La fabbrica del falso e la guerra in Libia
“Attraverso la ripetizione, ciò che inizialmente appariva solo come accidentale e possibile, diventa qualcosa di reale e consolidato”
G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie del Geschichte, in Sämtliche Werke, Frommann, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1971, Bd. 11, p. 403.
L’attacco della Nato contro la Libia iniziato il 19 marzo 2011 rappresenta un caso emblematico a più riguardi. In primo luogo, conferma in modo eclatante una verità più generale: nel mondo contemporaneo la propaganda, la guerra delle parole e delle immagini è ormai parte della guerra stessa. In secondo luogo, evidenzia la confusione che regna in una sinistra che – anche quando si pretende “radicale” e conseguente – in Italia come in tutti i paesi occidentali, ha dimostrato una sorprendente arrendevolezza e subalternità rispetto alla propaganda e all’informazione ufficiale. Si tratta di un fenomeno tanto più significativo in quanto anche in questo caso – come già era accaduto per l’Iraq – gli stessi Paesi aderenti alla Nato si sono presentati all’appuntamento divisi: l’astensione della Germania già in sede Onu si è trasformata in decisa presa di distanza dalle operazioni, e la stessa Turchia ha manifestato il proprio dissenso rispetto alla conduzione della guerra. Ma mentre ai tempi della guerra di Bush le divisioni nel campo imperialista avevano grandemente giovato al movimento per la pace, in questo caso nulla di questo è avvenuto. Lo stesso gruppo parlamentare della GUE al Parlamento Europeo si è spaccato, e nel nostro Paese si è assistito al grottesco spettacolo di un PD assai più guerrafondaio degli stessi partiti di governo, mentre SEL ha tenuto un atteggiamento inizialmente ondivago (con una parte della base favorevole all’intervento) e soltanto la Federazione della Sinistra ha avuto da subito posizioni intransigenti sull’argomento.
In questo articolo esaminerò i principali dispositivi che la fabbrica del falso ha posto in essere nel caso della guerra di Libia, e proverò ad individuare i motivi di fondo che hanno indotto molti, anche a sinistra, a cedere alla propaganda di guerra. Nel mio argomentare metterò in gioco lo schema interpretativo che ho esposto più diffusamente nel mio libro La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (DeriveApprodi, 20112). In questo testo proponevo un insieme di strategie di attacco alla verità non assimilabili alla menzogna pura e semplice. Vediamo come queste strategie sono entrate in gioco nel caso libico.
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La verità mutilata
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La verità viene mutilata quando nel trattare di un evento non si fa menzione del contesto in cui si colloca, delle circostanze, di ciò che gli sta attorno. O, semplicemente, la si racconta a metà.
Nella famosa sequenza dell’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Bagdad, divenuta una delle icone della guerra in Iraq, le inquadrature mandate in onda sulle tv internazionali e pubblicate sui giornali erano così ravvicinate da non mostrare che la piazza era praticamente deserta e che la “folla festante” si riduceva a poche decine di iracheni.1 In questo caso la verità viene mutilata dal taglio delle foto, che impedisce di vedere lo spazio in cui ha luogo l’evento, e ne induce una falsa rappresentazione.
Nel caso libico esiste un episodio del tutto parallelo. Si tratta della famosa foto che il 22 febbraio i media di tutto il mondo hanno rilanciato con grande evidenza sotto il nome di “fosse comuni in Libia”. Quello che la foto riprende è in realtà un normale cimitero in cui si stanno preparando alcune tombe singole, ma gli scatti che hanno fatto il giro del mondo non consentono di capirlo. Ma c’è di più: come ha rivelato il giornalista Rai Amedeo Ricucci, le stesse foto erano già state messe in rete mesi fa. Lo stesso Ricucci a questo proposito ha raccontato un episodio interessante. Il caporedattore di un’importante agenzia di stampa italiana, accortosi della bufala, fatto presente al suo direttore che si trattava di foto vecchie. La risposta del direttore è stata: “[questa notizia] gli altri la danno, non possiamo bucare”.2
Questo meccanismo è tutt’altro che nuovo. Il 26 e 30 maggio 2004, il New York Times fece autocritica sull’atteggiamento tenuto nei confronti della guerra in Iraq, ammettendo – in un editoriale firmato dalla direzione del quotidiano e poi in un articolo del garante dei lettori – che alcuni articoli “non erano stati rigorosi a sufficienza”, e si erano giovati di fonti “discutibili”. Di più: il quotidiano ammise che la copertura offerta era stata un fallimento “non individuale ma istituzionale”: un “fallimento” fatto anche di titoli strillati in prima con notizie false. In quel contesto il New York Times fece riferimento anche all’“ansia di scoop”, quale movente che avrebbe indotto a pubblicare notizie senza verificarne in misura adeguata l’attendibilità. Anche Franck de Veck (ex direttore del settimanale tedesco Die Zeit) ha attribuito una parte della colpa delle notizie false pubblicate nel caso iracheno alla necessità per i giornali di decidere rapidamente cosa mettere in pagina: “meglio un’opinione, anche non suffragata da prove, che nessuna”.3
Lo stesso è avvenuto nei primi giorni dei disordini in Libia. Se tutti i giornali aprono sui 10.000 morti in Libia, notizia lanciata dalla televisione saudita Al-Arabiya il 24 febbraio e assolutamente inverificabile, io – giornalista della redazione x – che faccio? “Prendo un buco” o la metto anch’io? Da un punto di vista di etica dell’informazione, la scelta dovrebbe essere ovvia: non la metto. In pratica succede quasi sempre il contrario: perché il fatto che tutti mettano una notizia non verificata mi copre se risulterà non vera. E in effetti, la notizia in questione si è rivelata falsa, come false erano le generalità dei presunti funzionari della Corte Penale Internazionale che ne sarebbero stati la fonte. Ma ha contribuito a creare il clima psicologico per predisporre l’opinione pubblica occidentale alla decisione di effettuare un intervento militare in Libia. Lo stesso vale per l’episodio raccontato da Ricucci, con l’aggravante – in quel caso – che la verifica era stata fatta e aveva dato esito negativo.
