L’Imperialismo in un’epoca a corto di liquidi: tempeste sotto la superficie. Parte I
di Melkulangara Bhadrakumar – Strategic Culture Foundation
13.gennaio 2012
La strategia di difesa degli Stati Uniti illustrata dal presidente Barack Obama a Washington il 5 gennaio viene condizionata dalla necessità di tagliare la spesa del Pentagono di quasi mezzo bilione (500 miliardi) di dollari nel prossimo decennio. Innegabilmente, esiste qualche nota positiva nella prospettiva che questa sia una strategia determinata da disgrazie di bilancio – anche se Obama e il capo del Pentagono Leon Panetta hanno insistito sul fatto che si tratta in verità di pura e semplice strategia.
Nelle parole di Obama, “la marea della guerra si sta ritirando, quindi la questione a cui questa strategia risponde è di quale tipo di esercito noi [gli USA] avremo bisogno molto tempo dopo che le guerre dell’ultimo decennio si saranno concluse.”
Però una valutazione rigidamente contraria è stata attribuita all’influente repubblicano, presidente alla Camera dei Rappresentanti della commissione sulle Forze Armate, Buck McKeon, che ha affermato: “Si tratta di una strategia condotta alla nostre spalle a favore di un’America di sinistra. Il presidente ha confezionato la nostra [statunitense] ritirata dal mondo nelle vesti di una nuova strategia, per mascherare la sua dismissione della nostra difesa militare e nazionale.”
La questione può essere risolta con una certa sicurezza solo dal mese prossimo, quando il ministero della Difesa degli Stati Uniti spiegherà nei dettagli le assegnazioni relative al suo bilancio proposte per il 2013, e arriveremo a conoscere dove sono stati fatti i tagli.
Infatti, altri tagli “automatici” nel bilancio pari a 500 miliardi dollari sono previsti nel 2013, a meno che il Congresso non li revochi. Panetta ha già avvertito che un tale colpo sui finanziamenti sarebbe una catastrofe per la difesa degli Stati Uniti.
La scorsa settimana, Panetta ha indicato che il Pentagono starebbe per mettere in campo una forza militare “ridotta e di media entità”, mentre sono state riportate dichiarazioni di altri funzionari dell’amministrazione sulla possibilità che le dimensioni del personale dell’Esercito e del Corpo dei marines potrebbero venire ridotte dal 10 al 15 per cento nel prossimo decennio.
In buona sostanza, dunque, Gordon Adams, un professore che ha lavorato sui bilanci della Casa Bianca di Bill Clinton, è stato puntuale: “Questo è un classico documento di una strategia per far entrare risorse. Non serve muovere critiche, questa è la realtà. È inevitabile. Questa strategia mostra i sintomi del dollaro.”
Quindi, siamo alla fine della storia? L’imperialismo degli Stati Uniti sta ritirandosi dalla scena mondiale? I marines stanno impacchettando armi e bagagli per tornarsene a casa a ricongiungersi alle loro famiglie, per una vita sempre felice e serena?
In realtà, il documento strategico di difesa è ingannevole. Le cose sembrano cambiare, ma in realtà rimangono le stesse.
Il cuore della questione è che gli Stati Uniti stanno mettendo in atto solo aggiustamenti mediante i quali preparare un’altra Guerra Fredda, e, a differenza della Guerra Fredda condotta contro l’Unione Sovietica, questa sarà combattuta principalmente nella regione Asia-Pacifico.
Ma prima di entrare in questo argomento, è necessario comprendere le caratteristiche salienti di questa strategia di difesa nazionale.
In poche parole, gli Stati Uniti preferirebbero non essere coinvolti più in imponenti invasioni di territori, come in Afghanistan nel 2011, o in Iraq nel 2003; prioritaria diverrà la guerra informatica, con l’uso di droni senza pilota.
Le forze degli Stati Uniti “non saranno più dimensionate per condurre su larga scala operazioni prolungate di stabilità” recita il documento, e anche piccole incursioni all’estero saranno più rare, dal momento che “con risorse limitate, dovranno essere compiute scelte ragionate per quanto riguarda la posizione e la frequenza di queste operazioni.”
Gli Stati Uniti ridurranno il numero di armi nucleari nei loro arsenali, nonché rivedranno il loro ruolo nella strategia della sicurezza globale.
Viene dato l’addio all’obiettivo vecchio di decenni di una forza unilaterale degli Stati Uniti che possa combattere contemporaneamente due importanti guerre, e invece l’obiettivo sarà quello di “combattere e scoraggiare” – vale a dire combattere “una guerra e… mezza”. Quindi, gli Stati Uniti faranno il possibile per operare con forze alleate e di coalizione.
