La larga adesione che ha raccolto la proposta del comitato nazionale NO Debito di manifestare a Milano il 31 marzo dimostra che si è riusciti a cogliere una esigenza diffusa e oggettiva di mobilitazione popolare che stentava ad emergere – dopo la fallimentare gestione della manifestazione del 15 ottobre scorso – e che ci auguriamo metta definitivamente fuori gioco le illusioni della sinistra che ancora indugia in tattiche elettoraliste verso il PD.
L’esigenza raccolta è quella di entrare in campo apertamente contro il governo Monti, contro i diktat della BCE ma anche contro Napolitano un presidente che si pone a garanzia di tutte le scelte più scellerate ed antipopolari che vengono fatte da una maggioranza di governo sostenuta dai principali partiti.
1. Se ce ne fosse stato ancora bisogno la vicenda dell’articolo 18 mostra il carattere di classe della politica del governo Monti: In gioco non ci sono solo le tutele contro i licenziamenti illegittimi, si tratta infatti di comprimere – bloccando ogni possibilità di resistenza conflittuale – il costo del lavoro e i diritti dei lavoratori nel contesto di competizione globale dove le frazioni del capitale in lotta tra di loro non possono permettersi di fare “prigionieri”. Da questo punto di vista è importante la spinta che viene dai lavoratori per uno sciopero generale “pesante” a difesa dell’art.18, una spinta che la Cgil ha deciso di depotenziare rinviandolo a Maggio, cioè dopo le elezioni amministrative, in pratica “a babbo morto”.
La reazione della CGIL e del PD mostrano le contraddizioni che produce una tale politica anche nella sinistra più moderata, anche se si troverà la mediazione tra Monti e la sua maggioranza nel percorso parlamentare, non cambierà di certo il carattere di “lotta di classe dall’alto” contro lavoratori e settori popolari messo in campo dal governo.
2. Questo governo non è un incidente di percorso causato dalla caduta berlusconismo, ma sarà un elemento organico e permanente dell’egemonia delle classi dominanti nei prossimi anni, anche quando Monti avrà finito il “lavoro sporco”. E un progetto che intende modificare profondamente la condizione produttiva e sociale delle classi subalterne nel nostro paese ed in Europa, in funzione della capacità di competere sui mercati a livello mondiale da parte dell’ Unione Europea.
E’ evidente come le classi dominanti in Europa stiano utilizzando la crisi in corso per rafforzare tutti gli apparati economici, finanziari, politici e militari per affrontare l’accentuarsi della competizione globale con le altre aree monetarie ed economiche intorno alle quali si vanno ri/definendo i vari poli imperialisti in competizione.
L’accelerazione dei processi di concentrazione e centralizzazione politica e finanziaria nell’Unione Europea sono funzionali a questo obiettivo. E’ indubbio che in tale processo un ruolo di punta venga svolto dal grande capitale tedesco che fa convergere intorno a sé i maggiori gruppi capitalisti francesi, italiani e di altri paesi minori, assumendo tendenzialmente le caratteristiche di un capitalismo europeo integrato all’interno e quindi adeguato per “internazionalizzarsi”, anche in forme più aggressive, sul piano globale.
Come tutti i processi anche questo non avviene linearmente ma attraverso scontri e contraddizioni che dislocano, comunque, in avanti gli obiettivi da raggiungere. L’unica certezza è che persistono aree economicamente più deboli dell’Europa che verranno sacrificate a tutto tondo da questo processo di gerarchizzazione e verticalizzazione dell’Unione Europea.
I paesi dell’area dei Piigs sono destinati a diventare una periferia interna con un sistema di salari, condizioni lavorative, welfare state e prezzi ridotti con le liberalizzazioni e la concorrenza selvaggia funzionale alla competizione globale.
3. Si apre dunque una nuova fase storica che supera le illusioni del ventennio del “pensiero unico” che si era affermato dopo la fine del campo socialista negli anni ’90. La crisi di sovrapproduzione ha rimesso in moto i “classici” meccanismi di sfruttamento del capitale amplificati dal livello di produzione tecnologicamente avanzato e dalle delocalizzazioni nei paesi a basso costo del lavoro. Il conflitto di classe ora si riaffaccia proprio laddove ci avevano detto che le classi non avevano più significato, dove si affermava che eravamo ormai tutti “consumatori”, e dove , va riconosciuto per onestà, in moltissimi ci avevano anche creduto e ci si erano adeguati
Si ripropone con forza la questione di una soggettività antagonista e comunista che riesca a raccogliere ed organizzare le contraddizioni emergenti e si pone – con altrettanta forza – la questione dell’assenza di una tale soggettività dopo un periodo caratterizzato dai bizantinismi politici che hanno portato al disastro attuale della sinistra in Italia. E’ questo la potenzialità che è al centro della manifestazione di Milano, la quale, al di là delle stesse parole d’ordine su sui è stata convocata, rivela la vera sfida che ci si para di fronte.
