Menu

Berlusconi cade ma non si festeggia

Dopo anni di scontri e di perenne conflittualità tra le due frazioni della borghesia nostrana, alla fine le élites finanziarie e le lobbies legate al grande capitale europeo hanno prevalso, forse definitivamente. Laddove non è riuscita ad arrivare la mobilitazione di classe, sono arrivati i veri rappresentanti del potere capitalistico. Ironia della sorte, a far cadere Berlusconi e a mettere in sella Mario Monti, presentato ai quattro venti come l’uomo della provvidenza e novello salvatore della patria, sono gli stessi che hanno portato l’economia mondiale sull’orlo del baratro.

Il consenso pressoché unanime accordato in parlamento al nuovo esecutivo segna indubbiamente una svolta senza precedenti nella storia delle democrazie borghesi occidentali. Una maggioranza di 556 deputati su 630 non si è raggiunta neanche in occasione dei governi di solidarietà nazionale alla fine degli anni ’70: già questo ci sembra un dato che dimostra in maniera inequivocabile come l’intero arco parlamentare sia accomunato dal terrore verso le conseguenze catastrofiche dei processi in atto. In questo nuovo scenario, sembrerebbe paradossale che gli unici che abbiano sottolineato come nessun governo occidentale goda del sostegno del 90% del Parlamento siano proprio i reazionari della Lega Nord.

In sintesi, per la prima volta dopo 15 anni, il capitale messo alle corde dalla crisi decide di prendere in via diretta le redini del governo, facendo a meno del filtro di un potere politico legittimato dalle liturgie elettorali.

La portata e il peso del nuovo esecutivo come garante e sintesi degli interessi complessivi della classe dominante, fa sì che in un sol colpo scompaia sia dai media che dai dibattiti parlamentari quel ventennale teatrino della politica fatto di contrapposizioni più simulate che reali: il monito pressoché unanime proveniente dai piani alti del padronato e dei mercati, ad abbassare i toni e ad instaurare un clima di collaborazione e di responsabilità, è in realtà un richiamo all’intero arco parlamentare a svolgere il suo naturale ruolo di comitato d’affari della classe dominante in maniera più efficiente e con minore dispendio di tempo e energie.

Il clima di concordia, di cortesia e di reciproci corteggiamenti in nome del sommo principio dell’Unità Nazionale, di cui il presidentissimo Giorgio Napolitano rappresenta al tempo stesso la sintesi e il motore istituzionale, allorché può sorprendere o quasi gettare nel panico quel popolo di tifosi della “democrazia violata” che per anni si sono abbeverati alla fonte delle veline di Repubblica o del Fatto Quotidiano e ora si sono improvvisamente trovati orfani del loro cavallo di battaglia, ci sembra del tutto consono e in linea coi processi intervenuti in tutte le democrazie borghesi occidentali: la crisi del “bipolarismo” (e di conseguenza del berlusconismo), su cui si erano rette le fortune del ceto politico uscito vincitore dal biennio di Tangentopoli, non è altro che il naturale adattamento del quadro istituzionale alle esigenze di ridefinizione funzionale al nuovo (tremendo) ciclo del capitale, e dunque ad uno snellimento delle sue procedure e dei suoi meccanismi decisionali.

Dunque, l’attuale quadro istituzionale, lungi dall’essere unicamente il frutto del panico dettato dall’emergenza degli “spread” e delle sollecitazioni dei mercati finanziari, rappresenta un approdo caldeggiato e pianificato con cura da gran parte del blocco dominante: da Montezemolo alla Marcegaglia, dalle cordate bancarie legate ad Unipol ed Unicredit, passando per il potente impero mediatico della famiglia De Benedetti, e ovviamente, sullo sfondo, l’intero sistema di potere UE: il terreno per la nascita del nuovo esecutivo è stato un filo tessuto sapientemente e che ha saputo trovare il suo sbocco nel momento più propizio.