In breve, può essere prevista in anticipo un’espansione dell’utilizzo di contractor dell’esercito statunitense, di spie e droni, e di appaltatori che gestiscono la logistica militare all’estero – e un accentuato impiego in campo di alleati fedelissimi come la Gran Bretagna e l’Australia, (a differenza di Francia o Germania), che sono immancabilmente a fianco dei marines quando questi sono impegnati in interventi all’estero, così come di nuovi partner come il Qatar.
Il piano è infatti quello di ridurre significativamente le dimensioni dell’esercito e contare molto di più sulla capacità di forze aeronavali per equilibrare un competitore come la Cina o per sottomettere un antagonista come l’Iran.
Sfide asimmetriche
La contrazione necessita di un ridimensionamento in Europa della presenza militare adatta all’epoca della Guerra Fredda. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti “di necessità andranno a compensare verso la regione Asia-Pacifico”, e quindi manterranno una grande presenza in Medio Oriente.
Senza dubbio, la regione Asia-Pacifico diventa ora per gli Stati Uniti una priorità assoluta per affrontare la sfida posta dal crescente potere regionale della Cina.
Obama ha sottolineato ai media che “andremo a rafforzare la nostra presenza nell’area Asia-Pacifico, e i tagli di bilancio non avverranno a scapito di questa regione critica.”
Chiaramente, per costruire infrastrutture in Asia-Pacifico, gli Stati Uniti dovranno ridurre gli spiegamenti in Europa, (ma non nel Medio Oriente), e trovare risparmi nella contrazione di indennità e di benefici pensionistici, nei sistemi d’arma della Guerra Fredda e nell’arsenale nucleare.
L’impatto della nuova strategia di difesa sui conflitti regionali e sulla politica mondiale potrà essere valutato solo una volta che saranno conosciute tutte le risposte sulle conseguenze dirette di bilancio, il mese prossimo. Ma può essere già fatta qualche stima preliminare di ciò che sarà realmente la presenza militare degli Stati Uniti.
In primo luogo, si deve presumere che l’intenzione degli Stati Uniti sia infatti quella di allontanarsi dai paradigmi delle contro-rivoluzioni, dalle invasioni di territori e da operazioni di terra.
Ciò non dovrebbe sorprendere, dato che l’anno scorso l’ex ministro della difesa Robert Gates dichiarava pubblicamente che ogni futuro leader con progetti di guerra e di occupazione militare di un paese nel Medio Oriente “dovrebbe farsi visitare il cervello”.
Vale a dire, interventi militari da parte degli Stati Uniti sullo stile “Iraq” possono essere di fatto esclusi in Siria, nell’Iran o contro la Corea del Nord.
L’intervento del tipo “Libia” sostituisce la classica aggressione militare. Un’alternativa potrebbe essere un’operazione del tipo “Iraq” per modificare, attraverso un’impresa condotta al rallentatore, certi confini territoriali stabiliti. Il successo di un’operazione del tipo “Iraq” dipende dalla tenacia a conseguirlo, sempre che l’intervento sia economicamente efficiente.
A dire il vero, l’Iran sta diventando un banco di prova dove, senza un’“implosione” (che è quasi impossibile), un cambiamento di regime può avvenire solo attraverso una massiccia operazione di terra, però di una natura tale da impegnare ben più grandi risorse rispetto alla guerra in Iraq nel 2003, per un periodo prolungato, almeno un decennio, per soggiogare una nazione con una storia di resistenza e rivoluzione e un sistema di potere esercitato ideologicamente che gode il consenso di una base sociale sostanziale. D’altra parte, l’Iran presenta anche un mosaico di etnie.
Detto questo, la strategia sarà quella di affrontare l’Iran (e la Cina) proiettando la potenza militare degli Stati Uniti sul Golfo Persico e il Mar Cinese Meridionale, e di scoraggiare l’Iran (o la Cina) dalla ricerca e dall’impiego di mezzi asimmetrici – missili balistici e da crociera, strumentazione da guerra elettronica e cibernetica, difese aeree avanzate, posa di mine, ecc – per contrastare le potenzialità di proiezione della potenza degli Stati Uniti.
La strategia insiste sul fatto che gli Stati Uniti “garantiranno la loro capacità di operare efficacemente in scenari di contrattacco e di impedimento all’accesso in determinate zone … [gli USA] devono mantenere la loro capacità di proiettare potenza in aree in cui viene sfidato il nostro accesso e la nostra libertà di operare.”
