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La Cina sfida gli USA: “pronti alla guerra”

La Cina sfida gli Usa “Pronti alla guerra”

Paolo Mastrolilli

La Marina militare cinese deve fare «estesi preparativi per la guerra». Non è un giornale o un propagandista qualsiasi che parla, ma il presidente Hu Jintao in persona. La risposta più brusca che potesse dare alla decisione di Obama di schierare i Marines in Australia, confermando quanto sia grave la minaccia alla stabilità dell’intera regione del Pacifico, provocata dagli interessi economici e dalle mire espansionistiche di Pechino.

Hu ha parlato martedì alla Commissione militare centrale della Repubblica popolare. Secondo la traduzione dei media ufficiali cinesi, ha detto che «il nostro lavoro deve concentrarsi strettamente sul tema della difesa nazionale e della costruzione delle capacità militari». Quindi ha aggiunto che la Marina «deve accelerare la sua trasformazione e la modernizzazione in maniera robusta, e fare estesi preparativi per la guerra, per offrire un contributo più grande alla salvaguardia della sicurezza nazionale».

Il Pentagono, a caldo, ha ridimensionato la portata delle dichiarazioni di Hu. «Loro – ha commentato il portavoce George Little – hanno il diritto di sviluppare le capacità militari e fare piani, come noi. Ciò che abbiamo chiesto ripetutamente alle nostre controparti cinesi è la trasparenza, e questo è parte del rapporto che continuiamo a costruire con i militari cinesi». L’ammiraglio John Kirby ha usato lo stesso tono, aggiungendo però un avvertimento: «Qui nessuno sta cercando la rissa. Certamente non staremo ad invidiare o lesinare ad alcuna nazione l’opportunità, il diritto di sviluppare le forze navali affinché siano pronte. La nostra Marina è pronta, e resterà pronta». Anche il dipartimento di Stato, per bocca di Mark Toner, si è limitato a sottolineare che «vorremmo avere rapporti tra militari più forti con la Cina, e maggiore trasparenza. Ciò aiuterebbe a rispondere alle domande che potremmo avere sulle loro intenzioni».

La verità è che nella regione è in corso un vero braccio di ferro, in prima battuta tra la Cina e i Paesi vicini, e in seconda tra Pechino e Washington. La Repubblica popolare mira alle riserve di petrolio e gas del Mar Cinese Meridionale, dove si trovano anche zone molto pescose e rotte mercantili trafficatissime. Secondo le sue pretese, le acque territoriali che le appartengono sono raccolte dentro una U gigante, che si estende fino a mille chilometri dalle proprie coste. Una posizione che la mette in diretto contrasto non solo con i paesi più vicini, come Vietnam, Filippine, Malaysia e Brunei, ma anche con la potenza regionale indiana e la superpotenza americana. Pechino, ad esempio, ha criticato apertamente i piani di Nuova Delhi per fare esplorazioni petrolifere nella regione, così come i progetti della Exxon-Mobil davanti alle coste vietnamite.

Finora le forze armate cinesi, che sono le più numerose al mondo, hanno avuto una caratteristica prevalentemente terrena. Da qualche anno, però, queste ambizioni marittime di Pechino hanno accelerato gli investimenti nella Marina. L’esempio più lampante è la portaerei ex sovietica, che la Repubblica popolare ha acquistato e ristrutturato. Ora arriva l’incitamento di Hu preparare la guerra.

Gli Stati Uniti sono ancora la potenza navale dominante del Pacifico, ma forse negli ultimi tempi i cinesi hanno letto le difficoltà economiche di Washington come l’inizio di una progressiva ritirata. A modificare questa percezione e rincuorare gli alleati giapponesi e coreani ci ha pensato il presidente Obama, con il recente viaggio in cui ha annunciato l’arrivo dei Marines in Australia, ma anche il capo del Pentagono Panetta, quando ha dichiarato che «gli Usa sono e resteranno una presenza nel Pacifico. Semmai, ci rafforzeremo». Il segretario di Stato Clinton ha scritto su Foreign Policy che questo sarà «l’America’s Pacific Century», il secolo del Pacifico americano, e il suo recente viaggio a Myanmar ha confermato l’intenzione di Washington di contrastare le mire cinesi. Martedì Pechino ha risposto.


Lotta senza esclusione di colpi lungo le rotte del petrolio

Michael T. Klare

Per quanto riguarda la politica verso la Cina, l’Amministrazione Obama rischia di passare dalla padella nella brace. Nel tentativo di voltare pagina dopo le guerre disastrose nel Grande Medio Oriente, l’America potrebbe lanciare una nuova Guerra Fredda in Asia, guardando ancora una volta al petrolio come chiave della supremazia mondiale. Secondo quanto detto dal Presidente Usa nel suo viaggio in Australia, d’ora in avanti gli Stati Uniti concentreranno la loro potenza in Asia e nel Pacifico.

