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Piove, e l’Italia dello “sviluppo” viene giù

Piove. L’acqua allaga campi, strade, distrugge ricchezza. Gli agricoltori guardano sconsolati i loro campi invasi dalle acque, i viaggiatori fanno i conti con le strade interrotte dalle frane, i cittadini trovano le automobili parcheggiate in un laghetto di acqua sporca. L’aspetto più impressionante è che il popolo italiano si è lentamente assuefatto alle sventure “naturali”, che al più sa chiedere la dichiarazione di stato di calamità, il che significa un po’ di soldi pubblici per il risarcimento del valore dei raccolti perduti, delle automobili e case sinistrate, delle merci perdute nel fango.

Nessuno conoscerà mai il costo per la collettività delle migliaia di alluvioni e frane che si sono succedute dalla Liberazione in avanti. Nel 1951 si ebbe l’alluvione della Calabria, seguita subito dalla grande alluvione del Polesine (val la pena di rivedere con occhio “ecologico” il bel film “Il ritorno di Don Camillo”, di Duvivier, del 1953); vennero poi la drammatica alluvione di Firenze, Venezia e Trento del 1966, quella del Biellese nel 1968, di Genova nel 1970, della Valtellina nel 1987, del Piemonte nel 1994 e poi nel 2000, e poi quella della Versilia nel 1996, di Sarno nel 1998 e le continua serie di “acqua alta” a Venezia, e via così. Credo che una stima ragionevole possa indicare il “costo monetario” dei danni delle alluvioni e frane degli ultimi sessanta anni in molti miliardi di euro all’anno.

Dopo ogni grande alluvione sono state istituite commissioni di indagine che hanno fornito ai vari governi buoni consigli, mai seguiti. Eppure le frane e le alluvioni sono calamità niente affatto “naturali” ma derivano dall’imprevidenza umana e dall’ignoranza ecologica. Si verificano quando le acque piovane, nel loro moto verso il mare lungo ruscelli, torrenti e poi fiumi, incontrano ostacoli e si espandono e invadono spazi abitati o coltivati o occupati da strade. Ogni torrente e fiume ha un suo corso e la natura ha predisposto al suo fianco degli spazi in cui le acque possano espandersi nei periodi di piena. Le leggi della natura stabiliscono che tali spazi devono essere lasciati liberi per il moto delle acque, ma gli spazi vicino ai fiumi, le golene, gli stessi alvei dei fiumi sono anche i più desiderabili per insediarvi edifici, interi quartieri, fabbriche, strade, con tombini intasati e fogne incapaci di accogliere le acque. Non c’è quindi da meravigliarsi se, dopo una pioggia più abbondante, le acque non trovano più spazio per espandersi, aumentano di velocità ed erodono le massicciate delle strade, facendole franare, se entrano violentemente nelle cantine e nei piani bassi delle case, invadono e allagano i campi coltivati.

Le leggi umane dovrebbero essere coerenti con quelle della natura: il filosofo Francesco Bacone (1561-1626) ha scritto che “alla natura si comanda se le si ubbidisce”, ma spesso le autorità locali o nazionali preferiscono imprigionare i fiumi entro argini artificiali di cemento, autorizzare opere che ostacolano in moto delle acque. E così l’acqua, ad ogni pioggia più abbondante, nello scorrere entro lo spazio ristretto dagli argini artificiali, incontrando scarpate, ponti, edifici, aumenta di velocità e di potere erosivo e distruttivo e dilaga dovunque.

L’unico sistema per evitare frane e alluvioni è costruire opere umane in modo da lasciare alle acque spazi senza ostacoli per il loro moto, quello si, “naturale”. L’unico rimedio è rappresentato dalla copertura del suolo con alberi, vegetazione, anche macchia spontanea; se il suolo è coperto di vegetazione la forza di caduta delle gocce d’acqua si “scarica” sulle foglie e sui rami, che sono elastici e flessibili, e l’acqua scivola dolcemente verso il suolo e scorre sul terreno con molto minore forza erosiva e distruttiva. Inoltre se l’acqua, nel suo moto verso valle, incontra la vegetazione, è ostacolata e rallentata dai tronchi delle piante, dalle foglie, dall’humus, per cui il fango in sospensione si deposita prima di arrivare sul fondo valle.

Purtroppo, in genere, dove arriva la presenza umana, la copertura vegetale è considerata inutile; dove si pensa che siano d’intralcio alle opere “economiche”, alberi e macchia vengono estirpati o bruciati. La salvezza dalle frane e dalle alluvioni si può cercare soltanto in una nuova cultura ecologica e urbanistica che dia priorità al rispetto delle leggi, “economiche” anch’esse, della natura, alla ricostruzione dei boschi, della macchia e alla diffusione delle vegetazione in ogni angolo possibile, nei ritagli ancora salvi delle città, in ogni pezzo di collina, intorno alle fabbriche e ai campi coltivati, nei cortili degli edifici pubblici e delle scuole.

Una soluzione che dovrebbe essere accompagnata da una grande operazione di diffusione della cultura geografica, dall’insegnare, specialmente ai ragazzi, a riconoscere i fiumi e le valli e i torrenti, a guardare come si muove l’acqua sul territorio e dove incontra e incontrerà ostacoli e come tali ostacoli possono essere evitati o rimossi. Soprattutto dovrebbe essere inculcata la cultura del rimboschimento e della difesa del verde come strumenti “economici” per evitare costi e dolori futuri. Da questo punto di vista dalla crisi attuale si potrebbe uscire proprio investendo soldi in un piano capillare di opere di rimboschimento, di pulizia del greto dei torrenti, di regolazione del moto delle acque.

Sarebbe davvero un New Deal da centinaia di migliaia di posti di lavoro che eviterebbe all’Italia di oggi e del futuro costi monetari ben più grandi degli investimenti richiesti. E infine, negli spazi urbani, occorre chiedere agli amministratori il coraggio di vietare edificazioni negli spazi che sarebbero riservati al deflusso delle acque, e anche un po’ di attenzione nel progettare le pendenze delle strade per assecondare il deflusso delle acque, e la pulizia dei tombini, potranno evitare che le automobili si trasformino in motoscafi e che vengano allagate le cantine.

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