Guardando al di là di tutto ciò, gli Stati Uniti continueranno ad esercitare il loro potere globale, da superpotenza che deve “garantirsi la libertà di accesso in ogni dove, in aree del mondo situate al di fuori della loro giurisdizione nazionale, che costituiscono il tessuto connettivo vitale del sistema internazionale.”
La nuova strategia valuta che al-Qaeda sia stata ben limitata “nel suo potere di colpire”, ma comunque, rimane attiva e continuerà a minacciare gli interessi degli Stati Uniti, e in un “prevedibile futuro”, è necessario un approccio concreto per contrastarla.
Le “basi importanti di queste minacce” sono individuate con appoggi nell’Asia meridionale e in Medio Oriente. Questo diventa per gli Stati Uniti una giustificazione per continuare l’impegno robusto nelle due regioni.
Per quanto riguarda l’Afghanistan, viene contemplata un’azione supplementare al ritiro attuale delle truppe usamericane, un “mix di azione diretta e di assistenza alle forze di sicurezza”. Implicitamente, in Afghanistan si confermerà per lungo tempo a venire una sostanziale presenza di truppe da combattimento e di forze speciali statunitensi, e la minaccia di al-Qaeda deve venire intesa come l’alibi per il permanente consolidamento di basi militari statunitensi
La quiete si trova nelle steppe
Tre sono i settori principali che meritano una dettagliata analisi nel documento sulla strategia di difesa, dato che presentano profonde implicazioni per la sicurezza regionale e internazionale per il prossimo futuro – il ridimensionamento degli Stati Uniti in Europa, il loro consolidamento in Medio Oriente, e il “riequilibrio” verso l’area Asia-Pacifico.
Il documento fa menzione ripetutamente del fatto che l’Alleanza trans-atlantica e la North Atlantic Treaty Organization [NATO] rimarranno i punti fissi delle strategie globali degli Stati Uniti nel XXI secolo.
Di fatto, la criticità dell’Alleanza è tale che il ruolo della NATO non è più confinato ai limiti territoriale dell’Europa, ma si va ad estendere su scala globale nel momento in cui gli Stati Uniti conferiscono priorità per i futuri interventi militari in terre straniere alla collaborazione con il sistema di alleanze, piuttosto che ad imprese unilaterali.
In secondo luogo, il documento chiarisce che gli Stati Uniti sono ben lungi dal ritiro completo dall’Europa. Sicuramente, diventa opportuno un ridimensionamento della presenza militare tipica della Guerra Fredda, dal momento che un paese come la Germania sempre più vuole contare per sé, ed è anche avveduto, poiché la Russia senza fare sforzi di immaginazione non rappresenta alcun pericolo per la sicurezza dell’Europa occidentale.
Così, la realtà geopolitica emergente è che gli Stati Uniti avranno “interessi permanenti” nei conflitti cosiddetti “raffreddati” in parti d’Europa e dell’Eurasia, così come in altre sfide alla sicurezza, che possono essere adeguatamente affrontate come e quando lo esigono le contingenze. In breve, Washington si ripropone di cogliere “un’opportunità strategica per riequilibrare gli investimenti militari usamericani in Europa”, in modo da poter concentrarsi sullo sviluppo ottimale di “future potenzialità” adeguate ad una “epoca di restrizioni di risorse”.
Il nuovo mantra è “Smart Defence”, difesa intelligente. Ovviamente, gli impegni degli Stati Uniti rispetto all’articolo 5 della Carta atlantica resteranno incrollabili, e nessuno dovrebbe lanciare il malocchio sugli alleati della NATO degli Stati Uniti.
Nel documento si fa menzione alla Russia, come di un paese con il quale gli Stati Uniti continueranno a impegnarsi in modo speciale. Ma alla Russia non vengono offerte assicurazioni sul dispiegamento alla sua periferia del sistema di difesa missilistico degli Stati Uniti o sulla futura espansione della NATO.
Il riferimento sottolinea la determinazione degli Stati Uniti a coinvolgere la Russia in “sfide per la sicurezza” e sulle questioni di “conflitti irrisolti” in Eurasia; d’altro canto, Washington pone contrasti di qualsiasi tipo a Mosca, che sta accelerando processi di integrazione in atto nella regione, soprattutto tra oggi e il 2015.
Un interessante puzzle è quello che si presenterebbe se la “Primavera araba” dovesse arrivare nelle steppe dell’Asia centrale. Tutte le indicazioni sono che un tale scenario accoglie sempre più favore nell’area di considerazione degli Stati Uniti.