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La verità messa in scena
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Il mosaico delle verità dimezzate (le presunte atrocità commesse dai soldati di Gheddafi, mentre ovviamente i soldati lealisti ammazzati o umiliati dai rivoltosi della Cirenaica non vengono mostrati, o – quando lo sono – vengono etichettati come “mercenari”) e delle pure e semplici falsità finisce per comporre una più generale verità messa in scena. Una rivolta tribale è trasformata in rivoluzione democratica, gli scontri armati tra ribelli e truppe regolari sono trasformati in “genocidio” ad opera di queste ultime (memorabili alcuni titoli in prima del Fatto Quotidiano), e un personaggio come Gheddafi si trasforma, da un giorno all’altro, da affidabile partner d’affari a una via di mezzo tra Adolf Hitler e Idi Amin Dada; ovviamente, in parallelo alla demonizzazione del dittatore, c’è l’idealizzazione degli insorti, che attinge vette di notevole lirismo. Lo prova tra gli altri un titolo di Repubblica del 23 marzo: “Al fronte in sella a una Kawasaki i sorridenti guerrieri della rivoluzione”; con tanto di sottotitolo rock: “Un inno ispirato a Jim Morrison per l’esercito della nuova Libia”. Il messaggio sottinteso di questa ridicola propaganda di guerra: loro sono come noi, Gheddafi e i suoi sono dei barbari o – come pure è stato detto – “beduini”.
La principale verità messa in scena riguarda però le motivazioni dell’intervento militare occidentale, ossia il presunto diritto all’“ingerenza umanitaria”. Un memorabile testo di Danilo Zolo riferito all’aggressione alla Jugoslavia, come noto giustificata nello stesso modo, reca come titolo le prime parole di una frase di Proudhon: “Chi dice umanità cerca di ingannarti”.4 Sono parole di profonda verità. E non da oggi. Chiunque conosca la storia del colonialismo non avrà difficoltà a rinvenire i precedenti di questa giustificazione. A metà Ottocento, a sentire re Leopoldo del Belgio, la sua Associazione Internazionale per il Congo – uno dei principali strumenti del colonialismo belga – intendeva “rendere dei servigi duraturi e disinteressati alla causa del progresso”. Il raffinato storico dell’arte Ruskin nel 1870 vedeva nell’Inghilterra “un’isola che impugna lo scettro, fonte di luce e centro di pace per il mondo intero”; un’Inghilterra il cui dovere, per adempiere a tale missione, era quello di “fondare nuove colonie il più lontano e il più rapidamente possibile, insediandovi i più energici e valorosi tra i suoi uomini”, per poi “radunare in sé la divina conoscenza di nazioni lontane, passate dalla barbarie all’umanità e redente dalla disperazione alla pace”.5 Oggi la stessa litania la sentiamo nella forma del cosiddetto “imperialismo dei diritti umani” (Ignatieff), o – addirittura – dell’“imperialismo benevolo” (Kaldor). È una litania che negli ultimi anni è stata intonata più volte: a proposito del Kosovo, dell’Afghanistan, dell’Iraq, e ora della Libia.6 Ora, è logico che chi si rende colpevole di una guerra di aggressione preferisca ammantare le proprie azioni con motivazioni altruistiche. Un po’ meno logico è che si dia credito a queste giustificazioni autoapologetiche.
Ma c’è qualcos’altro da dire a questo riguardo: l’“ingerenza umanitaria”, dagli anni Novanta in poi, venuto meno il contrappeso di potere rappresentato dall’Unione Sovietica, è stata il grimaldello con cui gli Stati Uniti e i loro alleati hanno scardinato i principi di non ingerenza e di autodeterminazione dei popoli stabiliti nella Carta dell’Onu del 1948 (art. 1, par. 2 e art. 2, par. 7).7 Purtroppo, quello che oggi sembra difettare a sinistra è la capacità di capire il funzionamento di questo grimaldello e le sue conseguenze devastanti non soltanto per la pace nel mondo, ma per la stessa autodeterminazione delle nazioni.
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La verità rimossa
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Speculare alla verità messa in scena è la verità rimossa. La verità messa in scena ha infatti tra le sue principali finalità proprio quella di nascondere verità scomode. Che in questo caso sono più d’una.
La prima riguarda ovviamente i veri motivi dell’intervento in Libia. Che sono essenzialmente due, tra loro legati: l’opportunità di controllare – dividendolo – un Paese come la Libia e di mettere direttamente le mani su importanti giacimenti petroliferi. “Direttamente” significa: senza le onerose (per le compagnie petrolifere occidentali) royalties che Gheddafi aveva imposto per il petrolio estratto dal territorio libico. Questo risultato sarebbe raggiunto qualora si avverasse la previsione formulata il 28 marzo dal quotidiano arabo (ma stampato a Londra) al-Quds al-Arabi: il risultato dell’intervento militare occidentale potrebbe essere la divisione della Libia in “due stati, un Est ricco di petrolio in mano dei ribelli e un Ovest povero, diretto da Gheddafi… Una volta garantita la sicurezza dei pozzi petroliferi, potremmo trovarci di fronte ad un nuovo emirato petrolifero in Libia, a bassa densità di popolazione, protetto dall’Occidente e molto simile agli Emirati del Golfo Persico”.