È del tutto evidente come il vero sconfitto sia senza dubbio Berlusconi e il suo blocco di potere legato al gigante Mediaset e al tessuto di piccole e medie imprese radicato nel centro-nord: più che il crollo di Piazza Affari o l’aumento del differenziale BTP-Bund, la vera mozione di sfiducia al cavaliere di Arcore sferrata dai mercati finanziari si è materializzata col crollo delle azioni Mediaset del 12% a poche ore dal voto sul rendiconto generale dello stato. Su questa fine ingloriosa ha inciso senz’altro la crisi, ma in primo luogo l’incapacità endemica del governo delle destre di sapersi presentare come interlocutore affidabile non solo dei mercati finanziari e del potere economico interno, ma anche degli stessi partner dell’”Europa che conta”, in primo luogo la locomotiva franco-tedesca, divisa sugli strumenti specifici da adottare contro la crisi, ma quanto mai unita nello scaricarne i costi sui bilanci interni dei PIIGS.

Al di là della costante antiproletaria, la politica di Pdl e Lega è stata dunque da più parti considerata immobilista e quindi inaffidabile. Il mare di interventi “una tantum” a fronte delle richieste di “riforme strutturali” da parte dei mercati; la tanto declamata e mai approvata riforma fiscale (da sempre cavallo di battaglia del blocco reazionario); le forze d’attrito che hanno frenato personaggi quali Sacconi e Brunetta dal dare compiutezza alle loro immonde riforme della pubblica amministrazione e del mercato del lavoro (vedi l’ossessiva contrapposizione con la Cgil, che ha spinto quest’ultima ad attestarsi su posizioni antigovernative per mera necessità di sopravvivenza, e il ruolo non irrilevante del malcontento e delle lotte sociali); le incerte e singolari alleanze sul piano internazionale che hanno messo a serio repentaglio gli affari e i profitti delle grandi compagnie energetiche italiane sullo scacchiere geopolitico (vedi la vicenda libica e il rischio di scavalcamento da parte dell’imperialismo francese nella tradizionale colonia italiana per via dei singolari rapporti tra il vecchio premier e il rais Gheddafi), sono solo alcuni esempi del progressivo indebolimento della destra nell’ultimo anno e del crollo del suo indice di gradimento presso la grande borghesia.

Dunque, l’eclissi del berlusconismo è stata il prodotto dell’incapacità delle destre di svolgere adeguatamente il ruolo di fedele esecutore degli interessi del capitale. Ciò con buona pace di quel carrozzone finto-democratico che in questi anni ha fatto dell’antiberlusconismo la sua unica ragion d’essere, e che, pur di compattare tutto il possibile, ha in questi anni prodotto un insulso minestrone (dal popolo viola ai grillini, dai papaboys al Di Pietro fan della legge Reale passando per i finiani ex-fascisti e arrivando, attraverso il delatore Vendola, a settori dello stesso movimento “contro la crisi”) che aveva, ed ha, come unico comune denominatore la totale estraneità agli interessi e alla rivendicazioni di chi questa crisi la paga quotidianamente.

In quest’ottica, pur sembrandoci persino superfluo sottolineare il nostro disprezzo e il nostro irriducibile antagonismo rispetto al governo più reazionario che la storia del dopoguerra ricordi, riteniamo impossibile che un operaio, un precario, un disoccupato siano potuti scendere in piazza a festeggiare l’avvento al potere del suo peggior nemico: un governo targato Confindustria-BCE.

L’area euro si sfalda

L’operazione Monti, definita dallo stesso neo-premier alla stregua di un ultima spiaggia, si situa in un contesto reso ancor più difficile dal progressivo sfaldamento della cornice istituzionale che aveva garantito nel decennio scorso la nascita dell’Euro e il tentativo di costruzione di un polo imperialista continentale. Il sogno di un Europa unita nella quale i singoli stati avrebbero progressivamente ceduto la propria sovranità in nome dei comuni interessi continentali è stato spazzato via non appena i terremoti finanziari e la recessione economica hanno imposto alla BCE e alla Commissione Europea di smettere i panni di moltiplicatore dei profitti e delle rendite per vestire il ruolo scomodo di socializzatore delle perdite. La Commissione, che doveva avviarsi a rappresentare l’organo supremo di politica economica comune, progressivamente uscita di scena, da mesi è stata di fatto esautorata di ogni potere per lasciare spazio al bilateralismo Merkel-Sarkozy; la BCE, che da anni sembrava in procinto di sostituire le singole banche centrali, risulta anch’essa ostaggio dei veti incrociati tra Francia e Germania, e quindi incapace sia di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza, sia di di emettere quei tanto invocati Eurobond nel disperato tentativo di frenare la speculazione sui debiti sovrani degli stati membri a rischio di insolvenza.