Proprio la settimana scorsa, l’ambasciatore William Courtney, inviato a rappresentare gli Stati Uniti ad Astana, la capitale del Kazakistan, ha scritto un articolo – cosa di interesse, nel principale quotidiano arabo “Khaleej Times” – riflettendo profondamente sul futuro del Kazakistan. “Kazakistan nel precipizio”, il titolo dell’articolo, diceva tutto.
Courtney sottolineava gli “importanti interessi degli Stati Uniti” in Kazakistan, che spaziano dalla “produzione di energia all’eliminazione delle armi nucleari e biologiche, fino al transito dei vitali rifornimenti NATO per l’Afghanistan.”
(Alcuni commentatori statunitensi hanno recentemente cominciato a citare il Kazakistan come il vero “hub”, lo snodo critico, della Rete di Distribuzione del Nord, piuttosto che l’Uzbekistan).
Courtney ha scritto:
“Le persone in Kazakistan che cercano maggiore libertà guardano a Washington e alle capitali europee per ottenere appoggi … Dopo più di due decenni fra ricchezze e corruzione sempre crescenti, l’autocrazia morbida del Kazakistan si è indurita … Come ho visto in recenti viaggi, gran parte del Kazakistan è stata deprivata di investimenti pubblici, mentre Nazarbayev ha trasformato la nuova capitale, Astana, in un mini-Dubai.
I pochi privilegiati sono sorprendentemente ricchi. Disuguaglianze economiche, gestione della cosa pubblica autoritaria, e uno stile di governo altamente personalizzato hanno alimentato risentimenti diffusi.
I governi occidentali, calibrando con attenzione il loro interesse, non dovrebbero perdere tempo nell’approfondire il loro impegno con i leader più promettenti, compresi quelli più giovani al governo. Scambi professionali e di istruzione intensificati e l’addestramento a forme democratiche della politica potrebbero aiutare a preparare la strada ad una generazione nuova e più aperta di leader. Insediamenti occidentali di difesa potrebbero intensificare la formazione di natura democratica dei comandi militari.
Un nuovo accordo con l’Unione europea dovrebbe espandere i programmi di gestione giuridica, e l’OSCE dovrebbe aumentare sul campo la sua presenza di stabilizzazione.
L’Occidente ha un enorme interesse verso il Kazakistan, quindi si può fare di più per aiutare il suo popolo nella costruzione di un futuro democratico.”
Naturalmente, la campana rintocca non solo per il Kazakistan, ma anche per l’Uzbekistan, il Kirghizistan, il Tagikistan e il Turkmenistan, che gli Stati Uniti considerano piuttosto “frutti pronti per essere colti”, in confronto con il Kazakistan che può essere considerato frutto già maturato e spiccato, o che comunque cadrà da solo ad uno scossone dell’albero.
Evidentemente, si sta approntando un piano operativo per un cambio di regimi nella regione dell’Asia centrale, che può essere messo in moto solo se Kabul viene condotto sotto un governo “amico” islamista, e solo se gli Stati Uniti riescono a stabilire loro basi militari in Afghanistan. Senza dubbio, i tumulti del 16 dicembre nella città del Kazakistan occidentale, Zhanaozen, sono stati amplificati a dismisura dai commentatori statunitensi, tra cui Courtney.
Quindi, si deve concludere che la nuova strategia di difesa presentata a Washington dipinge un quadro di ingannevole calma in Europa ed Eurasia, ma sotto la superficie stanno fermentando tempeste. La bufera assumerà impulso in proporzione diretta ai processi di integrazione in corso nell’Asia centrale, portando alla formazione di una Unione euro-asiatica entro il 2015.
In breve, il momento decisivo della crisi probabilmente si verificherà poco più avanti.
(fine prima parte)
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L’Imperialismo in un’epoca a corto di liquidi: gli Stati Uniti possono far fronte solo ad una… “mezza guerra” fredda.
Parte II
di Melkulangara Bhadrakumar – Strategic Culture Foundation
18.gennaio 2012
http://www.strategic-culture.org/news/2012/01/18/imperialism-for-a-cash-strapped-era-us-cold-war-ii.html
(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
La “rivoluzione colorata” continuerà ad essere il percorso più indicato per gli Stati Uniti ad effettuare un cambio di regime in Asia centrale. Ma i limiti nella capacità di intervento da parte degli Stati Uniti non possono non essere notati. Come un osservatore perspicace ha sottolineato di recente, gli Stati Uniti sembrano un “affittuario piuttosto che un onesto proprietario terriero di terra eurasiatica” – e un affittuario può sempre essere sfrattato dal proprietario.
In secondo luogo, i paesi dell’Asia centrale non possono che trovare odiosi i cambiamenti di regime violenti in Iraq, Afghanistan e Libia, e non desiderano passare attraverso un’esperienza simile.
