Le elezioni del 2009, da cui l’amministrazione Morales è uscita rafforzata, hanno attenuato queste minacce esterne. Tuttavia, nuove contraddizioni sono sorte all’interno del blocco nazional-popolare, tra le diverse classi che guidano il processo di cambiamento a proposito del suo indirizzo. Quattro di questi contrasti, di secondaria importanza rispetto al conflitto principale contro l’imperialismo, sono però al centro del processo rivoluzionario boliviano, e se da un lato rappresentano una minaccia alla sua prosecuzione, dall’altro permettono di pensare ai mezzi per passare alla fase successiva.
Il primo confronto costruttivo riguarda il rapporto tra lo Stato e i movimenti sociali – la popolazione si aspetta dal governo azioni immediate, capaci di dare risposte concrete ai suoi bisogni materiali. Questo richiede una forte centralizzazione del potere decisionale, ma il nostro governo è composto da rappresentanti di organizzazioni sociali indigene, contadine, operaie e popolari, le cui dinamiche decisionali richiedono di «prendere tempo»: per discutere, per decidere e per analizzare le varie proposte. Inoltre l’attività di questi movimenti implica la moltiplicazione del numero di coloro che prendono parte alle decisioni. Nel governo Morales – un «governo di movimenti sociali» – si scontrano e devono risolversi delle contraddizioni: accentramento e decentramento delle decisioni, monopolizzazione e socializzazione delle azioni esecutive, rapidità dei risultati e lentezza nel risolversi. Per tentare di riassorbire questi contrasti abbiamo analizzato il concetto di «Stato integrale»: il momento in cui la società si impossessa progressivamente dei processi di arbitrato, superando così il confronto tra Stato (macchina che tende a centralizzare le decisioni) e movimenti sociali (che le decentra e democratizza).
Non si può pensare che un obiettivo del genere si raggiunga in poco tempo. Esso nasce da un movimento storico fatto di passi in avanti e indietro, di squilibri che inclinano l’ago della bilancia tanto da un lato quanto dall’altro, mettendo a rischio o l’efficacia del governo o la democratizzazione delle decisioni. La lotta (e solo la lotta) permetterà di mantenere l’equilibrio tra questi due poli per il tempo necessario alla risoluzione storica di questa contraddizione.
Il secondo confronto costruttivo vede l’opposizione tra l’ampiezza del processo rivoluzionario – che deriva dall’aggregazione sempre più numerosa di vari gruppi sociali e dalla richiesta di vaste alleanze – e la necessità di rafforzare il controllo indigeno, contadino, operaio e popolare che garantisce l’orientamento politico. L’egemonia del blocco nazional-popolare esige la coesione delle classi lavoratrici e implica che la leadership di queste (storica, materiale, pedagogica e morale) si affermi anche nel resto della popolazione, così da ottenerne l’appoggio. Certamente ci sarà sempre un settore renitente alla supremazia indigena e popolare, che all’occasione agirà come una cinghia di trasmissione di poteri stranieri. Ma il consolidarsi del controllo proletario richiede che tutta la società pensi che la sua condizione migliora se alla guida delle paese ci sono le classi lavoratrici. Questa necessità costringe un potere di sinistra a tener conto di una parte dei bisogni dei suoi avversari.
Un terzo confronto costruttivo si manifesta con molta intensità da un anno a questa parte e nasce dallo scontro tra gli interessi collettivi e quelli privati di un gruppo, di un settore o di un individuo. Tra la lotta sociale comune e comunista e le conquiste individuali, settoriali e private. L’ampio ciclo di mobilitazioni che è iniziato nel 2000 con la «guerra dell’acqua», ha conosciuto prima di tutto una dimensione locale. Ma questo conflitto interessava tutto il paese, minacciato anch’esso dai progetti di privatizzazione dell’acqua. Successivamente c’è stata la «guerra del gas», la battaglia per l’Assemblea costituente e per la costruzione di una democrazia plurinazionale.
L’emergere delle rivendicazioni – nate sulle barricate, all’epoca del blocco delle strade, durante le manifestazioni e le insurrezioni popolari – ha permesso che venisse elaborato un programma per la conquista del potere capace di mobilitare e di unire progressivamente la maggior parte del popolo boliviano. Nel 2005, dopo la vittoria, il governo si è impegnato ad attuarlo e in particolar modo l’Assemblea costituente che, per la prima volta nella storia, ha concesso che la Costituzione venisse redatta dai diretti rappresentanti di tutti i settori sociali del paese. Poi si è andati avanti con la nazionalizzazione delle grandi imprese facilitando così la ridistribuzione di una parte dell’eccedenza economica.
Se analizziamo il ciclo della mobilitazione come una curva ascendente che, sulla base dell’esperienza storica, si stabilizza e poi poco a poco scende, ci rendiamo conto che la prima tappa – o fase ascendente – è caratterizzata dalla crescente aggregazione dei settori sociali, dalla costruzione di un programma generale e da una volontà organizzata e concreta di assunzione del potere da parte delle classi «subalterne». Lo stabilizzarsi della mobilitazione, nel punto più alto della curva, corrisponde al raggiungimento dei principali obiettivi della collettività e al tempo stesso alle più accese resistenze dei gruppi sociali che sostengono il potere neoliberista uscente: con un tentativo colpo di Stato, con movimenti separatisti, ecc. È la fase «giacobina» del processo che, spingendo il movimento sociale trasformatosi in potere di Stato a difendersi, crea nuove mobilitazioni e universalità.
Dall’inizio del secondo mandato di Morales, nel 2010, conosciamo dunque una terza fase della mobilitazione, quella discendente, caratterizzata dal confronto, all’interno del blocco nazional-popolare, tra aspetti collettivi e privati. Sarà possibile superare questa contraddizione rinsaldando la portata universale del nostro progetto. Se a trionfare fosse il particolarismo di stampo corporativo, la perdita della spinta propulsiva rivoluzionaria segnerebbe l’inizio di un ritorno al potere conservatore.
Questo scontro tra rivendicazioni collettive e private è sempre esistito all’interno della popolazione. Del resto, a caratterizzare le rivoluzioni sono soggetti frammentati e atomizzati – che ne rappresentano la parte dominante – e il popolo, che è progressivamente portato a costituirsi come istanza collettiva. Ma evidentemente noi affrontiamo una nuova fase della mobilitazione, come mostra il recente scontro tra due gruppi della Centrale operaia boliviana (Cob), l’uno legato del potere, l’altro no.
Se si assecondassero le rivendicazioni salariali degli insegnanti, si utilizzerebbero le risorse ricavate dalle nazionalizzazioni per migliorare i redditi solo di alcune delle fasce del terziario. In questo modo non si terrebbe conto del resto del paese, ovvero della maggior parte della popolazione. Sarebbe inoltre più difficile attuare una strategia d’ industrializzazione (l’acquisto di macchinari o la costruzione di infrastrutture, per esempio), che permetterebbe di aumentare le ricchezze che produce il paese… e di redistribuirle.
*Vicepresidente della Bolivia
© Le Monde diplomatique/ilmanifesto
Il testo completo sul prossimo numero del Diplò, in edicola il 15 settembre
(Traduzione di Francesco Bravi)
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