In sostanza, e come sempre nella storia del vecchio continente, lo “stato di necessità” porta al riemergere delle tensioni e dei conflitti tra gli stati (e tra le rispettive borghesie) e al riaffermarsi della legge del più forte secondo il motto del “si salvi chi può”. Il più forte, manco a dirlo, è la locomotiva tedesca, la quale sinora è andata a braccetto con la Francia in nome dei comuni interessi e della relativa crescita che essi sono riusciti sinora a preservare: la fermezza con la quale i due paesi si sono opposti ad un rafforzamento del fondo Europeo salva-stati di fronte all’esplosione della crisi greca, il ferreo ancoraggio alle prescrizioni dettate del Trattato di Maastricht e dal patto di Stabilità (controllo del deficit e politiche monetarie deflazioniste che in una situazione di crisi significa innescare una vera e propria spirale recessiva per mezzo di tagli al salario e dunque ai consumi) e il già citato veto a ogni ipotesi di obbligazioni europee sono la riprova di come la borghesia tedesca e francese abbia sino a qualche settimana fa ritenuto di potersi salvare dal precipizio spingendovi dentro i propri partner comunitari. Ma evitare il contagio di una crisi sistemica e quanto mai globale, per giunta in un mercato comune dove la maggioranza dei tasselli che lo compongono sono già prossimi al tracollo, è una pia illusione destinata prima o poi ad essere brutalmente smentita dai fatti. Fatti che non hanno tardato a manifestarsi: l’annuncio di pochi giorni fa di un probabile declassamento del debito francese e soprattutto il clamoroso flop dell’asta sui titoli del debito tedesco ne sono la riprova più evidente (e non è un caso se negli ultimi giorni Sarkozy si sia sganciato dalla Germania riconvertendosi in paladino dell’Europa unita e in sostenitore degli Eurobond…).

Che tutto ciò si traduca in una disintegrazione dell’euro e nel sacrificio di alcuni paesi sull’altare di Francia e Germania, o nel tentativo di rimettere in piedi politiche espansive come caldeggiato dai cosiddetti PIIGS e da gran parte della vecchia tecnocrazia europea (Prodi, Delors, Barroso, ecc.), o ancora nel perpetuarsi dei dogmi monetaristi della Merkel attraverso un controllo diretto delle singole politiche fiscali, è presto a dirsi. L’unica cosa certa è che, qualsiasi sia lo scenario, a pagare dazio saranno ancora una volta i milioni di proletari e gli altrettanto numerosi segmenti di ceto medio messo in ginocchio dalla crisi. A fronte del grande disordine che regna sotto al cielo, il problema di drammatica e stringente attualità per i comunisti rivoluzionari e per l’insieme delle forze anticapitaliste, sta nel come rendere questa situazione eccellente!

Il nuovo esecutivo: da dove vengono, dove ci vogliono portare

Il curriculum del nuovo premier e dei suoi principali ministri e sottosegretari testimonia più di mille parole il suo ruolo di maggiordomo prono agli interessi della classe dominante. La carriera di Mario Monti ha infatti spiccato il volo nel 1994, quando fu nominato dal primo governo Berlusconi commissario europeo al mercato interno per essere poi confermato dal governo D’Alema nel ruolo altrettanto strategico di commissario alla concorrenza. A coronamento dei servigi svolti nelle principali stanze dell’imperialismo europeo, Monti fu nominato presidente europeo della commissione trilaterale (fondata da Rockefeller), membro del direttivo del Gruppo Bilderberg e collaboratore per la Goldman Sachs.