Cosa più importante, sia la Russia che la Cina sono orientate verso politiche attive regionali con riguardo ai paesi dell’Asia centrale, politiche che concedono a questi paesi molto spazio di resistenza alle pressioni degli Stati Uniti.
Rimane il fatto che i paesi dell’Asia centrale sono una parte integrante della cosiddetta Rete di Distribuzione del Nord [NDN], che sta assumendo sempre maggior importanza strategica come via principale dei rifornimenti per la guerra statunitense in Afghanistan, a causa della rottura e della sfiducia nelle relazioni degli Stati Uniti con il Pakistan, con la conseguente chiusura delle vie di transito attraverso il Pakistan.
In effetti, questo significa che “gli strateghi della politica russi possono ora trarre conforto dal fatto che la missione della NATO in Afghanistan diviene ostaggio della buona volontà di Mosca”, per citare Richard Weitz, direttore del Centro di Analisi politico-militari presso l’autorevole centro studi del “Washington Hudson Institute”.
Weitz ha scritto:
“La NDN non può funzionare senza accedere al territorio russo o senza affrontare l’opposizione della Russia, data la decisiva influenza di Mosca sulle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale. Considerando che le esigenze logistiche della NATO in Eurasia devono essere soddisfatte, Mosca occupa una posizione chiave.”
In termini geopolitici, questo significherebbe che gli Stati dell’Asia centrale continuerebbero a puntare su Mosca come principale fornitore di sicurezza per la regione, e finché Mosca continua a migliorare i propri interessi politici, economici e di sicurezza in quest’area, commisurati al suo stato di grande potenza, la capacità degli Stati Uniti di presentare se stessi come i “giusti della storia” rimarrà fortemente limitata.
Punto critico
Questo ci riporta al Medio Oriente e all’Asia-Pacifico, come ai due principali teatri in cui ci si può attendere che venga messa in azione a breve termine la nuova strategia di difesa degli Stati Uniti.
Il documento mette in chiara luce che in queste due regioni gli Stati Uniti intendono perseguire politiche vigorose, con l’intento di ottimizzare la loro influenza, e non sarà permesso che vengano contrapposte limitazioni alle risorse del Pentagono.
Il documento afferma la continuità di approccio interventista degli Stati Uniti in Medio Oriente e la loro ricerca di egemonia regionale.
Si considera la Primavera araba come fonte di sfide per la strategia degli Stati Uniti, ma si colgono anche le “opportunità” che si presentano.
Nel breve termine, ci possono essere incertezze circa la direzione degli sviluppi nella regione, ma gli Stati Uniti possono aspettarsi una “collaborazione più stabile e affidabile” con i nuovi governi a carattere rappresentativo.
Nella strategia regionale degli Stati Uniti sono state scelte per importanza tre direzioni: il sostegno degli Stati membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo [GCC]; il contenimento dell’Iran; “garanzie assolute per la sicurezza di Israele”.
Il documento sottolinea che rimarrà prioritaria la grande presenza militare degli Stati Uniti nella regione. Tutto sommato, quindi, il senso generale del documento è che gli Stati Uniti faranno di tutto per perpetuare la loro egemonia regionale in Medio Oriente.
La decisa affermazione del sostegno alle oligarchie dominanti nei territori del GCC si traduce nella grande determinazione nel fare di tutto per mantenere il controllo sulle vaste risorse di petrolio e gas della regione.
Le prese di posizione differenziate degli Stati Uniti nei confronti delle primavere arabe – in tono minore l’approccio rispetto al Bahrein, Giordania e Arabia Saudita, e acuto fervore rivoluzionario per quanto riguarda la Libia e la Siria – enfatizzano il punto che la geopolitica sarà sempre al vertice della strategia degli Stati Uniti. A tal fine, gli Stati Uniti non incoraggeranno alcun “cambio di regime” nei paesi del GCC. Al contrario, gli Stati Uniti persevereranno con gli sforzi per forzare un cambiamento di regime in Siria.
Il modo di rapportarsi rispetto alle primavere arabe è direttamente collegato agli altri due schemi della strategia regionale degli Stati Uniti, in particolare, al contenimento dell’Iran e alla salvaguardia della preminenza regionale di Israele.
La realtà geopolitica è tale che la pretesa da parte dell’Iran di potenza ed influenza regionale pone questo paese in contrasto con gli interessi degli Stati Uniti e di Israele.
