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Cinque mesi di sciopero e di resistenza contro un Marchionne greco


Quando l’autobus mi lascia sul ciglio della superstrada che collega Atene al Peloponneso non posso fare a meno di pensare che, visto da qui, il crollo dell’apparato produttivo greco di cui tanto parlano i giornali appare poco credibile. Sono nel mezzo dell’Attica occidentale, e la zona industriale di Aspropyrgos mi si presenta di fronte agli occhi disseminata di fabbriche: i tanti capannoni, incuranti dei dati macroeconomici, continuano a scintillare sotto il sole e sembrano non volerne proprio sapere di farsi da parte. Se tutte le mattine vi entrino dei lavoratori, e se tutti i giorni ne escano delle merci, non saprei dire. Di lavoratori, questo è certo, ne trovo parecchi di fronte all’ingresso di Halyvourgia Ellados, la fabbrica siderurgica che raggiungo in compagnia del photoreporter greco Kostas Kallergis dopo pochi minuti di cammino. Kostas ha gentilmente accettato di farmi da interprete, e il suo aiuto si rivelerà prezioso per comprendere le dinamiche di una vicenda, quella di un’azienda i cui operai sono in sciopero da più di cinque mesi, che ha assunto un valore paradigmatico tanto dal punto di vista dell’atteggiamento tenuto dalla classe imprenditoriale greca durante la crisi, quanto da quello della resistenza messa in campo dai lavoratori.

 

«Tutto è cominciato a fine ottobre, quando Nikos Manesis, il proprietario di Halyvourgia, ci ha sottoposto un accordo», mi spiega Thanasis, un operaio fra i più attivi nel sindacato di fabbrica. «In sostanza, si trattava di un vero e proprio ricatto: avremmo dovuto accettare di lavorare per cinque giorni la settimana e per cinque ore al giorno, con un taglio allo stipendio del 40%. Quindi, da 800 euro, di punto in bianco avremmo cominciato a guadagnarne 500. In caso di rifiuto, Manesis minacciava di licenziare 180 dipendenti su un totale di 380». Una volta messi al corrente della proposta della proprietà, i lavoratori di Halyvourgia si sono riuniti in assemblea, decidendo di rifiutare l’accordo e di rispondere con lo sciopero ad eventuali licenziamenti. «La scelta di respingere il ricatto è stata il frutto di una decisione unanime di tutti i lavoratori», prosegue Thanasis. «Il padrone ha poi cominciato a licenziare, ed è per questo che siamo entrati in sciopero. Una decisione confermata da ben dodici assemblee generali che abbiamo tenuto finora». Da quando è iniziata l’astensione dal lavoro, Manesis ha infatti dato il ben servito a diversi operai, meticolosamente scelti fra i più combattivi e sindacalizzati. «La legge greca consente al datore di lavoro di mandare a casa ogni mese non più del 5% del numero totale dei dipendenti dell’azienda. La soglia era del 2% fino al 2010, ma è stata alzata per effetto del primo accordo stipulato dal governo greco con Ue, Bce e Fmi nel maggio di quell’anno. Manesis, fin dall’inizio del nostro sciopero, si è sempre avvalso di questa facoltà». È anche per questo, forse, che i lavoratori di Halyvourgia non si stancano di ripetere che il loro caso rappresenta una traduzione pratica dei memorandum di intesa fra lo stato ellenico e la Troika.

