Con la storia delle pensioni il governo di centro-sinistra rischia di guastarsi i rapporti con buona parte del suo elettorato. Si era cominciato bene, dal punto di vista dei pensionati in pectore, parlando di una attenuazione dello “scalone”, ovvero dei requisiti di età o di contribuzione necessari per accedere alla pensione di anzianità che la riforma Maroni in vigore prevede di far salire bruscamente dal 2008. Poi si è verificato in ambito governativo una sorta di slittamento dei significati, o delle intenzioni, e la riduzione dell’ onere previdenziale mediante un aumento dell’ età pensionabile, o una diminuzione delle prestazioni, è diventato quasi dall’ oggi al domani un intervento indispensabile per risanare i conti dello Stato.
Alcuni milioni di persone sono entrate in apprensione per quanto potrà succedere, tra pochi o molti anni, al loro trattamento pensionistico. Che vuol dire, in spiccioli, provare a immaginare se il livello di vita che potranno permettersi una volta lasciato il lavoro sarà decente oppure misero. Naturalmente, un governo fa bene a non guardare in faccia nessuno, nemmeno il proprio elettorato, quanto si tratta di interventi che guardano anzitutto al bene del paese a lungo termine, e però debbono essere presi subito perché dopo sarà tardi.
Ci si può tuttavia chiedere se il taglio delle spese previdenziali in senso stretto – perché questo è lo scopo dell’ aumento dell’ età pensionabile, sia esso ottenuto seccamente per legge o, più morbidamente, con un sistema di incentivi/disincentivi – sia in questo momento davvero necessario. Certo, quando si legge che nel 2006 i trasferimenti dello Stato all’ Inps, indispensabili per consentirgli di far fronte alle sue prestazioni istituzionali, in altre parole per colmare il suo deficit di bilancio, ammonteranno in totale a circa 75 miliardi di euro, più di 5 punti di Pil, un pur involontario salto sulla sedia si finisce per farlo.
Ma lo si fa per una ragione sbagliata. Infatti il deficit in questione in gran parte non riguarda affatto le spese previdenziali, bensì attiene alle prestazioni assistenziali che lo Stato nel corso degli anni ha accollato all’ Inps, e che sono oggi raggruppate, nel bilancio Inps, sotto la voce Gias (Gestione Interventi Assistenziali). Tra di esse rientrano le prestazioni pensionistiche in favore di persone con varie tipologie e gradi di disabilità, che sono oltre 5,2 milioni con un costo annuo di una trentina di miliardi; un genere di costo che negli altri paesi europei viene doverosamente imputato alla fiscalità generale, non al maggiore istituto di previdenza dei lavoratori dipendenti.
Né si tratta della sola spesa assistenziale che viene impropriamente caricata sul bilancio dell’ Inps. Altre voci sono formate dal costo delle pensioni o assegni sociali, erogate ai cittadini ultrasessantacinquenni sprovvisti di redditi minimi; della cassa integrazione guadagni; dai provvedimenti di messa in mobilità; dalle liquidazioni di fine rapporto, etc. Ad essere pignoli, va ammesso che pur dopo avere detratto, per varie decine di miliardi, le spese per prestazioni assistenziali, la spesa previdenziale complessiva dell’ Inps appare ancora deficitaria per alcuni miliardi.
Ma non per quanto riguarda il fondo pensioni lavoratori dipendenti, che formano la massa di coloro cui si vorrebbe ora chiedere di andare in pensione qualche anno più tardi. I passivi vengono dal fondo dirigenti d’ azienda (1 miliardo l’ anno di deficit); dai coltivatori diretti (5 miliardi di spese contro 2,1 miliardi di entrate); dagli artigiani, le cui spese superano le entrate di oltre il 5%; da decine di migliaia di prepensionamenti di dipendenti delle Ferrovie dello Stato, mediante i quali anni fa si procedette a dimezzarne il numero. Al netto delle prestazioni assistenziali, e dei suddetti passivi che non hanno nulla a che fare con il rapporto tra contributi versati e pensioni ricevute dai lavoratori dipendenti, la spesa previdenziale resta in equilibrio. Lo si legge non altrove che nella I nota di variazione al bilancio Inps del 2006, pubblicata a fine luglio.
A fronte di queste cifre, il governo corre dunque il rischio di apparire come un soggetto che rivolge ai lavoratori dipendenti un discorso vagamente surreale di questo tipo: «Il supposto deficit del sistema previdenziale è dovuto a un espediente classificatorio che appesantisce il bilancio dell’ Inps di prestazioni assistenziali che dovrebbero gravare invece sulla fiscalità generale. Di questo voi non avete alcuna responsabilità, come non l’ avete per i fondi previdenziali veri e propri con il bilancio in rosso. Con tutto ciò, visto che siete in tanti, e siete i soli ad avere i conti in pareggio tra quel che versate e quello che ricevete, vi chiediamo di assumervi la responsabilità di contribuire a ridurre l’ onere per lo stato che le suddette prestazioni e deficit gli infliggono, accettando da parte vostra di andare in pensione qualche anno più tardi e/o di ricevere pensioni più basse».
Perché il governo, o una parte di esso, voglia rischiare di trovarsi collocato nella posizione di chi usa argomenti del genere, agli occhi dei suoi stessi elettori, non è chiaro. Non vorremmo che tra alcuni suoi membri, o tra i dirigenti dei partiti che lo sostengono, avesse fatto presa una versione contemporanea del modello Bismarck. Verso il 1890, dopo aver deciso di introdurre un sistema previdenziale obbligatorio, uno dei primi del mondo, il cancelliere tedesco aveva il problema di determinare l’ età limite per andare in pensione. Chiese quindi agli statistici governativi – si narra – quale fosse l’ età in cui morivano in media i tedeschi. Sessantacinque anni, gli fu risposto. Si fissi dunque a 65 anni l’ età a cui si può andare in pensione, decise il cancelliere. Poiché oggi si vive in media ottant’ anni, un mezzo sicuro per ridurre le spese previdenziali dell’ Inps potrebbe consistere, può pensare qualcuno, a spostare l’ età di pensionamento verso quel limite.
Modello Bismarck a parte, il problema di adeguare il nostro sistema previdenziale sia al prolungamento della vita attiva, sia ai mutamenti del mondo del lavoro, è in complesso molto serio. Come nella maggior parte dei paesi Ue. Non si vede bene, almeno dal punto di vista di non pochi elettori di centrosinistra, perché si dovrebbe cercare di risolverlo frettolosamente, e maldestramente, per il tramite di una Legge finanziaria.
05 settembre 2006 — pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA
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