Lo scenario politico con cui dovremo fare i conti in Italia nei prossimi mesi, sarà quello di un governo che andrà avanti fino alla fine della legislatura (2013) e che utilizzerà questa condizione di sospensione della democrazia rappresentativa (pienamente legittimata da Napolitano) per avanzare nel “lavoro sporco” sul piano economico e sociale. Il segnale inviato ai sindacati Cgil Cisl Uil sulla fine della concertazione la quale non sarà più interpretata come un passaggio obbligato per i governi, è indicativo. Nel contempo và avanti il processo di destrutturazione delle classi medie, una parte delle quali vengono ormai proiettate verso una condizione di “proletarizzazione” dalle misure fiscali e dalle liberalizzazioni imposte dal governo (taxisti, autotrasportatori, coltivatori diretti, piccoli imprenditori etc.) ma anche dalla brusca restrizione delle politiche del credito da parte del sistema bancario.
Si apre così una sfida che va affrontata seriamente se non vogliamo che prenda vigore nel nostro paese una risposta reazionaria di massa – che già si manifesta con l’attivismo dei movimenti fascisti di Storace o di Casa Pound nel centro-sud- e con la Lega nel Nord. Una sfida che le forze della sinistra non possono che perdere se continueranno a proporre, a livello nazionale e locale, alleanze elettorali sempre più incomprensibili con il PD ed il centro sinistra, sancendo così una subordinazione irrevocabile e una divaricazione crescente con i settori popolari colpiti dalla crisi.
Una sfida che infatti va accettata ricostruendo una resistenza sociale, livelli di organizzazioni adeguati sul piano sindacale e sociale e una identità politica antagonista strettamente legata alla realtà sociale, politica e culturale di questo paese.
4. Battersi per non pagare il debito “pubblico” significa per lavoratori, pensionati, precari e disoccupati difendere i propri interessi economici e sociali ma significa anche riorganizzare il conflitto della classe e riproporre una visione alternativa del mondo e per ricostituire un blocco sociale anticapitalista. Di fronte all’aggressività delle classi dominanti europee nessuno può pensare di chiamarsi fuori dallo schiacciasassi economico, sociale e antidemocratico che il capitale ha messo in moto.
Lottare per non pagare il debito dunque ma anche per definire un programma di obiettivi, di lotte e di organizzazione che avvii questo processo di ricomposizione e unità, alternativo alle ricette mortali del governo Monti e della Bce, un programma socialmente rappresentativo dei settori di classe (oggi allargatisi anche a pezzi di classi medie “proletarizzati” dalla crisi) e del blocco sociale potenzialmente anticapitalista che è in via di formazione.
Chi si arricchisce sul debito pubblico italiano?
Proprietari dei titoli di stato |
1992 |
2010 |
Famiglie italiane |
54% |
14% |
Banche, fondi,assicurazioni italiane |
38% |
48% |
Banche, fondi, assicurazioni straniere |
8% |
38% |
Ogni anno, banche, assicurazioni, fondi di investimento italiani o straniere si portano a casa già adesso l’86% dei 70-75 miliardi di euro di interessi che lo Stato paga per i titoli del suo debito pubblico. Se la Bce e l’Unione Europea vogliono imporre la riduzione del debito pubblico italiano al 60% del Pil, significa che i governi dovranno fare manovre da 40 miliardi di euro per almeno venti anni di seguito. Sarebbe il massacro dei salari e delle pensioni, della sanità, della scuola e la privatizzazione di tutti i servizi. E’ evidente che questo debito non può essere pagato se non vogliamo un vero e proprio genocidio sociale e la fine di ogni assetto democratico del paese.
L’errore più grande che si possa fare in questo scenario in via di “rivoluzione” è quello di riproporre i soliti rituali e la coazione a ripetere della sinistra nel nostro paese, di svilire le possibilità che offre la realtà in funzione di tattiche elettoraliste niente affatto indipendenti sul piano politico, di pensare che la politica meramente rappresentata e non quella organizzata e vissuta come lotta di interessi sociali antagonisti, possa essere nuovamente il cavallo da cavalcare.
La manifestazione di Milano non è risolutiva di tutte queste aspettative e necessità, ma è sicuramente un segno positivo che dimostra che siamo di nuovo in movimento e nella giusta direzione
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