Ma quali sono i motivi per cui il proprietario di Halyvourgia ha deciso di andare allo scontro sottoponendo un accordo così irricevibile ai propri dipendenti? E qual è lo stato delle finanze dell’azienda? Nel gabbiotto della sorveglianza ormai divenuto la casa degli operai in presidio permanente, alle cui pareti sono attaccati i disegni dei figli dei lavoratori di Halyvourgia e quelli degli alunni delle scuole elementari della zona (su quasi tutti è possibile ammirare la scritta multicolore, realizzata da mani infantili, «aperghia», «sciopero»), ci raggiunge Yorgos Sifonios, il presidente del sindacato di fabbrica. Secondo lui, Manesis è in cattiva fede quando chiama in causa la crisi e la contrazione del mercato interno per giustificare i licenziamenti e la diminuzione delle retribuzioni. «In realtà, e noi che eravamo al lavoro possiamo testimoniarlo, la produzione è aumentata costantemente per tutto il 2010. C’erano diverse commesse dall’estero, tanto che ricordiamo bene come i ritmi erano aumentati in quel periodo, anche a nostro rischio e pericolo». Ma c’è dell’altro. Halyvourgia, oltre a quello di Aspropyrgos, possiede un altro stabilimento a Volos, in Tessaglia. Lì i lavoratori hanno deciso di accettare l’accordo proposto dalla proprietà, temendo di perdere il posto. Ma la riduzione d’orario e di salario non è mai entrata a regime, perché gli operai di Volos hanno continuato a lavorare otto ore al giorno per coprire la mancata produzione di Aspropyrgos. Segno che il lavoro non manca. «In realtà, Manesis ha un obiettivo soprattutto politico», sostiene Yorgos. «Oltre ad essere il proprietario di Halyvourgia, è il presidente dell’associazione di categoria degli industriali dell’acciaio. La crisi è solo un pretesto: l’intento è quello di abbassare il costo del lavoro in tutto il settore, e da lì proseguire anche in comparti limitrofi come quello dei cantieri navali e dell’edilizia. Vogliono trasformare il nostro caso in un precedente». Una strategia simile, confido a Yorgos, mi sembra di averla vista all’opera recentemente anche in Italia, dalle parti di Pomigliano.

Cinque mesi senza stipendio, ad ogni modo, non sono pochi. «Noi non abbiamo una cassa di resistenza messa in piedi dal sindacato», mi spiega Thanasis. «Per fortuna, però, attorno alla nostra lotta si è creata una vasta solidarietà, che ci ha permesso di andare avanti». In effetti, da quando è cominciato lo sciopero, la battaglia di Halyvourgia è diventata molto popolare e riconosciuta in tutto il paese. Gli scioperanti ricevono quotidianamente donazioni in denaro, ma anche in cibo e in altri generi di prima necessità. Anche durante la nostra permanenza ai cancelli della fabbrica, qualcuno arriva e, anonimamente, lascia un pacco all’ingresso. «Molti fanno così», sostiene Thanasis «non ci dicono neanche chi sono: arrivano e lasciano qualcosa. Abbiamo ricevuto solidarietà e donazioni da altri lavoratori, da disoccupati, semplici cittadini, contadini che ci portano parte di quello che producono invece di rivenderlo». Ma la solidarietà arriva anche dall’estero: circa 4500 lettere di solidarietà sono arrivate agli operai di Aspropyrgos da organizzazioni sindacali di tutto il mondo. «È per la determinazione con cui abbiamo portato avanti fin dall’inizio la nostra lotta: molti capiscono che siamo un esempio da seguire».

Il caso di Halyvourgia esemplifica piuttosto bene l’atteggiamento adottata da un settore consistente dell’imprenditoria greca negli ultimi due anni. I padroni approfittano della crisi per ristrutturare, licenziare e abbassare il costo del lavoro. Non solo: diverse aziende sostengono di essere in cattive acque (e spesso lo sono, vista anche la stretta al credito da parte delle banche), di punto in bianco propongono drastiche riduzioni del salario o smettono di pagare i propri dipendenti costringendoli ad entrare in sciopero e, dulcis in fundo, riescono anche ad utilizzare questa situazione come strumento di pressione nei confronti del potere politico. Il punto è che, anche quando le aziende se la passano effettivamente male, tutto quello che i padroni sanno fare è mettere in salvo le proprie fortune personali in conti off-shore e chiedere l’aiuto dello stato. Di pensare a rimettere in moto la produzione, magari tramite un piano di rilancio e nuovi investimenti, manco a parlarne. È il caso di Halyvourgia, ma è anche quello di altre imprese i cui lavoratori sono in sciopero da mesi, come il quotidiano Eleftherotypia e il canale televisivo Alter Tv. L’impressione è che gli unici a cui interessa ancora produrre qualcosa, siano proprio i lavoratori.

