“Mettiamola così: avete noleggiato una macchina, avete fatto il diavolo a quattro per averla, l’avete usata per tre anni abbondanti e ora che la riportate al noleggiatore ha le portiere rigate, una crepa nel parabrezza, le gomme tagliate, un parafango che pende, e la radio non va. Più o meno è quello che ha fatto Matteo Renzi col Pd, partito dalla fiammante fuoriserie del 40 per cento alle Europee, è arrivato a combattere come un fante sulla linea del Piave del 25 per cento, se il Signore gliela manda buona.
Su quei numeri, gli italiani si sono visti costruire un’epopea, una mitologia, ne hanno subito ad ogni passo la ripetizione ossessiva. Il refrain del 40 per cento (da accoppiare a “ottanta euro”) è ormai parte delle nostre vite come certe canzoni estive che abbiamo canticchiato tutti per un mese e poi puff, via, sparite. Anche il 25 per cento è un numero che torna, perché è quello che prese Bersani quando “non vinse” le ultime elezioni. Una percentuale che Renzi e renzisti irrisero in tutti i modi, facendone oggetto di scherno e di sarcasmo… “Noi non siamo quelli del 25 per cento!”, diceva ieri quello che oggi spera di arrivare al 25 per cento. Testacoda, vertigine.
La frasetta che Renzi sfodera a questo punto è “senza aver subito una scissione”, che significa che sì, vabbé, prende poco come fece Bersani, ma con lui sono stati cattivi e alcuni se ne sono pure andati e quindi anche se prende sei e come se fosse un otto più. Ci sta dicendo che il suo 25 è come un 40, in questi casi, come si dice, conviene non contraddirlo, tutti abbiamo avuto in classe, in seconda media, uno così.
Quel che più stupisce, però, è il totale ribaltamento delle prospettive politiche. Renzi partiva per fare un partito maggioritario, di governo monocolore, solido, quasi un presidenzialismo (con lui presidente, ovvio), con tutte quelle scemenze che sappiamo, tipo “si sa chi vince la notte delle elezioni” eccetera, eccetera. E ora, apertamente, teorizza una specie di craxismo equilibrista, calcolando che se resta vivo (il famoso 25 per cento) potrà gestire il complesso bilancino dei poteri per non perdere aderenza, per non arretrare ancora.
Quelli che volevano l’Italicum, con premio di maggioranza assurdo per governare senza se e senza ma, ora fremono per entrare nel circo dei se e dei ma, delle trattative, dei bilanciamenti, dei do ut des. E’ più o meno quello che la retorica renzista chiamava “la palude”. Basta con la palude, dobbiamo uscire dalla palude, io vi porterò fuori dalla palude…, detto da quello che oggi affida la sua sopravvivenza alla palude di qualche larga intesa.
Va bene, il cinismo della politica non ci stupirà, anzi, come italiani abbiamo qualche master in materia. Però rimane sempre strabiliante come un partito possa fare una politica – rivendicandola e rivestendola ossessivamente di propaganda – e poi farne un’altra, diversa, opposta, negata fino a un minuto prima, sbeffeggiata per anni. E come questo possa farlo lo stesso leader, la stessa persona. E ancor più strabiliante è che possano votarlo gli stessi elettori, che siano antichi elettori del Pd o entusiasti nuovisti, quelli che già facevano tenerezza ai tempi del “Con Renzi si vince”, quelli che si illudevano di mirabolanti modernità e che ora si trovano a sperare – con lo stesso leader che predicava il contrario – nella vecchia, deplorevole, trita logica dell’ago della bilancia.
Per disegnare la parabola del renzismo, insomma, non serve aspettare il 5 marzo. Con il fiero propugnatore dell’abolizione del Senato che si presenta da senatore, si svela anche ai ciechi che il fine ultimo del renzismo è il mantenimento in vita del renzismo, una sedia al tavolo da poker delle alleanze e delle mediazioni, e dopo si vedrà. Un po’ poco per gli arditi giovanotti che volevano cambiare tutto, oggi aggrappati come naufraghi alla speranza che non cambi nulla.”
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