Questi solo alcuni elementi rappresentativi del trascorso del nuovo premier, e nello stesso tempo Ministro dell’Economia, il quale ha selezionato propri suoi uomini di fiducia per la composizione del governo. È il caso di Giampaolo Di Paola, ammiraglio-ministro della difesa, già presidente del Comitato militare della Nato, interno alle missioni in Kosovo, Afghanistan, Iraq e Libia, figura ideale di “tecnico” spendibile nell’ottica di eventuali nuove guerre imperialiste in Siria ed Iran. Ancor più indicativa la figura di Giulio Terzi di Sant’Agata, il cui curriculum è lo specchio fedele degli interessi di cui questo governo si fa interprete: dopo innumerevoli incarichi sulla scena internazionale quali consigliere della Nato, ambasciatore prima in Israele, poi negli USA e come consigliere della Farnesina sui conflitti balcanici e in Afghanistan, e dopo aver rappresentato per molti anni un’importante elemento di congiunzione economico-affaristica tra l’Italia e Israele, avrà ora il compito di consolidare il ruolo dell’imperialismo italiano su tutti i principali scacchieri geopolitici, in primis quello mediorientale ed euro-mediterraneo, anche a fronte delle anomalie nella condotta delle politiche internazionali da parte del governo Berlusconi che avevano, tra l’altro, creato non poche frizioni con gli alleati anglo-americani e con i principali governi europei. Altro ministro, che compone la nuova “squadra” di governo, è il Ministro della Giustizia Paola Severino. La reale identità di questa figura, sinora sconosciuta ai più e che “Repubblica” tenta di celare dietro la retorica pseudo-femminista, ci parla di un ex-vicedirettore dell’Università Luiss “Guido Carli”, difensore di Cesare Geronzi nel crac Cirio e di Caltagirone in quello Imi-Sir (ma anche di Salvatore Buscemi, capofamiglia mafioso, condannato all’ergastolo nel processo per la strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Falcone e tutta la sua scorta), ma soprattutto difensore di Gilberto Caldarozzi, ex vice capo dello SCO (Servizio Centrale Operativo), condannato a 3 anni ed 8 mesi, che nella notte del 21 luglio era all’interno della scuola Diaz, quella passata alle cronache come la macelleria messicana di Genova, nell’ultima giornata delle mobilitazioni contro il vertice del G8 nel capoluogo ligure.

Quel che a un primo colpo d’occhio potrebbe sorprendere è il quasi mistero che aleggia attorno al programma con cui Monti e il suo governo intendono affrontare l’ondata recessiva.

Nello stesso discorso d’insediamento, il neo-premier non è andato molto al di là delle solite quanto ipocrite promesse di equità da affiancare al rigore dei conti, lasciandosi sfuggire, come unica indicazione programmatica, il proposito di reintrodurre l’ICI sulla prima casa. Nello scenario attuale, è plausibile che Monti stia provando nei primi mesi del proprio mandato ad adottare un approccio “prudente” con lo scopo di consolidare un consenso che è tanto ampio in parlamento quanto precario presso un paese reale che in questi anni la crisi se l’è già sobbarcata in pieno. Il problema in realtà è di capire quanto durerà il “conto alla rovescia”: i mercati, che dovevano in un sol colpo passare dal panico all’euforia, sembrano aver già esaurito la propria dose di fiducia, come dimostrano i due capitomboli già registrati nell’ultima settimana a Piazza Affari e il permanere dei tassi d’interessi dei Btp attorno alla soglia critica del 7%. D’altro canto, più che le tempeste dell’economia finanziaria, ad incidere sull’operato dell’attuale governo e a portare quest’ultimo sulla strada “lacrime e sangue” che tanto si cerca di esorcizzare, sono i dati catastrofici dell’economia reale, in Italia così come nell’intera area Euro. L’andamento del Pil, che persino in Francia e Germania si fa sempre più prossimo allo zero, in Italia è già da molti mesi in calo (ed è una strana coincidenza che l’Istat per la prima volta dichiari di non voler pubblicare le stime del terzo trimestre); la disoccupazione, anche secondo i dati ufficiali che considerano occupato anche chi lavora una settimana all’anno, è balzata all’8,3% e ha già superato la soglia drammatica del 20% al Sud; la chiusura di circa 9000 imprese solo nei primi nove mesi del 2011 con annessi licenziamenti e casse integrazioni; in ultimo, il crollo degli ordinativi dell’industria (solo a settembre -9,2%): questi i principali dati della spirale recessiva in atto, di fronte alla quale non tarderà a prodursi una risposta da parte del governo simile alla macelleria sociale attuata da Papandreu in Grecia.

