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Equo solidale o multinazionale?

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La terza rivoluzione industriale riparte da dove era cominciata la prima: nei campi di cotone e di caffè. E’ la rivoluzione del fair trade: il commercio equo e solidale. Un giro d’affari da 6 miliardi di dollari. Un tasso di crescita del 27 per cento annuo. Oltre 1 milione e 150mila contadini dei paesi più poveri strappati alla miseria. Ma allora perché gli inventori di questa rivoluzionaria forma di commercio – e che regala al prodotto marchiato “fair trade” un 10 per cento in più nelle vendite – si sono messi a litigare come i vecchi capitalisti di una volta?

Dimenticate le colline della Silicon Valley – dove la seconda rivoluzione è esplosa prepotente – e tornate a rivolgere lo sguardo alle piantagioni di tutto il pianeta: dal Nicaragua al Burkina Faso. È qui che la rivoluzione dell’equo e solidale promette di riequilibrare la bilancia del commercio dalla parte dei contadini finora sottopagati. E arricchendo ancora di più le tasche alle multinazionali: dalla Nestlé in giù. A scorgere i numeri sembra davvero un miracolo: Karl Marx a braccetto di Adam Smith. Solo che ultimamente il vecchio Adam sta cominciando ad accelerare un po’ troppo il passo: e il buon Karl invece di stargli dietro continua a pizzicarsi dubbioso la barba.

Da ieri Fair Trade Usa è uscita da Fair Trade International. Per la più grande associazione del commercio equo e solidale del mondo è più di una perdita: è un’amputazione. Con un giro d’affari di 1,8 miliardi di dollari gli americani costituiscono più di un terzo di quel mercato da 5,8 miliardi di dollari in continua espansione. Per l’organizzazione che rappresenta 25 paesi, tra cui l’Italia, e garantisce il lavoro e la confezione equa e solidale di un centinaio di prodotti, è un colpo che rischia di essere fatale. Ma non è finita. La lite è scoppiata perfino in seno al board di Fair Trade International. Dove i due fondatori si ritrovano l’un contro l’altro armati. E dall’America a Bonn, sede di Fair Trade International, il motivo del contendere è sempre quello.

Da una parte c’è chi, come gli americani e come uno dei due fondatori del movimento, Nico Roozen, spinge per l’apertura al mercato e il coinvolgimento sempre maggiore delle multinazionali. Dall’altra c’è chi sostiene che così facendo si tradisce il movimento: e il numero uno del partito della resistenza è proprio l’altro fondatore, il missionario olandese Frans van der Hoff. «I due padri fondatori si stanno portando su due posizioni diverse» confessa a Businessweek lo stesso Roozen, 58 anni, figlio di un coltivatore di tulipani, il prodotto che fece fiorire l’impero commerciale olandese ma il cui boom portò anche alla prima bolla finanziaria del mondo. «Frans critica Fair Trade perché sta facendo compromessi con le multinazionali come la Nestlé. E io critico Fair Trade perché non sta guidando il cammino verso il fair trade di massa».

«Stanno annacquando il concetto di equo» replica il missionario, che vive ancora oggi con i poveri coltivatori messicani dell’Oaxaca, i primi a essere beneficiati dal loro programma. L’intuizione che Roozen e van der Hoff ebbero in un supermarket di Utrecht nel 1985 era ingegnosa. Aiutare i piccoli produttori a trovare uno sbocco commerciale senza finire tra gli aguzzini della grande distribuzione. E soprattutto favorire una produzione più equa garantendo un prezzo minimo e un “premium” da investire in progetti di miglioramento sociale: dalla sanità all’istruzione. I produttori che avrebbero accettato le regole del gioco sarebbero stati etichettati appunto come fair trade. E il consumatore sempre più attento e socialmente responsabile avrebbe così favorito quei prodotti finalmente “assicurati”.

