baltici» nessuno vuol mettere se non ci saranno anche gli statunitensi (che se ne guardano bene).
Per un programma del genere occorrerebbe una maggioranza – nell’Assemblea Nazionale ma soprattutto nel paese – quasi totalitaria e con grande solidità interna. Un sogno da disadattati, in presenza di tre blocchi praticamente equivalenti (fascisti, centristi e sinistra più o meno radicale) e fortemente frammentati all’interno.
Ma all’indomani del primo governo sfiduciato il oltre 70 anni di République (gli altri si erano dimessi o a fine mandato) mettere insieme una maggioranza qualsiasi risulta un’impresa titanica.
La deputata Clemence Guette, de La France Insoumise, impietosamente scrive:
Sébastien Lecornu è primo ministro. Macronista fin dalla prima ora, e ora anche dall’ultima.
Ministro dal 2017, con l’ascesa al potere di Emmanuel Macron, il presidente si sta rifugiando nei suoi ultimi fedelissimi, aggrappato al trono e senza alcuna soluzione per uscire da questo pasticcio.
Il compito che gli è stato affidato è quello di formare un governo negoziando un’alleanza tra socialisti e repubblicani. Il suo bilancio sarà simile a quello di Bayrou. Lo combatteremo per le stesse ragioni.
L’umiliazione dei socialisti e degli altri pretendenti al titolo è totale. I tradimenti saranno stati vani.
Lecornu cadrà come i suoi predecessori.Quanto a Macron, ci sta facendo perdere tempo più che mai. Presto, arriveranno le dimissioni o il licenziamento.
La formazione guidata da Jean-Luc Mélénchon, in effetti, ha presentato in parlamento una mozione per far dimettere il presidente (sarebbe anche questa la prima volta, nella Quinta Repubblica, costruita intorno alla figura di un presidente di fatto «intoccabile»).
Forma costituzionale a parte, però, in ogni paese europeo la situazione è praticamente la stessa, con una classe politica generalmente sfiduciata dalla popolazione, ma indifferente all’impopolarità e tutta chiusa in se stessa, incapace di far fronte alla crisi (sia economica che di progetto). Pronta a cambiare mille volte il nome da mettere in primo piano, con o senza una maggioranza (basterebbe guardare l’analoga crisi britannica), e altrettanto pronta a reprimere le proteste popolari indotte da infinite ragioni (tutte «inaccettabili» per la classe dominante).
Lecornu è ufficialmente incaricato di «consultare le forze politiche rappresentate in parlamento in vista di approvare il bilancio per la Nazione [la legge di bilancio, ndr] e costruire gli accordi indispensabili alle decisioni dei prossimi mesi». In pratica, non si ha idea di come mettere insieme i pezzi necessari per trovare una maggioranza, ma si spera venga fuori tastando il terreno e promettendo prebende.
Persino i disponibilissimi «socialisti» di Faure, che si erano detti pronti a qualsiasi scambio purché fossero messi alla guida de nuovo governo, hanno dovuto mostrarsi delusi e contrariati da questa scelta «continuista» tra cani da guardia del «capo». Partecipare al nuovo governo sarebbe per loro un suicidio elettorale, in vista delle prossime amministrative.
E’ insomma diventato esplicito che il problema principale della Francia è… Emmanuel Macron.
Al presidente si rimprovera da sempre di preoccuparsi più del suo ruolo internazionale che della situazione del paese, di aver favorito la finanza a scapito della produttività, di aver innescato un regresso sociale e un impoverimento che si sta allargando a macchia d’olio nonostante un debito pubblico in costante crescendo.
La cura che voleva imporre al paese non è andata giù a nessun perché in sostanza prevedeva tagli che avrebbero colpito i meno fortunati senza sfiorare neanche simbolicamente i più ricchi. La goccia che aveva poi fatto travasare il vaso dello scontento era stata l’abolizione di due giorni festivi, una misura che avrebbe portato nelle casse dello stato appena una quarantina di milioni. Più un gratuito schiaffo in faccia a chi lavora, che non una misura economica «indispensabile».
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