Che l’obiettivo sia questo, e non la “protezione dei civili”, ce lo dice meglio di mille parole quello che sta succedendo sul campo. La Risoluzione 1973 dell’Onu, che prevedeva lo stabilimento di una “no-fly zone” per “proteggere la popolazione civile”, è stata da subito violata da Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Che hanno immediatamente compinciato a colpire obiettivi a terra, anche quando si trattava di scontri tra l’esercito libico e i ribelli armati, e anche quando gli obiettivi colpiti erano lontani dal luogo delle operazioni. I più obiettivi, tra gli osservatori, ne hanno dato atto. Qualcuno pacatamente e senza troppo scandalizzarsi. Il generale Fabio Mini, ad esempio, ha scritto il 30 marzo per Repubblica un articolo a suo modo esemplare, che recava questo titolo: “Attacchi a terra e forze speciali. La vera guerra degli alleati per liberare la Libia da Gheddafi”. Ancora più chiaro il sottotitolo: “Non solo no-fly zone: così combatte l’Occidente”. Anche Sergio Romano si è limitato a descrivere quanto accaduto e a prevedere quanto presumibilmente accadrà: “abbiamo constatato che la no-fly zone è divenuta di fatto una guerra combattuta dal cielo (almeno per ora) contro lo stato di Gheddafi per garantire agli insorti una vittoria che sarebbe altrimenti improbabile… Dominati dal timore di fallire, gli alleati si vedranno costretti ad alzare progressivamente la soglia del loro intervento sino a trasformare la protezione dei civili in una vera e propria alleanza con i ribelli”.8
Altri, per deformazione professionale più attenti alle forme giuridiche, qualche preoccupazione l’hanno invece manifestata. È il caso di Antonio Cassese, già procuratore della Corte dell’Aja, il quale ha fatto presente che è giusto colpire un carroarmato che spara sui civili, ma siamo fuori dalla Risoluzione 1973 se è colpito un carro armato che “attacca i ribelli armati”.9 Ciò che appunto sta avvenendo in modo massiccio. Persino il New York Times, quotidiano che pure sostiene a spada tratta l’intervento in Libia, si interroga su “come possano gli alleati giustificare gli attacchi aerei contro le forze del colonnello Gheddafi intorno a Sirte se – come sembra accertato – esse godono di un diffuso sostegno in quella città e quindi non costituiscono alcuna minaccia per i civili”.10 Del resto, poche cose dimostrano il carattere tutto particolare dell’“umanitarismo” che ispirerebbe questa ennesima guerra quanto l’utilizzo massiccio di missili Tomahawk, contenenti uranio impoverito. Massimo Zucchetti, docente di impianti nucleari al Politecnico di Torino, ha calcolato l’uranio che i 112 missili sparati nei primi giorni di guerra avrebbero depositato nel Paese oggetto delle loro attenzioni “umanitarie”: si va dai 3.000 ai 400.000 chili di uranio impoverito.11
La seconda verità scomoda che questa guerra aiuta a rimuovere riguarda la posizione, decisamente imbarazzante, dei Paesi occidentali nei confronti delle rivolte nel mondo arabo. Tutti i buoni sentimenti manifestati nel caso libico – che, come abbiamo visto, si sono per la verità tradotti in cattive azioni – aiutano a far dimenticare una verità fondamentale: ossia l’appoggio che l’Occidente ha prestato in tutti questi anni alle peggiori dittature dell’area. A cominciare da quelle investite dalla prima ondata delle proteste: Tunisia ed Egitto. Se il dittatore Ben Alì era una creatura dei servizi francesi e italiani, nel caso di Mubarak è stato l’appoggio degli Usa il puntello determinante nei suoi 30 anni di dominio incontrastato della scena politica egiziana. Per quanto riguarda gli Usa, c’è un indicatore molto concreto dell’appoggio fornito ai regimi dell’area oggi interessati da rivolte: la quantità di armi vendute a questi Paesi nel 2009. Che rappresenta la metà delle armi vendute a tutto il mondo dagli Usa. In ordine decrescente di importanza, troviamo: 7,91 miliardi di dollari il valore delle armi vendute agli Emirati Arabi Uniti, 2,89 miliardi di dollari all’Arabia Saudita, 1,9 miliardi di dollari all’Egitto, 431 milioni alla Giordania, 295 milioni al Kuwait, 197 milioni al Qatar, 60 milioni all’Oman, 15 milioni alla Tunisia e 3 milioni allo Yemen (pochi ma decisamente singolari, considerato che gli Usa formalmente considerano questo Paese uno “stato terrorista”).12 Infine, per misurare appieno l’onestà intellettuale e la coerenza di certi interventisti socialdemocratici, varrà la pena di ricordare alcuni fatti poco noti, ma non per questo meno significativi. Tanto il partito al potere in Tunisia, quanto quello al potere in Egitto, facevano parte dell’Internazionale Socialista. Ben Alì e il suo partito (l’Assemblea Democratica Costituzionale) ne sono stati estromessi il 17 gennaio 2011, quando il regime era già crollato da 2 giorni; Mubarak e il suo partito (Partito Democratico Nazionale) il 31 gennaio, appena 11 giorni prima che Mubarak fosse estromesso dal potere. Curiosamente, nessun cenno di autocritica su questi imbarazzanti compagni di viaggio è venuto dall’Internazionale Socialista. Che, come niente fosse, il 19 marzo, al termine della riunione tenutasi ad Atene del suo Presidium, ha emesso una dichiarazione in cui si legge tra l’altro: “il successo della transizione alla democrazia in Egitto e Tunisia è di importanza vitale per l’intera regione e in particolare per coloro che hanno subito violenza e repressione in risposta alle loro rivendicazioni. In Libia vediamo che la voce del popolo non è stata ascoltata dal regime, e la situazione sta evolvendo in modo pericoloso. Condanniamo tutti gli attacchi contro civili innocenti e sosteniamo l’implementazione delle misure necessarie che possano salvare vite umane e promuovere una via d’uscita democratica dalla crisi”.13 Un via libera alla guerra: dall’appoggio ai dittatori al sostegno ai bombardamenti umanitari il passo è breve…
La terza verità rimossa da questa guerra è quanto sta accadendo negli altri Paesi arabi. Questa è la tesi sostenuta da Immanuel Wallerstein, che in un suo recente intervento vede il principale scopo di questa guerra precisamente nella “grande e deliberata distrazione dalla principale battaglia politica nel mondo arabo”.14 La ricostruzione offerta da Wallerstein è molto interessante, anche perché egli fa giustamente notare che gli orientamenti a favore dell’intervento in sede Onu sono stati spostati in maniera decisiva dalla risoluzione assunta dalla Lega Araba il 12 marzo, in cui si richiedeva una “no-fly zone”. Risoluzione per la quale l’Arabia Saudita si è battuta ferocemente, conquistando anche gli incerti attraverso due concessioni formali (che si sono già in parte rivelate fittizie): solo una “no-fly zone” e nessun intervento di forze di terra occidentali. Va notato che in Bahrein il 14 marzo (ossia appena due giorni dopo la risoluzione della Lega Araba, ma prima della Risoluzione Onu contro la Libia) le proteste della maggioranza sciita della popolazione sono state soffocate nel sangue grazie all’intervento dell’esercito e dei mezzi corazzati di un altro Paese, guarda caso proprio l’Arabia Saudita. Qui sarebbe bastato molto meno di una “no-fly zone” per evitare questi eventi sanguinosi: infatti il Bahrein ospita la 5a flotta americana.