Del resto la direzione di marcia individuata nella lettera della BCE, fatta propria dal governo uscente e individuata come dogma imprescindibile da Monti e compagnia, ci parla di un attacco di dimensioni colossali al salario diretto, indiretto e differito.

Fa quasi sorridere, se non incidesse in maniera devastante sulle condizioni di vita di milioni di proletari, il fatto che tra le misure da adottare per incentivare la crescita si individui, nell’ordine, la privatizzazione dei servizi pubblici locali (dunque l’esatto contrario dell’esito dei referendum voluti proprio da coloro che ora sono in prima linea nel sostenere a spada tratta Monti…), lo smantellamento definitivo del CCNL e l’introduzione della totale libertà di licenziamento: in sostanza, la mercificazione totale di ogni bene comune, la cancellazione di ogni più elementare diritto e l’estensione del modello Marchionne all’intero mondo del lavoro dipendente.

Quanto alle politiche di rientro del debito e di riduzione del deficit, il bersaglio è sempre lo stesso: taglio alla previdenza attraverso l’allungamento dell’età pensionabile, scure sul pubblico impiego attraverso l’immediato blocco del turn-over e il possibile via libera ad esuberi e riduzione degli stipendi dei dipendenti, e ulteriori tagli agli enti locali.

Nel concreto il nuovo governo (il cui premier non ha mai fatto mistero di essere un tenace sostenitore dell’ortodossia monetarista, da egli stesso rivendicata anche nelle sue prime uscite pubbliche), dopo la violenta levata di scudi sollevata dalla destra e dal mondo imprenditoriale contro qualsiasi ipotesi di introdurre una vera patrimoniale sulle grandi ricchezze, ha già presentato il suo biglietto da visita con l’ulteriore aumento di un punto dell’IVA.

È evidente a tutti, anche allo stesso nostro nemico di classe, come queste misure finiranno per tradursi, attraverso la riduzione del potere d’acquisto dei salari e degli stipendi, in un’ulteriore contrazione dei consumi, e dunque in un effetto domino che non potrà che innescare una dinamica di ripetizione all’infinito dei fattori che hanno determinato la manifestazione odierna di una crisi che i governi dei padroni sono strutturalmente incapaci di affrontare e di risolvere, per il semplice motivo che il capitalismo non è il malato, bensì la malattia.

Non riteniamo sia questa la sede adatta per approfondire il tema delle cause e delle radici strutturali e sistemiche del tracollo a cui stiamo assistendo, ma ci limitiamo ad evidenziare come quest’ultimo, (contrariamente a quanto vorrebbero millantare non solo gli strenui difensori delle virtù taumaturgiche del mercato, ma anche gli stessi nostalgici di un ritorno a Keynes e ai bei tempi andati del “welfare state” e della spesa pubblica in deficit) sia il prodotto di una crisi di lunga durata del processo di valorizzazione del capitale nel capo dell’economia reale e della produzione di merci, la cui fuga nell’universo fittizio della speculazione rappresenta la conseguenza e non la causa.