Allo stesso modo, l’ascesa dell’Iran come potenza regionale deriva da una molteplicità di fattori, che sono prima di tutto insiti nella sfera domestica, e su cui né gli Stati Uniti né Israele hanno una qualche possibilità di influenza – le risorse nazionali dell’Iran nel campo scientifico e tecnologico, il suo successo nell’opporsi e sconfiggere le sanzioni degli Stati Uniti, la sua complessiva forza militare, la sua tecnologia nucleare, il suo sistema politico con una sensibile base sociale e la sua ideologia unificante.
Quindi, le contraddizioni si stanno decisamente acutizzando.
Per gli Stati Uniti, è impensabile l’emergere di un’autentica potenza regionale in Medio Oriente. Gli Stati Uniti semplicemente non possono permettere alcun indebolimento della loro posizione di predominio in una regione strategicamente importante. Ma l’emergere dell’Iran come potenza regionale minaccia di fare esattamente questo, trasformando la geopolitica del Medio Oriente.
Negli ultimi tre decenni, gli Stati Uniti hanno messo in campo tutti gli stratagemmi del loro armamentario per distruggere o indebolire il regime iraniano. Ma l’Iran ha continuato a provocare e non è disposto ad adeguarsi. Quindi, si è arrivati ad un punto critico. Che altra opzione è rimasta agli Stati Uniti se non di scatenare una guerra contro l’Iran?
Corsa agli armamenti!
La parte più sensazionale del documento sulla strategia di difesa degli Stati Uniti riguarda il “ribilanciamento” verso la regione Asia-Pacifico.
In un certo senso, il documento si proietta in avanti e prevede un allargamento della Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti del 2010, per rinnovare la leadership globale degli USA e far avanzare i propri interessi nel XXI secolo, “basandosi sulle fonti di forza domestiche, mentre si sta plasmando un ordine internazionale in grado di affrontare le sfide del nostro tempo.”
L’approccio prevede principalmente l’aumento degli investimenti strategici degli Stati Uniti nella regione Asia-Pacifico, sfruttando le paure e i complessi dovuti alla crescita della Cina nella regione tra gli Stati dell’area Asia-Pacifico, alcuni dei quali hanno in corso irrisolte dispute territoriali con la Cina (che si dimostra non disposta a trattare) o hanno dovuto affrontare conflitti militari con la Cina nella storia moderna.
In particolare, il Mar Cinese Meridionale è diventato un’arena di disordini regionali, in cui gli Stati Uniti in una certa misura sono riusciti a fomentare sentimenti regionalisti e la resistenza contro una Cina “energicamente riottosa”.
Chiaramente, gli Stati Uniti continueranno a ignorare gli avvertimenti della Cina contro il coinvolgimento di “forze esterne” negli affari della regione, e la strategia degli Stati Uniti sarà quella di istigare l’opinione pubblica regionale a mobilitarsi contro la Cina sotto la leadership statunitense.
Gli Stati Uniti insistono anche in modo noioso sulla modernizzazione dell’esercito della Cina, accusando questo paese di mancanza di trasparenza, e danno enfasi alle apprensioni regionali per un “revanscismo” della Cina.
Dall’ultimo documento si evince un aumento sostanziale delle spese militari degli Stati Uniti specifiche per la regione Asia-Pacifico, in modo che guadagni in credibilità la loro pretesa di essere i tutori della sicurezza per i paesi di quest’area. Una corsa agli armamenti nella regione si armonizzerà con gli interessi degli Stati Uniti, e la “minaccia cinese” si presta per la promozione delle esportazioni di armi statunitensi verso questa zona.
Esiste la forte probabilità che gli Stati Uniti faranno tutto il possibile per accentuare i contrasti nei rapporti fra gli Stati regionali da un lato – in particolare India e Giappone – e la Cina dall’altro. L’iniziativa degli Stati Uniti per avviare un dialogo trilaterale con il Giappone e l’India, (che ha visto la sua prima sessione a Washington nel mese di dicembre), può essere vista in questa luce. Allo stesso modo, il tentativo degli Stati Uniti di premere per inserire l’India in un blocco asiatico sotto la loro leadership risulta dal conciso riferimento all’India presente nel documento di strategia di difesa:
“Inoltre, dovremo espandere le nostre reti di cooperazione con i partner emergenti attraverso tutta la regione Asia-Pacifico, per garantire le risorse collettive e la capacità di proteggere gli interessi comuni. Gli Stati Uniti intendono anche investire in una partnership strategica a lungo termine con l’India, per sostenere la sua potenzialità di servire come punto di riferimento stabile economico regionale e come paese fornitore di sicurezza in un’area più allargata dell’Oceano Indiano.”
Intrufolarsi al momento dell’intervallo
Tuttavia, il successo della politica degli Stati Uniti viene impostato su diversi fattori, fra cui spicca la possibilità degli Stati Uniti di offrire un partenariato economico ai paesi della regione, fornendo un’alternativa rispetto al loro gravitare attorno all’orbita economica cinese, come sta succedendo oggi.
La Cina è in grado di mantenere il suo elevato tasso di crescita per almeno un altro decennio, inducendo ad un maggiore consumo il suo miliardo e 300 milioni di abitanti, che stanno acquisendo un reddito disponibile sempre più alto. Con l’aumento del PIL della Cina, i paesi della regione – non solo quelli direttamente periferici alla Cina, ma anche i paesi più lontani – non possono resistere alla attrazione del mercato cinese e vengono quindi inglobati nell’orbita economica della Cina.
I paesi di questa regione sono consapevoli di una realtà che sta consolidandosi sempre più, che la loro straordinaria dipendenza dal mercato cinese potrebbe fornire a Pechino nel corso del tempo il potere di “punire” coloro che remano contro gli interessi della Cina.
In sintesi, si rendono conto che sono mutati gli equilibri di potere nella regione, mentre, al tempo stesso, vige il paradosso che questi paesi si avvalgono anche dei benefici dal commercio e dagli investimenti con la Cina e stanno sfruttando la sua crescita, e questo vale anche per l’Australia, il più fedele alleato degli Stati Uniti nella regione Asia-Pacifico.
Un articolo, che ha visto come co-autore il “minister mentor” di Singapore Lee Kuan Yew, più di un anno fa così si esprimeva:
“C’è ancora tempo per gli Stati Uniti per contrastare l’attrazione della Cina, istituendo un accordo di libero scambio con altri paesi della regione. Ciò eviterebbe a questi paesi una dipendenza eccessiva dal mercato cinese … le prospettive per un rapporto equilibrato ed equo tra il mercato degli Stati Uniti e quello della Cina sta diventando sempre più difficile. In questa regione, ogni anno la Cina attira più importazioni ed esportazioni dai suoi vicini rispetto agli Stati Uniti. Senza un accordo di libero scambio, la Corea, il Giappone, Taiwan e i paesi dell’ASEAN (Associazione degli Stati del Sud-est asiatico) verranno integrati nell’economia cinese – un risultato da evitare.”
Ma questo è più facile a dirsi che a farsi. Se non altro, si sta rafforzando negli Stati Uniti l’umore prevalente contro ogni nuovo accordo di libero scambio, e soprattutto si rendono evidenti sentimenti protezionisti. Per di più, questo è anche un gioco a cui la Cina non disdegna partecipare.
E finora, mentre gli Statunitensi e Lee Kuan Yew possono vedere la Cina come una minaccia economica, i paesi della regione – ma anche gli Europei! – continuano ad essere allettati dalla promessa di una Cina come opportunità economica.
In buona sostanza, invece di essere prescrittiva, la Cina finora si è adeguata alla creazione di situazioni “win-win”, vantaggiose per tutti, con i suoi partner dell’Asia-Pacifico.
La palese accentuazione della nuova strategia di difesa verso una guerra fredda con la Cina mira a neutralizzare la percezione diffusa nella regione Asia-Pacifico che il “momento unipolare” degli Stati Uniti stia finendo.
Tuttavia, l’assenza prolungata degli Stati Uniti dalla regione, dato il loro impegno nella “guerra al terrorismo” degli ultimi dieci anni, ovviamente, ha creato un nuovo paradigma, per cui i paesi della regione hanno cominciato a riflettere sulla stabilità, sicurezza e prosperità della regione in assenza della leadership dello Zio Sam.
I nuovi meccanismi regionali di cooperazione in questa area si sono conformati come il “10 +1”, [10 paesi membri dell’ASEAN più la Cina] e nuovi approcci allo sviluppo di una matrice di legami politici, economici e di sicurezza hanno fatto progressi sostanziali.
In sintesi, quindi, gli Stati Uniti praticamente cercano di intrufolarsi al momento dell’intervallo in una rappresentazione teatrale asiatica, che non prevede la loro presenza, o per cui non si ritiene necessaria la loro partecipazione al cast, tanto meno come primi attori.
Inoltre, la Cina non sta ferma a guardare, neanche un po’!
Un potente strumento nelle sue mani è il livello senza precedenti della sua interdipendenza economica con gli Stati Uniti. Il fatto che il presidente Barack Obama abbia iniziato il calendario diplomatico degli Stati Uniti per il 2012 delegando il ministro del Tesoro Timothy Geithner come inviato speciale a Pechino – subito dopo le stridule espressioni pronunciate a margine della sessione APEC a Honolulu e dopo il vertice dell’Asia orientale di Bali – sottolinea il vivo desiderio di Washington di impostare una voluminosa agenda positiva riguardante le relazioni USA-Cina.