Ma questo è precisamente uno dei motivi per cui nessuna moral suasion è stata esercitata dagli Stati Uniti sul sovrano del Bahrein e sui suoi alleati sauditi. Già il 23 febbraio, poche settimane prima della violenta repressione delle proteste in Bahrein, su un sito di intelligence statunitense si poteva leggere un articolo dal significativo titolo: “Perché il Bahrein è importante (più della Libia)”. Ancora più interessanti i contenuti dell’articolo: “la situazione in Libia sta andando fuori controllo e domina i media. Ci sono disordini che hanno luogo in posti meno noti, ma strategicamente più importanti. Il Bahrein è un punto di snodo cruciale sia per la competizione tra Iran e Arabia Saudita che per la possibilità per gli Usa di ritirarsi dall’Iraq. Se la situazione in Bahrein andrà fuori controllo, gli Usa potrebbero perdere una base per la loro 5a flotta; la minoranza sciita dell’Arabia Saudita potrebbe far seguito a questi avvenimenti con le proprie proteste; e la bilancia tra Iran e Arabia Saudita nella regione finirebbe per pendere fortemente a favore dell’Iran”.15 Più chiaro di così…
Come si vede la verità rimossa, se portata alla luce, smaschera alla perfezione i meccanismi della menzogna e i loro moventi. Da una parte abbiamo i regimi feudali del mondo arabo, terrorizzati dall’ipotesi che anche a casa loro vengano avanzate pretese di minimale democrazia. Questi regimi però sono “affidabili” e di centrale importanza per l’Occidente, e quindi nessuna violazione dei diritti umani che colà abbia luogo sarà mai sanzionata. A meno che i popoli interessati non riescano a far valere i propri diritti, nel qual caso l’Occidente affannosamente si accoderà agli avvenimenti cercando di avvalorare l’idea di averli determinati, come in Tunisia e in Egitto – quando ovviamente le cose stanno in maniera esattamente opposta. Nel caso del Bahrein questo purtroppo non è avvenuto. E lo scoppio della guerra contro la Libia, il 19 marzo (appena 5 giorni dopo la repressione violenta delle proteste in Bahrein), ha contributo a distogliere l’opinione pubblica internazionale da quanto accadeva e accade nel piccolo – ma fondamentale – Paese arabo.
Ci sono altri avvenimenti cui la guerra di Libia ha sottratto il proscenio del teatro dell’informazione? Secondo Luca Telese sì. A suo avviso “dobbiamo combattere con più forza l’ennesimo nefasto effetto collaterale della guerra. Che è quello di modificare l’agenda del mondo, di distrarre i giornali e le tv, di nascondere con rombare mortale dei Tomahawk nel deserto africano la pestilenza della contaminazione del mondo”. Il riferimento è al disastro atomico di Fukushima, assai peggiore di quello di Chernobyl e comunicato assai peggio di questo (a proposito della trasparenza dei regimi democratici…): sia per la disinformazione posta in opera dal governo nipponico e dalla società responsabile dell’impianto, sia – appunto – a causa dei tamburi di guerra che rullano in Africa. La conclusione di Telese è del tutto condivisibile: “L’Onu dovrebbe intervenire contro un delitto che prolunga i suoi effetti per una era geologica. Invece nel frastuono si cela il silenzio. E il rumore delle bombe ci distrae dall’essenziale”.16
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La verità imbellettata
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L’eufemismo è espressione di una delle fondamentali malattie politico-morali della nostra società: l’ipocrisia. Se La Rochefoucauld definiva l’ipocrisia come “l’onore che il vizio rende alla virtù”, possiamo ben definire l’eufemismo come “l’onore che la menzogna rende alla verità”.17 Il campionario di eufemismi che il nostro tempo ci pone dinanzi agli occhi è impressionante. Tanto da farci ritenere che la loro individuazione ed il loro smascheramento rappresentino oggi uno dei compiti principali del pensiero critico.
La maggior parte degli eufemismi comporta una semplice riformulazione tranquillizzante e rassicurante, attraverso la quale il fenomeno descritto viene per così dire addomesticato e reso innocuo, ossia non più in grado di suscitare reazioni ostili (indignazione, protesta, ecc.). Ovviamente la guerra è per sua natura (ossia per il suo intrinseco orrore) l’àmbito privilegiato per l’impiego degli eufemismi. Il caso libico non fa eccezione. “Missione umanitaria”, “ingerenza umanitaria”, “raid umanitari”, “uso della forza”, “regime change” (che sta per “invasione militare”).
Ma nel caso della guerra, in fondo, lo stesso tabù rappresentato dall’uso di questa parola è ormai caduto. E l’eufemismo si può esprimere quindi sotto forma di qualificazione ed aggettivazione della parola “guerra”: abbiamo così la “guerra per la democrazia”, ed è stata rispolverata per l’occasione anche l’espressione di “guerra umanitaria” (uno degli ossimori più macabri – ma più fortunati – escogitati nei nostri anni).