Quanto agli scenari che ci si presenteranno di fronte nell’immediato, ci sembra del tutto probabile che una dinamica quale quella descritta sopra non potrà che scatenare una nuova (e con ogni probabilità inedita) ondata di proteste e di mobilitazioni. In quest’ottica, non deve sorprendere la scelta della Lega Nord di sottrarsi all’abbraccio di Monti presentandosi come unica forza di opposizione dell’arco parlamentare: Bossi e i suoi luogotenenti, che per anni hanno occupato le stanze dei bottoni e beneficiato di tutti i privilegi di “Roma ladrona”, oggi lasciano il lavoro sporco agli alleati del PdL e si candidano ad intercettare da destra il malcontento delle classi medie in rovina e di quella parte di classe operaia che nel 2008 li ha votati per convogliarlo in direzione reazionaria (magari insieme a Storace e a qualche altro rottame neofascista) e fare da diga verso ogni possibile sbocco anticapitalista della crisi. Anche con questa variabile il movimento di classe dovrà fare i conti nei prossimi mesi, evitando attendismi e ambiguità di ogni tipo…

E noi

Warren Buffet, uno dei maggiori finanzieri e miliardari americani: “La lotta di classe c’è, ma è la mia classe, la classe dei ricchi che sta facendo la guerra, e noi stiamo vincendo”. Sintetizzando il tutto, gli esperimenti di ingegneria finanziaria attualmente allo studio presso ministeri e commissioni di mezza Europa, e le stesse proposte provenienti da settori della sinistra radicale, come la Tobin tax o il non pagamento del debito, al massimo potranno fungere da momentanea bombola d’ossigeno nell’immediato per un paziente in stato comatoso rinviando la catastrofe, ma sul breve e ancor più sul medio periodo risulteranno inutili sia in chiave di rilancio dell’accumulazione privata, sia nell’ottica del rientro del debito sia soprattutto per i salari dei lavoratori. Per questi ultimi, che rappresentano l’unica “variabile” che ci sta a cuore, diventa sempre più palese come la ripresa della lotta di classe su scala internazionale costituisca l’unico antidoto efficace per respingere un attacco altrettanto internazionale da parte del capitale.

Dinanzi a questo scenario, dobbiamo purtroppo registrare come la miriade di lotte e vertenze siano ancora lontane dal muovere i primi passi verso un reale coordinamento: i timidi tentativi compiuti in questi mesi, seppur encomiabili, si limitano o alla proiezione dell’intervento specifico di questo o quel raggruppamento su un numero di vertenze limitato e circoscritto territorialmente, oppure sono il prodotto di tentativi di riaggregazione di aree politico-sindacali con un seguito anche discreto ma viziate dall’antico tarlo del politicismo e del tatticismo. E’ evidente come tutto ciò sia il frutto anche e soprattutto della mancanza di una soggettività politica che lavori verso una reale unificazione delle lotte: ne sono massima dimostrazione gli episodi di ribellione del 14 Dicembre del 2010 a Piazza del Popolo e il 15 Ottobre 2011 a Piazza S. Giovanni, rispetto ai quali, pur rivendicando le pratiche e la conflittualità espressa in quelle piazze, non ci si può semplicisticamente limitarsi ad enfatizzare la portata di queste due giornate, in quanto il carattere isolato e discontinuo di tali fiammate dovrebbe portare i compagni ad interrogarsi su quel “qualcosa che manca” a questo movimento per trasformarsi in vero antagonista dei poteri dominanti1.

In quest’ottica, i generosi tentativi che numerose realtà in giro per l’Italia stanno conducendo a livello locale ed embrionale necessitano in breve tempo di essere messi in collegamento, superando logiche di parrocchia e di appartenenza alle miriadi strutture afferenti alla sinistra di classe, al fine di ricercare un percorso comune, quanto meno a livello nazionale ed in prospettiva europeo, con due sole discriminanti fondamentali: l’opposizione ai piani del padronato internazionale, europeo e nazionale, e l’autonomia delle lotte da ogni abbraccio istituzionale e da ogni ipotesi collaborazionista o neoconcertativa. Un tale percorso, partendo da importanti vertenze del mondo del lavoro e del non lavoro sta finalmente iniziando a muovere i primi passi anche a Napoli e in Campania: siamo però consapevoli che esso potrà divenire un efficace strumento di controffensiva solo se saprà acquisire una dimensione e un raggio d’azione adeguati al terreno di scontro impostoci dal nemico di classe.

