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La privatizzazione estrema: la Cia

La notizia è stata resa nota dal Washington Post di qualche giorno fa, con un articolo di Julia Tate intitolato “La fuga dei cervelli della Cia”.

Tutto – paradossalmentesembra essere partito con 11 novembre 2001. Nel momento di massima tensione patriottica statunitense, almeno a far data da Pearl Harbour (1941), il pilastro centrale dello spionaggio imperiale ha cominciato a perder pezzi. Proprio nel momento in cui tornava più utile, decine di suoi dirigenti hanno cominciato a migrare verso meglio remunerate poltrone in società private. Esattamente come i combattenti meglio addestrati facevano, negli stessi mesi, diventando contractor impegnati in Iraq, Afhanistan e ovunque le società di appartenenza abbiano bisogno del loro job.

Mercenari, insomma. Non è una novità, nella storia del mondo. Il “mestiere delle armi” ha una tradizione millenaria, narrata e descritta in migliaia di romanzi, film, ricerche storiche. Combattono e magari muoiono, ma possono cambiare casacca, ragioni, padrone. Saltano la barricata con molta facilità, se vedono che la partita è persa. Nessuno li critica, per questo. Sono una “professione”, non una struttura vincolata a responsabilità di ordine morale, nazionale, etico o comunque vogliate qualificare una “appartenenza indissolubile” a un determinato insieme umano.

Le spie hanno invece una professionalità un po’ diversa. Si identificano con la struttura più profonda e indissolubile dello Stato. La “fedeltà” è un requisito che richiede adesione totale alle ragioni e ai progetti di uno Stato consapevole di sé. Non solo retorica patriottarda, ma convinzione ideologica, condivisone di obiettivi al di là del contingente. Anche qui i salti della barricata avvengono spesso, e altre migliaia di romanzi, film, ecc, ne hanno fatto un topos globale; ma sono considerati un crimine assoluto – un tradimento – da tutte le parti in guerra. Una spia poteva cambiare schieramento per soldi, ricatto, convinzioni politiche. Ma se lo faceva passava in un “altro mondo”; opposto, nemico in senso biblico.

Il Washington Post riferisce – con nomi e cognomi – di almeno 91 dirigenti di livello della Cia hanno lasciato per passare nel settore privato; nei ranghi medi e inferiori la cifra diventa una città. È stato un periodo travagliato. Molte delle posizioni di vertice hanno cambiato volto più volte: tre capi, quattro vicedirettori per le operazioni, tre consiglieri del centro di controterrorismo e tutti e cinque i capi divisione il servizio il giorno della attacchi dell’11 settembre. Dunque, all’origine della “fuga” c’è una voglia di repulisti dettata da esigenze politiche. Bush il giovane “doveva” far vedere che c’è qualcuno che pagava per il fallimento clamoroso nel contrastare le cellule di Al Qaeda che avevano abbattuto le Twin Towers.

Ma c’è qualcosa di più, che affonda nel costume tutto statunitense di passare indifferentemente dal settore pubblico a quello privato e viceversa. Presidenti, ministri, funzionari politici di prima grandezza, eleggibili o meno, entrano ed escono dalle segrete stanze del potere politico arrivando o tornando al timone (o comunque sul ponte di comando: i consigli di amministrazione) di qualche multinazionale o, ancora più spesso, di qualche banca. Cheney, Clinton, Bush padre e figlio, e centinaia di nomi al tempo altrettanto famosi hanno dimostrato con il loro esempio che tra “capitale” e “bene pubblico” non c’è nessunissima differenza. Dal nostro punto di vista, quindi, hanno confermato che non c’è alcun bene pubblico che possa essere “difeso” in regime capitalistico; sia esso l’acqua, l’ambiente o l’intelligence. Questa assoluta scambiabilità tra ruoli pubblici e privati crea una cultura, un ambiente, delle pratiche, che permettono all’interesse privato di “permeare” quello pubblico. Mai viceversa. Le “privatizzazioni” non sono soltanto una ricetta teorica del liberalismo economico cattedratico; sono anche operazioni che vedono agire gli stessi soggetti su più lati della barricata (privato, pubblico e “arbitro”, ossia le authority).

E così a Washington, molti funzionari della Cia vedono questo trasferimento per il settore privato come una cosa naturale. Del resto anche le consulenze per la difesa privata, negli ultimi decenni, hanno visto diventare routine la “presa a nolo” di generali in pensione direttamente dal Pentagono; le stesse società che fanno lobbismo nel Congresso (è legale) sono piene di ex membri del Congresso e di funzionari dell’amministrazione. È comprensibile: chi meglio di loro è in grado di avvicinare i nuovi membri del parlamento e “convincerli” a sostenere certe leggi o certi progetti invece che altri?

L’ondata di partenze dalla Cia ha segnato la fine di una cultura di discrezione e moderazione vecchia di decenni. Chi usciva dall’”agenzia”, prima, diventava un pensionato. Oppure faceva conferenze, giornalismo (l’insopportabile Luttwak che ci ammorba a intervalli regolari in tv, o Michael Ledeen diventato romanziere “di genere”); insomma mestieri diversi, magari facilitati dalla precedente esperienza, ma in altri campi.

Solo a questo punto qualcuno, nell’amministrazione, ha cominciato a preoccuparsi. Veterani di grado elevato lasciano con un “bagaglio di conoscenze istituzionali, numerosi contatti personali e la conoscenza degli affari del mondo che è propria soltanto di quelli che lavorano presso principale agenzia di intelligence del paese”.

 

Il Washington Post propone un elenco di nomi e finzioni davvero inquietante. Stephen Kappes, responsabile dell’agenzia di Mosca e che aveva contribuito a negoziare il disarmo della Libia nel 2003. Henry Crumpton, uno dei primi ufficiali della Cia in Afghanistan dopo gli attacchi dell’11 settembre; Cofer Black, direttore del centro antiterrorismo fino l’11 settembre.
“L’esodo verso il settore privato è stato guidato da una esplosione nella domanda di intelligence”. E viceversa. Il Post calcola che delle 854.000 persone con privilegi top-secret, 265mila sono ora contractors. Sostituiti in genere, per coprire funzioni che altrimenti resterebbero pericolosamente scoperte, da altrettanti contractors. Magari “affittati” dalle stesse società che hanno assunto i loro predecessori. E infine diretti, nelle società private, proprio da chi occupava quelle poltrone prima di loro. Il “dentro-fuori” è diventato un flusso gigantesco di spie che lavorano per lo Stato o per qualche azienda. Magari in contemporanea (con un po’ di attenzione).
Ai contractors nel “pubblico” sono oggi affidati una vasta serie di compiti: dalla valutazione dei rischi di sicurezza all’analisi di intelligence, fino alla realizzazione di azioni di “attenuazione del rischio” in paesi stranieri. Sentiamo puzza di eufemismi, vero?
“Un gran numero di persone ha lasciato l’agenzia prima di quanto si potrebbe pensare, e c’è stato un grande afflusso di persone più giovani”, spiega Robert Grenier, un veterano con 27 anni nella Cia, ma che ora è presidente della Erg Partners, branca di una banca d’investimento specializzata nel settore dell’intelligence. “L’esperienza media di un funzionario di oggi è molto inferiore a quella tradizionale, e ciò ha i suoi effetti sull’agenzia”.
Per le imprese private il vantaggio di avere ufficiali esperti a libro paga è difficile da quantificare. Anche se Cia paga ai suoi top manager retribuzioni importantii funzionari più importanti guadagnano sui 180 mila dollari l’annole aziende private sono generalmente in grado di offrire di più.

Per realizzare l’indagine il Post ne ha intervistato molti. Pochi hanno citato, come ragione della loro uscita, “problemi interni” all’agenzia. La maggior parte ammette di essere stata invogliata soprattutto dall’aspetto finanziario. Un ex alto funzionario con più di 25 anni di servizio ha spiegato tranquillamente che aveva dovuto mettere sul piatto della bilancia, da un lato, le opportunità di avanzamento nell’agenzia, e dall’altra il livello delle tasse universitarie per i suoi figli. E ha scelto il settore privato.
Per quanto possa apparire incredibile, dopo la caduta del Muro le agenzie di spionaggio o controspionaggio hanno subito un drastico ridimensionamento di ruolo. E quindi di budget. A che serviva un milione di spie se “il nemico” era di volta in volta un lillipunziano che non poteva competere con gli Usa (cominciarono con Grenada, poi la Panama dell’ex agente Noriega, fino all’ex alleato Saddam). Gli anni ’90 sono stati anni di riforme dell’intelligence. La Cia si è trovata dunque relativamente impreparata a gestire gli eventi precedenti e successivi all’11 settembre Dal 1990 al 1996, il Congresso aveva tagliato bilancio dell’intelligence ogni anno; dal 1996 al 2000 il bilancio dell’intelligence è rimasto sempre allo stesso livello.
Dopo le Twin Towers, improvvisamente è esplosa “la domanda” di una intelligence di nuovo tipo, con altre funzioni. C’era bisogno di persone disseminare in Afghanistan; di interpreti e linguisti di primo livello. E specialisti in “interrogatori”. Sia dall’interno che dall’esterno della Cia si è così rapidamente arrivati alla conclusione che la Cia aveva bisogno di contractors.

Richard “Hollis” Helms, funzionario di lungo corso specializzato in esteri, ex capo della divisione europea dell’agenzia, ha fondato l’Abraxas Corp. nei giorni successivi all’11 settembre. Helms ha identificati i settori in cui l’agenzia era più scoperta e ha cominciato aggressivamente a reclutare professionisti del ramo in servizio o in pensione.
Tra questi gli analisti di medio livello della Direzione di Intelligence; ma hanno anche alti ufficiali come Rod Smith, ex capo dell’agenzia di Special Activities Division, e Fred Turco, uno dei principali architetti del centro antiterrorismo della Cia, e l’ex capo delle operazioni esterne. Meredith Woodruff, una delle funzionarie con più esperienza nella Cia.
“Hollis è brillante, ha capito che c’era un enorme mercato da sfruttare là fuori. Ha stampato denaro per un po’, assumendo tonnellate di funzionari Cia e raddoppiando il loro stipendio. È stato il primo nella Cia a capire tutto”, racconta un ex “capostazione”, termine che definisce il più alto in grado in un’ambasciata Usa. “Si poteva vedere gente che lasciava la Cia il venerdì e tornare il lunedì a fare lo stesso lavoro, ma per conto di Abraxas”.

Barry McManus, un veterano dell’agenzia, è stato tra i primi ad entrare in Abraxas. Aveva trascorso nella Cia tutta la sua vita, fatta eccezione per pochi anni presso la polizia di Washington DC. Aveva cominciato come guardia del corpo dell’allora direttore della Cia, William J. Casey; poi aveva scalato i ranghi, lavorando in più di 130 paesi. Nel 1993 era diventato il capo della sezione “esame e interrogatori”, responsabile dei “colloqui sospetti terroristi di alto livello”. Un bel tipino, insomma.
A 50 anni, nel 2003, poteva andarsene in pensione (non ridete; qualche privilegio in un mestiere così sembra naturale a molti paesi). Invece ora fa il vice presidente di Abraxas, dirige la formazione e dell’addestramento, trasmettendo il suo know how a forze dell’ordine e di intelligence di mezzo mondo. Tra i suoi contratti ce n’è uno con l’Enforcement Training Center federale.
Ci guadagna? Secondo i contratti governativi documentati, in quattro giorni di seminario per i funzionari dell’immigrazione su “individuare l’inganno e sollecitare risposte”, nel 2006, McManus tirato su quasi 40 mila dollari. Un anno dopo, si è assicurato un contratto da 238.000 dollari per far lezione come “ospite”. Tra i benefit concessigli per il suo lavoro in Abraxas una Maserati GranTurismo nera, da 160.000 dollari.
Helms, fondatore di Abraxas, ha rifiutato di essere intervistato. Nel 2009, la sua società privata aveva 470 dipendenti e un fatturato annuo di 90 milioni. Alla fine dell’anno scorso, Cubic, un altro imprenditore della difesa, ha acquisito Abraxas per 124 milioni.

Chi vuol leggere tutta l’inchiesta del Washington Post può farlo all’indirizzo http://www.washingtonpost.com/world/cia-has-hemorrhaged-top-employees-to-private-sector-in-past-decade/2011/03/25/AF3Nw1RD_story.html.

 

Quello che qui ci preme mettere in evidenza è però lo slittamento decisivo, sul piano “istituzionale”, che avviene con questo trasferimento di competenze strategiche dal “pubblico” al “privato”. Se nell’immediato la mossa sembra garantire qualche “efficienza” in più, accompagnata dal consueto apparato di luoghi comuni (anche realistici) sulla “sburocratizzazione”, il “largo ai giovani” e via benedicendo, a lungo andare non potrà non avere effetti sull’unicità della catena di comando. La sovrapposizione di interessi privati e statali, in primo grado, ha effetti solo sui “costi” che lo stato Usa sopporta per fare le stesse cose (un problema già esploso nel caso della Blackwater in Iraq, casualmente società controllata da Halliburton – multinazionale fondamentalmente petrolifera – gestita a lungo dal vicepresidente Dick Cheney). Ma una volta diventata “normalità” quotidiana, non può che introdurre anche diversità di interessi strategici.

Come? Le società private di intelligence che lavorano per la Cia sono già ora un certo numero. Il loro assetto proprietario, come si conviene sul mercato, è continuamente sottoposto a fusioni-acquisizioni. Non è assurdo pensare che, una volta incorporate in holding multinazionali (ovviamente a “testa Usa”, su certe cose non c’è globalizzazione che tenga) possano essere “stimolate” a incentivare – lobbysticamente – determinate linee di intervento (paesi, settori, pariti) invece che altre. Magari in “concorrenza” tra loro.

Se si vogliono vedere i segnali di decadenza dell’imperialismo, si possono registrare anche questi.

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