[N.d.tr.: L’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) è un organismo per la cooperazione economica nell’area Asia-Pacifico, nato nel 1989, allo scopo di favorire la cooperazione e la crescita economica, il libero scambio e gli investimenti nell’area medesima.]
Naturalmente, Pechino ha accolto con gioia l’opportunità di rapporti cordiali.
I colloqui di Geithner con la leadership cinese hanno trasmesso il messaggio che i due paesi non hanno altra alternativa che quella di una cooperazione favorevole per entrambi.
Con una ripresa economica statunitense che si sta rivelando più lenta del previsto, il mercato cinese assume la massima importanza per incrementare il tasso di crescita negli Stati Uniti. Ancora, l’acquisto continuato da parte cinese delle obbligazioni del Tesoro degli Stati Uniti è di vitale importanza per la capacità degli Stati Uniti di conservare una sostenibilità finanziaria.
Ultimamente, si è verificata una curiosa convergenza di interessi rispetto all’isolare le rispettive economie dalle ricadute negative della crisi dell’Eurozona.
Sullo sfondo dei colloqui di Geithner a Pechino, il “China Daily”, quotidiano di proprietà del governo cinese, sottolineava:
“Anche se alcuni funzionari dell’amministrazione di [Barack] Obama si sono uniti nel gioco di attaccare violentemente la Cina, esperti di rilevo di questioni cinesi all’interno e nell’ambito della Casa Bianca sembrano essere più lucidi, motivo per cui alla Camera dei rappresentanti è stata accantonata la discussione sui rapporti dollaro-yuan, e il ministero del Tesoro non ha etichettato la Cina come ‘manipolatore di valuta’ …
Prima della visita di Geithner, l’Assistente alla segreteria di Stato Kurt Campbell ha visitato Pechino e ha discusso sui recenti sviluppi nella penisola coreana, e il vice-presidente Xi Jinping è stato invitato a visitare gli Stati Uniti in febbraio. Speriamo che tali visite ad alto livello da entrambe le parti contribuiranno a dare certezza che le relazioni cino-usamericane si mantengano su una giusta direzione.”
In definitiva, il “riequilibrio” delle capacità militari degli Stati Uniti verso l’area Asia-Pacifico ha motivazioni complesse, quella di impegnare la Cina più in profondità, e contemporaneamente su un binario parallelo quella di attingere alla crescente prosperità dei paesi della regione, giocando sulle loro insicurezze, per poi condurle sotto la leadership degli Stati Uniti. Entrambe le iniziative sono necessarie per la ripresa dell’economia statunitense.
Il risultato finale sarà, contrariamente alle intenzioni apparenti della strategia di difesa degli Stati Uniti a proclamare una nuova Guerra Fredda in Asia-Pacifico, l’alta probabilità che Washington potrebbe finire per ottenere al massimo una pura e semplice “Guerra Fredda …dimezzata”. E una Guerra Fredda è inutile se non è completa e al cento per cento…salutare.
La dura realtà è che gli Stati Uniti non sono in grado più di ispirare fiducia nella comunità internazionale circa il loro “momento unipolare”. Gli ultimi dati allo scorso settembre mostrano che la dimensione del debito nazionale degli Stati Uniti ha raggiunto una nuova pietra miliare – 15.230 miliardi di dollari – e questo ora è troppo anche per il sistema economico usamericano nel suo complesso. La previsione a lungo termine è che il debito correrà più velocemente dell’economia e l’economia può avere bisogno di una crescita annuale del 6 per cento solo per stare al passo con i debiti galoppanti.
http://www.strategic-culture.org/news/2012/01/13/imperialism-cash-strapped-era-storms-
L’ambasciatore Melkulangara Bhadrakumar è stato diplomatico di carriera presso il Servizio per gli Affari Esteri indiano. I suoi incarichi hanno riguardato l’Unione Sovietica, la Corea del Sud, Sri Lanka, Germania, Afghanistan, Pakistan, Uzbekistan, Kuwait e Turchia.
Bhadrakumar è uno specialista per le questioni concernenti l’Afghanistan e il Pakistan, e scrive sui temi dell’energia e della sicurezza per diverse pubblicazioni tra cui “The Hindu”, “Deccan Herald” e “Asia Ondine”. Vive a New Delhi.
Bhadrakumar è il figlio maggiore del defunto MK Kumaran (1915-1994), un famoso scrittore comunista, giornalista, traduttore e attivista del Kerala.
(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
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