L’Amministrazione ha deciso una serie di mosse per rafforzare la potenza americana in Asia, e a mettere la Cina sulla difensiva. Come la decisione di schierare 250 marines, che potranno diventare 2500, nella base aerea di Darwin in Australia, o la «Dichiarazione di Manila» sui nuovi legami militari con le Filippine. Nel contempo la Casa Bianca ha annunciato la vendita di 24 cacciabombardieri F-16 a Taiwan e Hillary Clinton ha visitato la Birmania, stretto alleato di Pechino, prima visita di un segretario di Stato dopo 56 anni.

Queste mosse hanno lo scopo di massimizzare i vantaggi per l’America nel quadro diplomatico e militare attuale, mentre la Cina domina quello economico. In un articolo su «Foreign Policy», la Clinton ha argomentato che un’America indebolita economicamente non può dominare in più regioni del mondo contemporaneamente. Deve scegliere con cura i campi di battaglia e dispiegare le sue forze limitate in modo da ottenere il massimo vantaggio. «Nel prossimo decennio – scrive la Clinton – dovremo essere accurati e sistematici sul dove investire tempo ed energie… uno dei compiti più importanti… sarà nella regione dell’Asia-Pacifico».

Il rafforzamento militare statunitense e la probabile, potente, controffensiva cinese sono già stati oggetto di discussione sulla stampa dei due Paesi. Una dimensione cruciale di questo scontro imminente, però, non ha ricevuto alcuna attenzione: l’ i m p o r t a n z a cheha avuto nelle decisioni di W a s h i n g t o n una nuova analisi dell’equazione energetica globale, che ha rivelato crescenti punti vulnerabili sul lato cinese.

Per decenni gli Stati Uniti sono stati pesantemente dipendenti dal petrolio importato, mentre la Cina era largamente autosufficiente. Nel 2001 gli Stati Uniti consumavano 19,6 milioni di barili al giorno e ne producevano 9. La dipendenza dai produttori stranieri per 10,6 milioni di barili al giorno era una della maggiori preoccupazioni strategiche di Washington. La risposta è stata il rafforzamento, la militarizzazione, dei legami con il Medio Oriente.

Nel 2001, invece, la Cina consumava soltanto 5 milioni di barili al giorno e, con una produzione domestica di 3,3 milioni, ne importava 1,7. Ora le tabelle sono molto cambiate. La Cina in pieno boom sta girando al ritmo di 7,8 milioni di barili al giorno e arriverà a 13,6 nel 2020 e a 16,9 nel 2035, secondo le proiezioni del Dipartimento dell’energia Usa. La produzione nazionale invece crescerà dai 4 milioni attuali a 5,3 nel 2035, anno nel quale Pechino importerà 11,6 milioni di barili al giorno, più degli Stati Uniti.

Nel frattempo l’America può guardare una situazione energetica in via di miglioramento. Grazie alla maggior produzione di «petrolio difficile» nel Mar Artico, nelle acque profonde del Golfo del Messico, nelle rocce scistose in Montana, North Dakota e Texas, le importazioni sono previste in diminuzione. E più petrolio sarà disponibile in tutto l’Occidente: la produzione di Usa, Canada e Brasile crescerà di 10,6 milioni di barili al giorno fra il 2009 e il 2035.

Significa che Washington potrà contemplare un graduale allentamento dei suoi legami militari e politici con gli Stati petroliferi del Medio Oriente che hanno dominato la sua politica estera per così tanto tempo. Per la Cina, tutto ciò comporta uno sbilanciamento strategico. Sebbene parte del greggio importato in Cina viaggerà su vie terrestri, da Kazakhstan e dalla Russia, la gran parte arriverà ancora con le petroliere da Medio Oriente, Africa e America Latina, lungo rotte pattugliate dalla Marina Usa. Non c’è dubbio che la leadership cinese, in risposta, farà passi per proteggere la sicurezza delle linee vitali di approvvigionamento. Molti di questi passi saranno economici e diplomatici, come, per esempio corteggiare potenze regionali, a partire da Vietnam e Indonesia. Ma molti passi saranno di natura militare. Un significativo rafforzamento della Marina cinese è inevitabile.

Washington potrebbe ora accendere in Asia la miccia di una corsa agli armamenti in stile Guerra Fredda, che nessuno dei due contendenti può, sul lungo periodo, permettersi. E un maggior affidamento sul petrolio ricavato dalle sabbie bituminose canadesi, la più inquinante di tutte le fonti energetiche, comporterà maggiori emissioni di gas serra e altri rischi ambientali, come pure l’estrazione di petrolio in acque profonde. Tutto ciò significa che dal punto di vista ambientale, militare ed economico, ci troveremo tutti in un mondo più, e non meno, pericoloso.

* Fonte: La Stampa dell’8 dicembre 2011 

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