Ovviamente, per quanto la guerra venga ammantata di scopi elevati, resta sempre il problema di definire in modo consono le vittime civili della guerra stessa. Si tratta di un problema particolarmente imbarazzante in questo caso, in quanto secondo la versione ufficiale la guerra di Libia sarebbe stata intrapresa precisamente per proteggere i civili. In questo caso anche parlare di “effetti collaterali” (la definizione che si adopera usualmente, come se fossero contingenti e trascurabili, anziché una componente essenziale della guerra stessa) non funziona. Al contrario, fa saltare anche gli altri eufemismi. Non stupisce quindi che il 31 marzo il rappresentante del Vaticano a Tripoli, monsignor Giuseppe Martinelli, nel dare la notizia di 40 civili morti in un palazzo crollato nella capitale libica, ne abbia parlato in questi termini: “I raid cosiddetti umanitari hanno fatto decine di vittime tra i civili in alcuni quartieri di Tripoli.” Il giorno successivo tocca al direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, insistere sul punto: “La missione militare internazionale anti-Gheddafi è, come abbiamo avvertito sin dal primo giorno, una missione di guerra. Produce comunque dolore e distruzione e se non difende il ‘bene’ per cui e’ stata autorizzata e avviata – l’incolumità della popolazione inerme e la sua libertà dalla paura e dalla costrizione – si dimostra insensata e ingiusta. Perché si rivela incontestabilmente condotta secondo finalità diverse da quelle del mandato Onu (un edificio civile di Tripoli non è un aereo del rais e non ”minaccia” i cittadini di Bengasi o di Sirte) e si converte nel suo contrario. Diventa, cioè, aggressione”.18
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Le due parole chiave: democrazia e imperialismo
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Questa breve rassegna di meccanismi di costruzione/propagazione della menzogna dovrebbe essere sufficiente ad intendere l’enorme abbaglio preso da tutti coloro i quali, a sinistra, hanno plaudito all’attacco contro la Libia. Non è sufficiente, però, a spiegare come questo abbaglio sia stato possibile. La chiave di volta è tutta racchiusa in due parole, l’una abusata, l’altra indicibile: democrazia e imperialismo.
Il punto essenziale da intendere è che nella costruzione del consenso, molto più delle mistificazioni su singoli fatti, contano i cliché, i frames interpretativi. Un cliché molto forte, e radicato anche a sinistra, è quello che vede l’Occidente come portatore di un sistema politico superiore: la democrazia. Si tratta di un cliché fondamentale nel discorso ideologico contemporaneo. L’Occidente è portatore della “democrazia” e nemico delle “dittature” e dei “totalitarismi”. “Le nostre armi non sono venute nelle vostre città e nelle vostre contrade come conquistatori o nemici, ma piuttosto come liberatori”. Sembra di sentire Obama o Sarkozy: invece è il generale britannico Frederick Stanley Maude, che pronunciò queste parole nel 1920, durante l’occupazione coloniale britannica dell’Iraq.19
Per intendere la portata di questo cliché, basterà rammentare che esso anni fa ha consentito a Tony Blair addirittura di fare un uso apologetico della scoperta delle torture praticate in Iraq dai soldati inglesi: “La differenza tra democrazia e tirannia non è che in una democrazia non accadono cose brutte, ma che quando accadono se ne chiede conto ai responsabili”.20 In sintesi: se le porcherie che facciamo non vengono scoperte, il nostro è un sistema politico superiore perché non c’è nulla che dimostri il contrario; se vengono scoperte, il fatto stesso che vengano scoperte dimostra che il nostro è un sistema politico superiore. Lo schema può essere variato all’infinito: così, si può argomentare che la scoperta delle menzogne di guerra di Bush o di Obama dimostra la buona fede degli Usa e la trasparenza del sistema. Gli esempi di questa confutazione che conferma si potrebbero moltiplicare. Ma non mancano neppure più ardite teorizzazioni. Come l’idea, decisamente singolare, che il fatto di essere una “democrazia” renda un Paese magicamente immune da ogni macchia, qualunque cosa combini: è quello che da noi ha detto Giulio Tremonti, per il quale, “se dietro una bandiera c’è una democrazia non c’è mai fango”.21 Prima guerra mondiale, colonialismi, sostegno a regimi sanguinari e interventi armati statunitensi in mezzo mondo? Tutto cancellato da questa paroletta magica.
La funzione più importante del cliché della “superiorità democratica” è però ancora un’altra. Da questo luogo comune discende infatti che è legittimo (e qualcuno dice addirittura: necessario) esportare la democrazia. È noto che sul presupposto della “legittimità di esportare la democrazia” è stata costruita – una volta venute meno quelle originarie – una giustificazione posticcia dell’invasione dell’Iraq: che sarebbe avvenuta, appunto, allo scopo di “esportare la democrazia”.22 Chiunque conosca la storia del colonialismo non avrà difficoltà a rinvenire i precedenti di questa giustificazione (alcuni li ho riportati più sopra). Ma la cosa più importante da tenere presente riguarda l’uso recente di questo cliché: perché è precisamente su questo punto che il movimento contro la guerra in Iraq ha infine finito per dividersi. In molti, anche a sinistra, hanno a un certo punto finito per pensare – come Michael Ignatieff – che “la promozione della democrazia da parte degli Stati Uniti abbia dimostrato di essere una buona idea”.23 Idea tanto più assurda in quanto l’esportazione della democrazia altro non era che una giustificazione “di riserva” dell’aggressione dell’Iraq.
Ma questo non conta: è infatti tipico dei luoghi comuni mainfestare una capacità di resistere e “tenere” nonostante ogni evidenza contraria. È quella che altrove ho definito la “filosofia dell’anche se”.24 In effetti, il discorso dominante, anche nella sua variante liberal e “critica”, ci ripete continuamente, dalle pagine dei giornali come dagli schermi televisivi, che gli eserciti dell’Occidente portano la civiltà, anche se ammazzano, torturano, usano armi di distruzione di massa proibite dai trattati internazionali e disgregano Stati sovrani; che l’Occidente porta la democrazia anche se, come nell’Iraq del 2005, le elezioni sono truccate, anche se oltre metà della popolazione non si reca a votare, anche se il sistema di elezione adoperato è per etnia (principio democratico non proprio modernissimo) e tale da condurre alla disgregazione del Paese stesso, anche se la Costituzione torna alla religione di Stato, anche se la sharia è reintrodotta in un Paese che prima era laico. Tutti questi fatti, ciascuno dei quali sarebbe sufficiente a confutare l’assunto, vengono interpretati quali errori, limiti e difficoltà contingenti che incidentalmente accompagnano intenti lodevoli e generosi: al massimo, come una conseguenza inattesa delle proprie generose iniziative o come la classica eccezione che conferma la regola.
È troppo facile spiegare questa tenuta dei luoghi comuni semplicemente con la loro diffusione attraverso i media (e si tratterebbe, comunque, di una spiegazione pericolosamente prossima ad un ragionamento circolare). Un motivo importante della forza del luogo comune citato è senz’altro il fatto che esso adopera una parola chiave del lessico politico-mediatico contemporaneo quale “democrazia”. E la usa precisamente nel senso scarnificato – e assai lontano dal significato originario di “potere del popolo” – ormai invalso: quello di democrazia elettorale, ossia di un sistema politico che prevede che si vada a votare di quando in quando per eleggere i propri rappresentanti. Che poi – come accade in Italia – anche questo ormai avvenga con sistemi elettorali eminentemente antidemocratici, per i quali cioè il voto di ciascuno non pesa allo stesso modo; che il sistema politico sia ormai del tutto sbilanciato sull’esecutivo anziché essere un sistema parlamentare; che la stessa divisione dei poteri sia sempre più minacciata dall’arroganza dell’esecutivo; che, last but not least, l’ambito delle decisioni politiche sia sempre più ristretto a fronte delle decisioni dei poteri economici: tutto questo non sembra scalfire minimamente la fede nella “democrazia”. Ma è precisamente per questo che una sinistra degna di questo nome oggi deve affrontare con coraggio la battaglia delle idee su questo terreno, dimostrando il carattere regressivo assunto dai sistemi politici “democratici” occidentali negli ultimi decenni. E argomentando che soltanto le lotte delle classi subalterne hanno potuto strappare in passato dei risultati sul terreno della democrazia reale, oggi in gran parte perduti per il mutare dei rapporti di forza in senso sfavorevole.
L’altro termine, da tempo desueto e ormai indicibile, è quello di imperialismo. La connotazione negativa di questo termine era stata, sul principio del XX secolo, una delle più significative vittorie del pensiero progressista dal punto di vista del lessico politico. La tradizione comunista si alimentò, negli anni della prima guerra mondiale e in quelli immediatamente successivi, di un dibattito che fece largo uso di questa categoria (Lenin, Bucharin, Luxemburg), che legava fortemente l’analisi dell’aggressività militare alle sue basi economiche. Nel secondo dopoguerra il termine è stato spesso adoperato schiacciandolo sulla dimensione militare (l’espressione “imperialismo Usa” era spesso usata con esclusivo riferimento al soverchiante potere militare degli Stati Uniti). Negli ultimi due decenni, infine, questa categoria è stata abbandonata dai più, talvolta a favore di categorie più confuse – ma più à la page – come quella di “impero” (in verità una riproposizione dell’errata teoria kautskiana del “superimperialismo”), più spesso a favore di un’adesione pura e semplice al pensiero unico neoliberale. Oggi Alberto Burgio sospetta che dietro l’interventismo democratico di sinistra nel caso libico ci sia anche il rifiuto “della strumentazione concettuale della critica all’imperialismo”, considerata “arcaica e per di più contaminata dall’esperienza del movimento comunista novecentesco”.25 Burgio ha pienamente ragione, ed è quindi opportuno sgombrare il campo da qualche equivoco.
Il primo punto da mettere in chiaro è il seguente: il concetto di imperialismo, se lo prendiamo nell’accezione leniniana, ha ancora molto da dirci sulla situazione attuale. Per intendersi su questo è sufficiente partire dai “cinque principali contrassegni” che secondo Lenin dovevano essere contenuti nella definizione di “imperialismo”, ossia:
“1. la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2. la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo ‘capitale finanziario’, di un’oligarchia finanziaria;
3. la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;
4. il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
5. la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.”26
Rispetto a queste cinque componenti della definizione di imperialismo, è francamente difficile trovare alcunché di “superato”. Il grado di concentrazione delle imprese ha toccato livelli mai raggiunti in passato; quanto al ruolo ed all’importanza del capitale finanziario è sufficiente sfogliare qualche quotidiano; i flussi finanziari internazionali sono ormai un multiplo (e per giunta elevato) dei flussi commerciali; i monopoli sono un tale problema che le principali economie capitalistiche si sono dotate di apposite autorità Antitrust (generalmente di dubbia efficacia); infine, la ripartizione del globo terrestre tra le più grandi potenze imperialistiche non sarà “compiuta” (nel senso di definitivamente stabilita), ma è inequivocabile.27 Va semmai notato che negli ultimi anni questa “ripartizione” ha assunto per lo più la forma di egemonia valutaria e di lotta per l’egemonia valutaria. Si può concludere che i conflitti interimperialistici oggi hanno luogo, più ancora che tra nazioni, tra aree valutarie. Queste ultime hanno carattere sovranazionale, e il loro riferimento geografico è solo grosso modo coincidente con un insieme di stati confinanti tra loro.28 L’equivalente odierno delle vecchie politiche di “contenimento” esercitate da un paese imperialista contro l’espansione territoriale di un altro paese imperialista è quindi rappresentato dalle iniziative volte ad impedire l’espansione di un’area valutaria. La stessa guerra irachena è stata anche questo. Ovviamente, gli interessi possono essere di natura diversa e intrecciati tra loro: ad es., la guerra del 1999 contro la Jugoslavia vede da un lato gli interessi degli Usa, che assestano un formidabile colpo all’euro con una guerra nel cuore dell’Europa, dall’altro quelli del capitale tedesco, che cerca (e otterrà) un’espansione nei Balcani.
La crisi iniziata nel 2007, e ancora ben lontana dall’essere superata, ha introdotto alcune importanti novità in questo quadro. 1) Da una parte, in presenza di un’evidente crisi di valorizzazione del capitale nei Paesi a capitalismo maturo, ha acutizzato la necessità di contenere o ridurre il costo delle materie prime energetiche per far ripartire i profitti (la situazione è ora ulteriormente complicata dal disastro di Fukushima, che di fatto ha sbarrato la strada alla soluzione del problema fondata sull’energia nucleare). 2) Dall’altra, ha evidenziato che gli Stati imperialisti sono potenze declinanti. Guarda caso, questo declino è particolarmente evidente nel caso dei promotori dell’avventura libica: gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia. Mentre la potenza europea che sta uscendo meglio dalla crisi, la Germania, si è astenuta sulla Risoluzione 1973 e poi ha criticato fortemente l’andamento delle operazioni militari. 3) Inoltre, la stessa crisi ha ormai aperto gli occhi a chiunque sul fatto che le potenze emergenti giocheranno un ruolo sempre maggiore nella ripartizione della ricchezza mondiale, a scapito delle potenze imperialistiche declinanti. E non è un caso che nessuno dei Paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) abbia votato a favore della Risoluzione Onu che ha aperto la strada all’intervento militare. Il portavoce del ministro degli esteri cinese ha poi criticato l’aggressione come “un uso abusivo della forza e un uso innecessario della violenza”.29 Analoghe critiche sono venute dal presidente e dal premier russi. 4) Infine, la crisi ha spazzato via l’illusione (coltivata da molti soprattutto in Europa) che l’ordine valutario mondiale possa reggersi su una diarchia dollaro-euro: è al contrario sempre più probabile (e coerente con le dinamiche dello sviluppo economico in essere) che si affermi un terzo polo valutario asiatico. Questo potrebbe rendere meno esacerbato lo scontro tra Europa e Stati Uniti e forse nel medio periodo anche condurre a un’entente cordiale in funzione anticinese; nel breve periodo, rende più probabili azioni militari condotte di comune accordo sotto la copertura della Nato.
Che lezione possiamo trarre da tutto questo? In primo luogo, per parafrasare von Clausewitz, che lo strumento militare è, oggi come ieri, la continuazione della politica economica con altri mezzi, e che esso viene adoperato di preferenza in situazioni di difficoltà economica: l’imperialismo aumenta la propria aggressività militare quanto più si verifica una crisi di valorizzazione del capitale e quanto più le tradizionali forme economiche di dominio mostrano la corda.30 Questo non dovrebbe rassicurarci. In secondo luogo, che lo stesso campo imperialista è diviso al suo interno: la non belligeranza della Germania non è davvero cosa di poco conto, ed è un dato positivo da tenere presente, perché evidenzia contraddizioni reali nel campo imperialista e all’interno della stessa Unione Europea.
Ma la lezione più importante è un’altra. Il fatto di accettare la centralità della categoria di democrazia elettorale e il rifiuto di quella di imperialismo induce a far proprio il presupposto ideologico di fondo della propaganda di guerra: ossia a condividere l’assunto che le azioni degli Stati capitalistici siano mosse da elevati motivi ideali anziché da motivazioni di carattere economico. Si tratta di un grave errore politico, che impedisce di scorgere le dinamiche reali che muovono gli Stati e che finisce per collocare chi lo compie ben al di sotto degli stessi analisti borghesi di geopolitica (non a caso spesso accusati di “cinismo” dai benpensanti). È un errore che è stato compiuto a più riprese in questi anni, finendo per accettare come naturale – o addirittura per auspicare – il succedersi di guerre “umanitarie” che altro non sono se non avventure militari imperialistiche. Lo stesso ripetersi degli “interventi umanitari” ha rafforzato il cliché e ne ha aumentato la forza di penetrazione nell’opinione pubblica. Come sapeva lo Hegel delle Lezioni sulla filosofia della storia citato in apertura di questo articolo, “attraverso la ripetizione, ciò che inizialmente appariva solo come accidentale e possibile, diventa qualcosa di reale e consolidato”. Precisamente per questo motivo, si tratta di un terreno su cui non possiamo concedere nulla all’avversario.
1 Una eloquente foto aerea della piazza si può vedere in S. Rampton, J. Stauber, Vendere la guerra, tr. it. Ozzano dell’Emilia, Nuovi Mondi Media, 2003, p. 11. In argomento vedi anche: http://www.sourcewatch.org/index.php?title=Toppling_the_statue_of_Saddam_Hussein e A. Negri, “Quella notte di fuoco a Baghdad”, Il Sole 24 Ore, 16 marzo 2008.
2 Tutta l’intervista ad A. Ricucci è molto interessante: http://www.libera.tv/videos/1151/ecco-tutte-le-bugie-che-ci-hanno-raccontato-sulla-guerra-libica.html .
3 F. de Veck, “Furcht und Schrecken”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 18 marzo 2003. In argomento vedi V. Giacché, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, Roma, DeriveApprodi, 2011, pp. 49-50.
4 D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000.
5 Le citazioni di re Leopoldo del Belgio e John Ruskin sono tratte da E.W. Said, Cultura e imperialismo, Roma, Gamberetti, 1998, p. 192 e 129 (tutto il brano di Ruskin riportato da Said, tratto dalle Slade Lectures, è di estremo interesse).