Dunque, è proprio questo l’appello che rivolgiamo a tutte le realtà nazionali. Unire le forze rimettendo al centro le rivendicazioni che in molti hanno abbandonato nella ricerca di illusorie “nuove vie”: diritto incondizionato ad un salario garantito, drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, riconquista ed estensione dei diritti a tutti i proletari per l’accesso universale a servizi e beni comuni, superando qualsiasi finta dicotomia tra lavoratore “garantito” e lavoratore precario, uguaglianza di trattamento salariale per tutti i proletari europei. Da queste parole d’ordine è possibile rilanciare la mobilitazione che dopo il 15 Ottobre ha visto una fase di stallo, a condizione che queste non siano semplicemente una ripetizione di slogan o una mera lista della spesa, ma la sintesi di percorsi di lotta e di mobilitazioni reali. La nostra non può essere una risposta qualsiasi utile per il ritorno elettorale di qualcuno, ma una proposta di indirizzo che mira a rompere realmente la gabbia capitalista.
Siamo consapevoli che si tratta di un lavoro difficile e di lunga durata, ma dinanzi alla compattezza politica che i padroni costruiscono per superare questa crisi, sarebbe davvero suicida continuare ad illudersi che per fermarli possano bastare un paio di manifestazioni nazionali o un numero imprecisato di scioperi indetti da sigle sindacali di base in perenne conflittualità tra loro.

Del resto appare quasi scontato sottolineare che una dimensione unicamente vertenziale, territoriale o aziendale, è sempre il miglior viatico per far rifluire le lotte, alimentare il disorientamento e la sfiducia dei proletari, e in ultimo consegnarli nelle mani del riformismo, del sindacalismo giallo o peggio ancora, delle orde reazionarie. Se si vuol difendere il movimento da chi vuole influenzarlo ed utilizzarlo in senso riformista ed elettorale occorre attrezzarsi con uno strumento unitario, almeno nazionale, capace di rappresentare l’alternativa di piazza e di proporre una via di uscita reale da questa crisi.

Contro il governo Monti e la macelleria sociale in programma, il primo passo è lavorare alla costruzione di percorsi di lotta unitari tra tutte le aree anticapitaliste.

1 [Per approfondimenti ed analisi sul 15 ottobre. http://www.iskrassociazione.org/2011/10/15-ottobre-forme-e-sostanza/]

“Non potrà esservi un movimento rivoluzionario solido senza una organizzazione stabile che assicuri la continuità nel tempo. Più numerosa è la massa trascinata spontaneamente nella lotta, la massa che è la base del movimento e partecipa ad esso, tanto più siffatta organizzazione è urgente e tanto più deve essere solida (sarà facile altrimenti ai demagoghi trascinare con gli strati arretrati della massa) [] un’organizzazione che abbia la capacità di adattarsi immediatamente alle più diverse condizioni, alle sempre mutevoli condizioni della lotta, la capacità da una parte, di evitare la battaglia in terreno scoperto con un nemico di forze superiori, che ha concentrato le sue forze su un solo punto, e dall’altra di approfittare dell’incapacità di manovra del nemico per piombargli addosso nel luogo e nel momento in cui meno se lo aspetta.

Se non sappiamo elaborare una tattica politica stabilire un piano di organizzazione per un periodo lunghissimo e che assicurino, attraverso lo svolgimento stesso del lavoro, la capacità del nostro partito di trovarsi sempre al proprio posto e di fare il proprio dovere nelle circostanze più inattese, qualunque sia la rapidità degli avvenimenti, siamo soltanto dei miserabili avventurieri politici.

Il proletariato nella sua lotta per il potere ha soltanto unarma: l’organizzazione […]
È ridicolo richiamarsi alla diversa situazione, al succedersi dei periodi: si deve lavorare per creare un’organizzazione combattiva e condurre un’agitazione politica in qualsiasi situazione, per quanto “grigia, pacifica”, in qualsiasi periodo di “declino dello spirito rivoluzionario”, anzi, proprio in questa situazione e in questi periodi è particolarmente necessario tale lavoro, poiché nei momenti degli scoppi e delle esplosioni non si farebbe in tempo a creare un’organizzazione; essa deve essere pronta per poter sviluppare subito la sua attività.

[Lenin]

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa
Argomenti:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *