Da La Stampa del 17 giugno 2011
Di fronte alle notizie in arrivo dalla Grecia, che parlano di gravi disordini e di possibile instabilità politica, di fronte ai mugugni dei cittadini-elettori dei Paesi ricchi, che si esprimono con sempre minor consenso ai partiti di governo, c’è da domandarsi se il mondo della finanza non abbia, per caso, fatto i conti senza l’oste.
L’oste, in questo caso, è rappresentato dai cittadini-elettori, appunto, ai quali si richiede un esercizio di austerità quasi sempre non piccolo, in certi casi durissimo, per compensare i tempi allegri in cui gli stessi cittadini hanno eletto governi-cicala. I governi-cicala hanno varato sistemi pensionistici non sostenibili, aumentato spese pubbliche non essenziali, indebolito in vari altri modi la finanza pubblica. Naturalmente i cittadini hanno sbagliato a scegliere governanti poco saggi, ma è sufficiente quest’errore a giustificare il sacrificio di intere generazioni di giovani che non trovano lavoro, nonché di quella porzione di lavoratori che vede diminuire sia la stabilità del proprio lavoro sia il potere d’acquisto dei propri salari?
Non si tratta di una domanda retorica, bensì di un interrogativo politico del quale nessuno conosce bene la risposta. È però legittimo supporre che, prima o poi, appaia sulla scena politica qualche leader che, rispolverando ideologie oggi in soffitta, si chiederà se non è preferibile far pagare, almeno in parte, la crisi al «capitale» – oggi peraltro diffuso ben al di là della normale cerchia dei capitalisti – invece che al «lavoro». Del resto, molti cittadini-elettori sarebbero probabilmente d’accordo con una proposta che riducesse il valore dei titoli pubblici in loro possesso purché i loro figli e nipoti siano in condizione di avere un lavoro stabile a condizioni almeno non peggiori di quelle dei padri.
In quest’orizzonte si inquadrano i dibattiti sul debito della Grecia: un Paese che non può essere aiutato con la «ristrutturazione» del suo debito senza che ne soffra tutto il sistema (ovvero le banche – non italiane – detentrici di gran parte di questo debito), ma che ugualmente non può essere aiutato con il rifinanziamento del debito stesso da parte dei Paesi dell’euro senza una ribellione elettorale da parte dei cittadini-elettori chiamati a sopportare un ennesimo, gravoso peso. La Grecia, culla della civiltà europea, diventa così pietra dello «scandalo», parola greca che significa inciampo, di un’Europa all’incerta ricerca delle propria identità e del proprio futuro. Lo «scandalo» non si ferma all’Europa, in quanto nessuna delle grandi monete non europee può dirsi in buona salute, al punto che un ipotetico cedimento dell’euro significherebbe la fine di quell’ordinata ragnatela di scambi globali che, pur con molti difetti, ha tenuto lontane le prospettive di una guerra globale.
Probabilmente per la Grecia un rimedio si scoverà, anche grazie all’eccellenza, sia tecnica sia diplomatica, di Mario Draghi, nuovo governatore della Banca Centrale Europea, che si troverà per prima cosa sulla scrivania questa patata davvero bollente. Consisterà probabilmente di un allungamento dei tempi concessi alla Grecia per ritrovare il pareggio di bilancio – all’inizio stupidamente e cinicamente calcolati in pochissimi anni senza tener conto degli squilibri sociali che ciò avrebbe causato -, di una remissione «volontaria» di una quota del debito da parte delle grandi banche che lo detengono, di maggiori aiuti del Fondo Monetario Internazionale. Difficilmente, però, la soluzione greca potrà essere estesa a tutti i Paesi oggi in difficoltà e a quanti potrebbero esserlo domani, compresi gli Stati Uniti, la cui moneta è ostaggio di un durissimo scontro tra il governo del Presidente Obama e il Congresso controllato dall’opposizione.
Siamo condannati a vivere un lungo periodo d’incertezza monetaria che, di fatto, lega le mani a tutti i governi e che impedisce in particolare al governo italiano di allentare i cordoni della borsa, come piacerebbe a molti ministri. Basterebbe un solo accenno concreto in questa direzione a far iscrivere l’Italia nell’elenco dei Paesi a rischio e a far cadere il valore di mercato dei titoli del debito pubblico italiano. In questo contesto va collocato il pesante avvertimento della Banca Centrale Europea, nel suo bollettino mensile uscito ieri, perché il Paese specifichi meglio «ulteriori interventi» (ossia tagli alle spese pubbliche e quant’altro) per alcune decine di miliardi di euro entro il 2013. Erano cose già note, ma il ripeterle nel momento in cui un italiano sta per prendere il timone a Francoforte può avere l’intento di sottolineare che, non per questo, l’Italia potrà anche solo pensare a condizioni di favore.
Il sistema monetario che emergerà da questa fase di passaggio, che si spera il più possibile ordinata, non potrà più essere incentrato sul dollaro, ostaggio dei giochi politici interni degli Stati Uniti; sarà probabilmente multipolare e all’inizio molto confuso. Se si continuerà a commerciare, a scambiare, però, non si comincerà a guerreggiare su larga scala ed episodi tristi come quello libico rimarranno isolati.
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