La rivoluzione ha funzionato così bene che oggi il commercio equo è garantito da circa 200 marchi: fino a quelle Botteghe del Mondo conosciute anche in Italia, per esempio, che distribuiscono prodotti certificati equi dall’associazione Altromercato. Ma Fair Trade resta ovviamente il colosso mondiale. “Too big to fail” come dicono gli economisti a proposito delle banche che hanno tenuto in ostaggio Wall Street: troppo grande per fallire. Se il colosso collassa crolla l’intera impalcatura dell’equo solidale. E la scissione americana è la prima scossa del terremoto che verrà. Dal primo gennaio Fair Trade Usa etichetterà i prodotti equi col proprio marchio. Il presidente Paul Rice ha spiegato al New York Times la scelta come una svolta anche questa rivoluzionaria: «Vogliamo che resti un movimento piccolo e puro o vogliamo assicurare il commercio equo per tutti?».

Commercio equo per tutti vuol dire però rivedere le regole. La ricetta con cui gli americani giurano di raddoppiare entro il 2015 la quota di mercato per la verità è meno ingegnosa ma indubbiamente ancora più efficace di quella escogitata una trentina d’anni fa dai padri fondatori olandesi. Dare l’etichetta di fair trade anche alle grandi piantagioni che accettano di sottostare alle regole del fair trade – a scapito ovviamente dei piccoli produttori. E poi abbassare la soglia degli ingredienti necessari per etichettare un prodotto “equo” dal 20 al 10 per cento. Il meccanismo è pensato per aumentare la partecipazione nel mercato dei colossi Starbucks, WalMart, Nestlé. Il caffè costituisce il 70 per cento dell’intera produzione fair trade negli Usa. E la scoperta che l’equo e solidale vende ha fatto salire gli investimenti dei big: la quota fair di Starbucks – il più grande negozio di caffè del mondo – sfiora già il 10 per cento ed è in continua crescita. Ma i piccoli importatori che hanno fatto del commercio equo il loro credo non ci stanno.

«Starbucks, Green Mountain e altri grandi marchi potranno diventare al 100 per 100 fair trade non perché hanno cambiato il loro modo di fare business ma perché Fair Trade Usa ha cambiato le regole del gioco»: è l’accusa che viene appunto da Dean Cyon, il fondatore di Dean’s Benas Organic Coffe Company, una piccola compagnia del Massachusetts. «I coltivatori delle grandi piantagioni sono i veri ultimi del mondo», ribatte Rice: «Così potremo invece costringere i padroni ad applicare le regole». E in Italia? Il mercato è ancora piccolo ma in crescita con un aumento del 15 per cento e un giro d’affari da 56 milioni di euro all’anno. E grandi marchi da Feltrinelli alla Coop e alla Conad già scesi in campo. Lo scossone americano provocherà qualcosa? «Troppo facile tirarsi fuori» dice a Repubblica Paolo Pastore, il direttore di Fair Trade Italia. «Abbiamo sperato fino all’ultimo che il divorzio non si consumasse e io stesso ne ho discusso con Paul Rice».

Il problema sarà adesso per quei marchi Usa che vengono anche esportati in Italia: come il gelato Ben & Jerry’s. «Giocoforza non potranno abbandonare Fair Trade International: non possono rinunciare al mercato europeo». Che insieme all’Australia e al Giappone costituisce gli altri due terzi della fetta fair trade. La lite insomma non può far bene al movimento. Che in questi giorni ha dovuto anche difendersi da un’altra bufera: lo scandalo scoperto delle finte certificazioni dei produttori del Burkina Faso – schiave bambine per raccogliere il cotone che finiva nei reggiseni né equi né solidali di Victoria’s Secret. Un orrore come quelli denunciati da Conor Woodman: il giornalista che in “Unfair Trade” ha raccontato – recita il sottotitolo – «come il Big Business sfrutta i più poveri del mondo». Per carità: ogni rivoluzione ha le sue vittime. Riuscirà la terza rivoluzione industriale a mantenere le sue promesse di liberazione?

* Repubblica, 2 gennaio 2012 

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