6 Per Mary Kaldor vedi D. Bensaïd, Gli Irriducibili. Teoremi della resistenza allo spirito del tempo, 2001; tr. it. Trieste, Asterios, 2004, p. 76.
7 Sul punto vedi B. Steri, “Chi non si arruola è un disertore”, in Liberazione, 25 marzo 2011.
8 S. Romano, rubrica “L’europeo”, Panorama, 7 aprile 2011.
9 Cit. in T. Di Francesco, “In un vicolo cieco”, il manifesto, 31 marzo 2011.
10 K. Fahim, D.D. Kirkpatrick, “Rebel Advance Halted Outside Qaddafi’s Hometown”, the New York Times, 28 marzo 2011.
11 T. De Berlanga, “La pace impoverita dall’uranio nei Tomahawk”, il manifesto, 2 aprile 2011.
12 K. Fitz-Gerald, “Will Egypt End the ‘Obama Arms Bazaar’?”, Money Morning, 16 febbraio 2011. Reperibile in rete all’indirizzo: http://moneymorning.com/2011/02/16/will-egypt-end-the-obama-arms-bazaar/ .
13 Cfr. http://www.socialistinternational.org/viewArticle.cfm?ArticleID=2103 . I provvedimenti di espulsione dei “partiti fratelli” tunisino ed egiziano si trovano, sempre sul sito dell’Internazionale Socialista, ai seguenti link: http://www.socialistinternational.org/viewArticle.cfm?ArticleID=2085 e http://www.socialistinternational.org/images/dynamicImages/files/Letter%20NDP.pdf.
14 I. Wallerstein, “The Great Libyan Distraction”, ZCommunications, 1° aprile 2011. Link: http://www.zcommunications.org/the-great-libyan-distraction-by-immanuel-wallerstein .
15 “Why Bahrain matters (more than Libya)”, newsletter di www.stratfor.com del 23 febbraio 2011. Cfr. anche G. Friedman, “Bahrain and the Battle Between Iran and Saudi Arabia”, Stratfor, 8 marzo 2011. Link: http://www.stratfor.com/weekly/20110307-bahrain-and-battle-between-iran-and-saudi-arabia .
16 L. Telese, “Rompiamo il silenzio atomico”, il Fatto Quotidiano, 1° aprile 2011.
17 F. de La Rochefoucauld, Massime, § 218; tr. it. Milano, Rizzoli, 1978, 19946, p. 157, qui riprodotta con lievi modifiche.
18 A. Bonanni, “‘A Tripoli 40 civili uccisi dai raid’. L’Alleanza apre un’inchiesta”, la Repubblica, 1° aprile 2011. M. Tarquinio, “Il senso dell’intervento: urgenza di sapere”, Avvenire, 1° aprile 2011.
19 Cit. in S. Chiarini, “Le lezioni ignorate della storia”, il manifesto, 14 agosto 2004. Allora questa allocuzione non portò molta fortuna agli invasori: già nell’estate dello stesso anno il Paese era in piena rivolta, che solo una brutale repressione militare potè battere (al prezzo di alienarsi definitivamente le già scarse simpatie della popolazione irachena).
20 O. Casagrande, “Blair sulle torture: ‘Foto scioccanti’”, il manifesto, 20 gennaio 2005.
21 Dichiarazione riportata dall’Agenzia Ansa il 13 maggio 2004.
22 Emblematico T. Blair, “Perché combattiamo questa guerra”, la Repubblica, 13 aprile 2004. E già un fondo del “Foglio” dal titolo surreale: “L’arma di distruzione è la dittatura”, 4 ottobre 2003. Oggi la natura posticcia e strumentale di questa spiegazione della guerra è condivisa perfino da F. Fukuyama, “La fine della storia non esporta la democrazia”, la Repubblica, 3 aprile 2007.
23 M. Ignatieff, “L’impero dei diritti dell’uomo”, Corriere della Sera, 24 gennaio 2005.
24 La fabbrica del falso, cit., pp. 60-61.
25 A. Burgio, “2 aprile, democratici contro geopolitici”, il manifesto, 30 marzo 2011.
26 V.I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916; tr.it. in Scritti economici, a cura di U. Cerroni, Roma, 1977, p. 571.
27 Del resto lo stesso Lenin precisa che la “compiutezza” della spartizione imperialistica del mondo significa che “il mondo per la prima volta appare completamente ripartito sicché in avvenire sarà possibile soltanto una nuova spartizione” (ivi, p. 560).
28 Ad esempio, molti dei cosiddetti Territori d’Oltremare, che fanno parte a tutti gli effetti dell’area dell’euro, si trovano a migliaia di chilometri dall’Europa.
29 Yizhen Zheng, “Why China has abstained from UN’s Resolution on Libya”, China Elections and Governance, 30 marzo 2011. Link: http://chinaelectionsblog.net/?p=14845 .
30 Sul nesso tra il venir meno della valorizzazione del capitale e il manifestarsi del “carattere aggressivo dell’imperialismo” insiste a più riprese H. Grossmann, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, 1929; tr. it Milano, Mimesis, 2010, pp. 255, 281, 284-5; vedi anche, sugli effetti positivi (in termini capitalistici) della guerra in quanto provoca la svalutazione del capitale esistente, le pp. 346-347.
* Pubblicato su “Essere Comunisti”, aprile 2011, pp. 19-29
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Giancarlo Staffolani
Condivido pienamente il testo, soprattutto la questione democrazia – imperialismo.
Combattere per la democrazia senza combattere contro l’imperialismo significa non comprendere che gli Usa e l’Europa non sono la cura ma la malattia.
“Senza teoria rivoluzionaria non può esservi movimento rivoluzionario” diceva Lenin e cioè ci vogliono i “Bolscevichi” e se non ci sono bisogna farli nei paesi arabi e anche da noi.
Questa è oggi la questione centrale.