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Le stragi nascoste

Se domandate a un romano che vive nel centro storico dov’è via degli Acquasparta farà difficoltà a indicarvela. È una strada appartata eppure in una zona centralissima: fra il rione Parione e Tor di Nona, a due passi da Piazza Navona. Un buon tratto è delimitato dal Palazzo Cesi, che è sede della Procura Generale Militare della Repubblica presso la Corte Suprema di Cassazione. L’edificio è parzialmente nascosto da tre pioppi giganteschi ma la tendenza a celare cresce in maniera esponenziale se si entra nel palazzo stesso. Lì per cinquant’anni, in un armadio in legno modello ministeriale, con le ante appoggiate contro una parete e l’ingresso della stanzina protetto da un cancello di ferro chiuso a chiave, vennero raccolti e occultati 695 fascicoli contenenti denunce sui crimini di guerra compiuti in Italia nel periodo 1943-45 da militari tedeschi.

Questa purtroppo è storia vera narrata col rigore del ricercatore da uno studioso del fascismo, Mimmo Franzinelli, che ha esaminato quel materiale dopo che a metà degli anni Novanta l’armadio venne scoperto e le procure territoriali poterono utilizzare e dar seguito ai documenti lì raccolti. Il congegno della rimozione e dell’occultamento fu articolato, coinvolse la real politik nazionale e internazionale ed ha, come lo storico accerta, nomi, cognomi e appartenenze politiche, proprio come i criminali di guerra denunciati.

 

La memoria delle stragi

I seicento giorni d’occupazione d’Italia operati dall’esercito tedesco, che aveva al proprio servizio gli aderenti della Repubblica di Salò, furono vissuti dalle popolazioni del centro e del nord della penisola come un incubo di violenza e terrore.

Alla repressione dei resistenti organizzati in bande partigiane e in nuclei di gappisti, una repressione attuata da speciali divisioni della Wehrmacht fra cui spiccavano i parà della ‘Goering’ e da reparti repubblichini della Decima Mas, delle Brigate Nere, della Guardia Nazionale Repubblicana e della Legione Tagliamento, s’aggiunsero anche stermini e crimini efferati verso la popolazione civile. Le stragi iniziarono con la ritirata germanica verso nord, una delle prime a Caiazzo in provincia di Caserta colpisce per l’elenco delle 23 vittime (i fratelli Perrone: Elena 4 anni, Margherita 6, Antonietta 9, Giuseppe 12; i fratelli Albanese: Angelina 12 anni, Antonio 14, Elena 16; i fratelli D’Agostino Carmela 6 anni, Orsola 8, Antonio 10, Saverio 12). Stragi di bambini. E non furono poche.

In un lungo e tristissimo elenco l’autore ricorda le stragi in ordine alfabetico. Ecco le più sanguinose: ad Arezzo il 17 giugno ‘44 224 vittime e poi il 16 luglio un’altra fucilazione di 200 persone. A Badicroce (Ar) il 25 giugno ’44 con 80 italiani fucilati e bastonati a morte. Ancora nell’aretino a Castelnuovo Sabbioni il 4 luglio ’44 72 bruciati coi lanciafiamme e tre giorni dopo 200 fucilati, anche lì molti bambini. A Castelnuovo Val di Cecina (Pi) il 14 giugno ’44 83 persone uccise dai fascisti comandati da ufficiali tedeschi. A Chiesina (Fi) il 23 agosto ‘44 314 fucilati o assassinati a colpi di baionetta.

A Cicalaia (Pt) nell’estate ’44 la popolazione fu rinchiusa in una chiesa con le porte serrate e vennero fatte esplodere mine: 60 morti. A Civitella della Chiana (Ar) il 29 giugno ’44 200 vittime. A Fragheto (Ps) nell’agosto ’44 80 fucilati. A Genova nel luglio ’44 70 prigionieri politici costretti a scavarsi la fossa per essere poi fucilati dalla Guardia Nazionale Repubblicana. A Fondotoce (Lago Maggiore) nell’agosto ’44 20 ebrei affogati nel lago e 41 fucilati dalla Guardia Nazionale Repubblicana. A Marzabotto (Bo) nel settembre ’44 955 trucidati (216 bambini sotto i dodici anni, 316 donne), con le frazioni del circondario del Monte Sole le vittime salirono a 1830. A Modena nell’agosto ’44 120 fucilati. A Monsummano (Pt) il 23 luglio ’44 300 uccisi. A Roma 24 marzo ’44 esecuzione di 335 persone con un colpo di pistola alla nuca nelle Cave Ardeatine, come rappresaglia per l’attentato partigiano del giorno precedente in via Rasella. A S. Anna di Stazzema (Lu) nell’agosto ’44 straziati i 560 abitanti dell’intera frazione; a Stia (Ar) nell’aprile ’44 103 vittime. A Trieste fra il 15 e il 29 aprile ’44 51 ostaggi assassinati, poi 100 e ancora 60, tutti uccisi come rappresaglia per l’uccisione di soldati germanici, 77 ostaggi furono gli impiccati agli alberi di un viale cittadino. A Vallucciole (Ar) nell’estate ’44 230 civili assassinati.

L’odiosa pratica delle rappresaglie attuate col rapporto di uno a dieci (dieci esecuzioni per ogni soldato tedesco ucciso) riprodusse anche da noi quel clima di macelleria che i nazisti avevano sperimentato già in Ucraina e in Jugoslavia, dove l’equazione stragista saliva addirittura a uno contro cento. Questa condotta, che contravveniva a ogni codice militare, oltre a mostrare il totale disprezzo per la vita umana e per le sorti del nemico, poneva in condizione d’inferiorità anche l’alleato, visto che quando si vendicava un fascista il suo valore si dimezzava rispetto al soldato tedesco nella proporzione di cinque a uno: cinque esecuzioni nemiche per ogni fascista ucciso. Uno dei metodi per “spettacolarizzare” l’esecuzione era la forca, come ricordano tutt’oggi a Bassano, sul cui viale alberato trentuno giovani vennero assassinati e lasciati penzolare a lungo secondo il lugubre rituale dell’esposizione della morte che tanto piaceva a SS e saloini.

 

Mussolini sapeva

Durante l’intero arco dei venti mesi della Repubblica Sociale Italiana Mussolini fu informato da una cospicua quantità di rapporti dei suoi funzionari sulle vicende militari di maggior rilievo, comprese le barbare rappresaglie naziste e dei suoi uomini (l’autore riproduce alcuni dispacci). Al di là di formali lettere di protesta all’ambasciatore del Reich in Italia, Rudolf Rahn, e di stigmatizzazioni verso l’operato di polizie private al servizio dei nazisti, il duce non fece granché. E se in una nota a Rahn affermava di “non poter a lungo sopportare la responsabilità indiretta del massacro di donne e bambini” di fatto non riuscì mai, non solo a impedire, ma neppure a farsi ascoltare dai suoi fedelissimi, sanguinari e facinorosi, che rivendicavano lo squadrismo del ventennio. Né ebbe alcun potere verso un alleato che lo considerava capo d’un governo fantoccio, incapace di qualsiasi iniziativa politica e militare senza la propria protezione.

Già nell’autunno 1944 gli angloamericani nei territori liberati dell’Italia centrale raccolsero testimonianze ancora vive sulle terribili stragi perpetrate dal nazifascismo: si piangevano e seppellivano ancora i morti, non erano stati risparmiati bambini, donne incinte, ottuagenari; villaggi e corpi carbonizzati, persone massacrate per strada, cadaveri insepolti o gettati in fosse comuni costituivano un agghiacciante scenario di morte.

E se in quei luoghi nelle settimane e nei mesi successivi la fine del conflitto spuntarono spontaneamente lapidi e cippi, la stagione delle denunce dei crimini non durò a lungo. Con l’esautoramento del governo Parri avvenuto nell’autunno ’45 il cosiddetto ‘vento del Nord’, sostenuto dalle forze che maggiormente avevano contribuito alla Resistenza, venne ingabbiato. Il governo passò al democristiano De Gasperi che lo mantenne per otto legislature sino al ’53. Lo stesso Partito Comunista Italiano, capofila coi suoi 50.000 combattenti garibaldini della lotta di Liberazione, si trovò a sostenere la soluzione estensiva dell’amnistia emanata dal guardasigilli Togliatti il 22 giugno 1946. Con essa in poco tempo oltre 40.000 fascisti della Rsi tornarono in libertà e l’idea di ‘epurazione’ tanto vagheggiata tramontò definitivamente. Anzi di lì a poco furono i partigiani a doversi difendere dalle inchieste della magistratura che li accusava di delitti contro i fascisti.

 

Alcune condanne e la rimozione di Stato

Le sentenze di morte, se in alcuni casi colpirono gerarchi come Pavolini, Farinacci, Buffarini Guidi e sanguinari come Pietro Koch, capo della banda di torturatori di Villa Fossati e della romana pensione Jaccarino, in altri furono condonate. Accadde al generale della Gnr Biagioni, commissario federale nella zona dell’Apuania, dove partigiani e civili vennero perseguitati e massacrati. Così per un Caruso (il questore di Roma compilatore degli elenchi di prigionieri consegnati a Kappler per la mattanza delle Ardeatine) che finì fucilato, peraltro nel settembre ’44 con la guerra ancora in corso, ci fu chi come Basile, capo della provincia di Genova che coadiuvava i tedeschi nella repressione sul territorio, evitò la pena capitale. Per tacere dei favori ricevuti dal macellaio d’Etiopia Rodolfo Graziani e da Julio Valerio Borghese, il comandante di quella Decima Mas dedita a cattura, tortura e impiccagione di patrioti. A guerra conclusa entrambi furono aiutati da uomini dei Servizi segreti inglese e statunitense ad aver salva la vita. Borghese verrà utilizzato dalla stessa Intelligence prima come spia poi come potenziale golpista.

Molti criminali di guerra nazisti beneficiarono di trattamenti di favore. I procedimenti messi in moto dalla magistratura militare britannica in Italia e celebrati soprattutto nel ’46 e ’47 videro commutare le pene da capitali a carcerarie perché la legislazione italiana stava abolendo la condanna a morte. Ai generali Von Mackensen (ex comandante della 14° armata) e Kurt Maltzer (ex comandante di Roma) fu riservato l’ergastolo. E se Maltzer si spense in carcere, il suo collega tornò in libertà nel 1954. Mentre Churchill e il generale Alexander esprimevano parere favorevole per la commutazione di pena ai nazisti un altro gerarca, Wehrl, nel ’52 uscì di prigione per motivi di salute.

Il generale Max Simon, comandante della famigerata 16° Panzer Grenadier Reichsfuhrer (con battaglioni composti da giovani 17-18enni e anche unità multietniche di alsaziani, italiani, croati, belgi, olandesi che nell’estate ’44 avevano cosparso di sangue italiano l’Appennino tosco-emiliano) si ritrovò, dopo una prima pena capitale, condannato all’ergastolo. Quindi a 21 anni di detenzione e finì libero nel 1954.

E ci fu anche chi irrise le alte cariche dello Stato Italiano con fughe rocambolesche coperte dal nostro Ministero della Difesa e dall’Arma dei Carabinieri: il colonnello Kappler, uno dei responsabili dell’eccidio delle Ardeatine. Mentre scontava l’ergastolo nell’Ospedale Militare del Celio in Roma sparì il 15 agosto ’77, trasportato in una valigia dall’anziana moglie (sic).

Il maggiore Reder, anche lui della 16° Panzer Grenadier Reichsfuhrer, dopo la condanna all’ergastolo, nell’80 ricevette dal Tribunale di Bari la semilibertà. Cinque anni dopo il Presidente del Consiglio Bettino Craxi gli regalò la scarcerazione. Tornato in Austria l’ex ufficiale SS definì l’istanza di perdono inoltrata vent’anni prima una mossa del suo avvocato italiano: lui non aveva nulla di cui pentirsi.

 

Dalle condanne ai condoni e al reintegro

È inutile ricordare come al di là del processo simbolo di Norimberga, che il 1° ottobre ’46 emise la sua condanna a morte per Goering, Von Ribentropp e una decina di criminali nazisti, le corti allestite nella zona d’occupazione pronunziarono non molte pene esemplari. Le condanne capitali degli statunitensi furono 100 e 500 le pene detentive. Nella zona controllata dai francesi ci furono altrettante condanne a morte e 1.500 al carcere, mentre i britannici decretarono 230 pene capitali e 500 imprigionamenti.

Ma all’inizio degli anni Cinquanta, per lo scontro apertosi fra il blocco del Patto Atlantico e quello sovietico, il governo americano assegnò al Military Modification Board presieduto dal generale Handy la revisione di molti giudizi dei Tribunali Militari, cosicché solo una minima percentuale delle pene venne applicato. Le scarcerazioni di criminali di guerra proseguirono per tutti gli anni Cinquanta. Fra gli altri stragisti nel ’56 venne scarcerato Peiper, il flagellatore di Boves (Cn).

Nel periodo citato in Germania risorgeva un revanscismo nazista con società di soccorso per appartenenti alle SS forte di sei gruppi affiliati. Vennero create 526 sezioni locali della Wehrmacht, Kesserling ci si dedicò sino alla morte naturale sopraggiunta nel 1960. Nel ’52 ex combattenti organizzarono addirittura pellegrinaggi nei luoghi delle principali battaglie.

In questo clima Friedrich Engel, colonnello delle SS e capo dell’Aussenkomando, il servizio di sicurezza nazista in Liguria, fu protagonista di un’incredibile vicenda. In quanto responsabile della strage della Benedicta (147 partigiani catturati durante il rastrellamento dell’aprile ’44 e fucilati) più l’eccidio del Passo del Turchino, dove nel maggio ’44 furono condotti e fucilati 59 prigionieri politici, venne imprigionato dagli statunitensi vicino Francoforte. Ma già nel 1947 evase e si nascose sotto falso nome, poi dal ’54 si sentì talmente sicuro nel suo Paese che uscì allo scoperto con le proprie generalità. Nel ’71 giunse a testimoniare a favore di Bosshammer, deportatore di ebrei da Genova, senza che nessun giudice tedesco gli chiedesse conto del passato.  

Ciò che riveste un’ulteriore offesa per le migliaia di vittime italiane delle atrocità nazifasciste (in quei venti mesi furono massacrate fra le 12.000 e le 15.000 persone) fu l’utilizzo dei criminali tedeschi nelle Intelligence statunitense e britannica. Si era in piena ‘Guerra fredda’ ed essere stati adepti del Terzo Reich diventava un’ottima carta di credito in funzione anticomunista. Il più clamoroso fu il caso di Eugen Dollmann, fatto fuggire nel ’46 da un campo di prigionia alleato e impiegato a Roma per lo spionaggio Usa. Mentre Theodor Saevecke – collaboratore di Eichmann nel genocidio degli ebrei, che gli antifascisti milanesi conobbero bene perché operava nell’Hotel Regina torturandoli anche coi cani – nel dopoguerra collaborò coi servizi americani. Fu inoltre consigliere governativo nella Rft, direttore di scuole di polizia e vicecapo della polizia di sicurezza a Bonn fino al ’71.

Il maggiore delle SS Karl Hass, implicato nell’eccidio delle Ardeatine, nel primissimo dopoguerra intrattenne rapporti coi Servizi segreti occidentali e poté vivere indisturbato in Italia senza dover rispondere del gravissimo episodio di strage. Lavorò per lo spionaggio statunitense poi per quello tedesco e dal ’48 per l’italiano. Anche fascisti della Decima Mas come Borghese ricevettero offerte di collaborazione da parte dell’Office Strategic Service in funzione anticomunista.

 

Chi occultava

I politici italiani che organizzarono l’occultamento dei documenti sui crimini nazisti hanno nomi e volti. Dapprima la coppia del partito repubblicano Sforza-Pacciardi, che tra il ’47 e il ’53 furono rispettivamente ministro degli Esteri e della Difesa, seguiti nei due dicasteri dal liberale Martino e dal democristiano Taviani. Quest’ultimi teorizzarono con cruda real politik il bisogno dell’Alleanza Atlantica di riarmare la Germania in funzione antisovietica. Il disegno partiva dall’alto con direttive impartite da Washington a più d’un governo De Gasperi. L’acquiescenza dei politici democristiani e dei propri alleati centristi non mutò anche negli anni seguenti col governo Segni (1955-57). Anzi le strutture paramilitari come Gladio agivano col contributo attivo della Cia.

Da parte della compagine governativa venne indicato ai procuratori generali militari, – inizialmente Corsari e Mirabella e per un lunghissimo periodo Enrico Santacroce – di far cadere in totale oblìo la documentazione sulle stragi in Italia accumulata dal 1944 in poi. Soprattutto Santacroce vegliò sull’armadio della Procura con un ossequioso zelo lungo sedici anni: dal 1958 al ’74, anno precedente al suo decesso. E l’occultamento fu tanto sistematico che i cinque procuratori militari che gli succedettero ignoravano totalmente la presenza di quelle denunce. Le prime indagini della magistratura italiana si sono avviate solo a metà anni Novanta con gran parte dei criminali di guerra scomparsi per sopraggiunta vecchiaia.    

EDIZIONE ESAMINATA

Mimmo Franzinelli “Le stragi nascoste”, Mondadori, Milano, 2002

418 pp. Con riproduzioni di materiale documentario e foto del ritrovamento dei corpi della strage di Fossoli (Mo). Approfondimento in Rete: Centro studi della Resistenza / Repubblica.

 

 

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