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La crisi e i suoi derivati

Rispetto a quel video, il libro più recente di Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, tradotto quest’anno da Feltrinelli (il titolo originale era un po’ meno immaginifico: The enigma of capital and the crises of capitalism), con le sue oltre 300 pagine, ha il difetto di non poter essere passato in rassegna in dieci minuti. Ma il linguaggio di Harvey non è meno chiaro sulla carta stampata di quanto sia su video. E il suo testo riesce ad introdurci con grande semplicità alle modalità di funzionamento della società capitalistica e alle sue crisi. Con un occhio particolare, ovviamente, a quella in corso. Che per Harvey, come tutte le crisi, sta svolgendo la sua funzione di riconfigurare il capitalismo permettendogli di continuare a sussistere. Ossia di far ripartire l’accumulazione del capitale, momentaneamente ingolfata (a causa di un eccesso di capitale che non riesce a valorizzarsi adeguatamente).

“Le crisi” – dice Harvey – “servono a razionalizzare le irrazionalità del capitalismo; di solito conducono a riconfigurazioni, a nuovi modelli di sviluppo, nuove sfere di investimento e nuove forme di potere di classe… Durante una crisi come quella che stiamo vivendo attualmente, è sempre importante tenere a mente questo fatto. Dobbiamo sempre domandarci che cos’è che viene razionalizzato e qual è la direzione in cui procede la razionalizzazione, poiché questo definisce non soltanto la maniera in cui usciremo dalla crisi, ma anche le future caratteristiche del capitalismo”.

Se così stanno le cose, secondo Harvey oggi non c’è molto da stare allegri.

I profitti delle imprese private (dopo che i buchi dei loro bilanci sono stati tamponati da salvataggi pubblici su larga scala) stanno riprendendo quota, ma la disoccupazione aumenta e la quota del reddito da lavoro sul prodotto nazionale continua a diminuire praticamente in tutti i Paesi occidentali. Recentemente la cosa è stata espressa in questo modo dal miliardario statunitense Warren Buffett: “C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”.

Ma soprattutto, osserva Harvey, “in gran parte delle economie capitalistiche avanzate… con la scusa della crisi del debito sovrano la classe capitalistica ha cominciato a smantellare ciò che resta dei sistemi di welfare attraverso una politica di austerità fiscale”. In questo modo si riconducono sotto le logiche del profitto servizi e prestazioni che a esse erano stati sottratti decenni fa. “Alcune importanti aree di intervento pubblico, a partire dalla previdenza sociale e dai sistemi pensionistici statali, devono ancora essere privatizzate”, e questa crisi – afferma Harvey – ne offre l’occasione: “l’attuale enfasi sui programmi di austerità, quindi, non è che l’ennesimo passo verso la personalizzazione dei costi della riproduzione sociale”.

Si è osservato che in questo modo la crisi si aggrava e si prolunga nel tempo: perché le politiche di austerità inducono recessione, calo dei consumi e inibiscono la crescita, che sarebbe in verità l’arma migliore anche per abbattere il debito pubblico (è interessante notare che su questo punto la pensano allo stesso modo diversi analisti finanziari di peso: soltanto per citare alcuni nomi, Nouriel Roubini, El-Erian di Pimco, George Magnus di UBS, Jeremy Grantham di GMO).

Secondo Harvey però non si tratta di un errore: a suo avviso “le attuali difficoltà dell’economia” nei paesi occidentali “vengono aggravate non per una necessità economica, ma per una precisa ragione politica, cioè il desiderio di sollevare il capitale dalla responsabilità di farsi carico dei costi della riproduzione sociale”. In che modo? Diminuendo l’entità delle prestazioni sociali e previdenziali sinora garantite dallo Stato (un tempo le si definiva, rispettivamente, “salario indiretto” e “salario differito”). È evidente che in questo modo si amplierà la sfera di ciò che è “a mercato”, con conseguenti profitti per chi è in quel business (il gestore privato che subentra a una municipalizzata pubblica, la compagnia assicuratrice che gestisce un fondo pensione privato, ecc.).

A mio avviso questa strategia – se di strategia si può parlare – trascura le potenziali ricadute distruttive (anche per le imprese) di un crollo contemporaneo della domanda interna nei principali Paesi occidentali, che è precisamente quello che sta accadendo.

(Per quanto riguarda l’Europa ho segnalato questo rischio in un mio articolo uscito su il Fatto quotidiano del 30 maggio del 2010, dal titolo: Con questi tagli si torna agli anni Trenta)

In ogni caso la ricostruzione di Harvey ci aiuta a capire due cose: che la crisi non colpisce tutti alla stessa maniera e che non esistono strategie di uscita dalla crisi neutrali socialmente e tecnicamente obbligate.

Per capire la prima cosa probabilmente non avevamo bisogno di lui. La seconda, invece, è molto importante per restituire alla discussione pubblica il dibattito su scelte dalle quali dipende il nostro futuro. Prossimo e meno prossimo.

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