Il 2 aprile scorso, gli operai di Halyvourgia hanno tenuto una manifestazione di fronte al ministero  dell’Ambiente e dell’Energia, attualmente presieduto da Giorgos Papakonstantinou (Pasok), l’ex ministro delle Finanze di Papandreou il cui volto, qui in Grecia, è direttamente associato dalla gente alle misure di austerità. Papakonstantinou, uno dei politici più impopolari del paese, ha di recente concesso a Manesis l’autorizzazione a costruire un porto privato di fronte ad Halyvourghia, per imbarcare direttamente le merci destinate all’esportazione prodotte dalla fabbrica di Aspropyrgos. «Il porto dovrebbe essere realizzato con un finanziamento pubblico, ma a tutto vantaggio di un’azienda privata, ed è per questo che la legge stabilisce dei criteri molto stringenti, in termini di produttività, per l’impresa che aspira ad ottenere tale aiuto». Per ottenere il finanziamento, prosegue Yorgos, Halyvourgia avrebbe dovuto dimostrare di far lavorare più di 400 lavoratori per 365 giorni all’anno, su turni di 24 ore al giorno. Inutile dire che l’azienda di Manesis non soddisfa questi criteri, e non li ha mai soddisfatti neanche in passato. È per questo che l’autorizzazione a costruire il porto, che il precedente proprietario ha richiesto invano per 20 anni, e lo stesso Manesis, una volta subentrato, per i successivi 7 anni, finora non era mai stata concessa. Perché allora Papakonstantinou ha deciso di punto in bianco, in un momento in cui oltretutto la fabbrica di Aspropyrgos non produce nulla per via dello sciopero, di dare al proprietario di Halyvourgia la licenza e i soldi per costruire il porto?

«Manesis, e come lui molti altri padroni, non hanno alcun interesse, al momento, a ricominciare a produrre e a far uscire il paese dalla crisi. Gli conviene di più smettere di pagare i lavoratori, o ridurre loro il salario come hanno cercato di fare con noi, e poi usare le tensioni sociali che ne derivano per ottenere concessioni, sconti fiscali e altre facilitazioni dai politici». «Attualmente», prosegue Yorgos «ci sono ben 17 imprese che si comportano in questo modo. Nel caso specifico, Manesis è riuscito ad ottenere dal governo non solo la concessione a costruire il porto, ma anche 5 milioni di euro di sconto sulla bolletta dell’elettricità, altre riduzioni rispetto a quanto dovuto alla compagnia del gas, e anche un prestito bancario di 265 milioni di euro». Non è un mistero che, nella Grecia della crisi del debito, ottenere un prestito dalle banche sia diventato molto difficile. Ma le difficoltà si possono superare se si è provvisti delle opportune connessioni politiche.

Dunque siamo in presenza di un vero e proprio sodalizio fra un’imprenditoria sempre più parassitaria e improduttiva e una classe politica clientelare e inefficiente. «I padroni minacciano i politici dicendo loro: “o mi dai quello che ti chiedo o non riapro la fabbrica, e questo determinerà una pressione politica nei tuoi confronti”. I politici, a loro volta, se si comportano bene, ricevono lauti finanziamenti e sostegni per le loro campagne elettorali». Un aneddoto raccontatomi da Yorgos illustra bene quest’alleanza stabilitasi sulle teste dei lavoratori, gli unici che, vivendo di salario, non hanno santi in paradiso e hanno un disperato bisogno di ricominciare a produrre. Qualche giorno fa, una delegazione di operai di Halyvourgia è stata ricevuta dal ministro del lavoro, Giorgos Koutroumanis. «Per l’intera durata dell’incontro», racconta Yorgos «il ministro non ha fatto altro che ripeterci le stesse cose che dice il padrone: “tornate al lavoro e una soluzione si troverà. Altrimenti il rischio è che la fabbrica chiuda i battenti”. A un certo punto ho perso la pazienza e ho detto a Koutroumanis: “se hai tanta paura che la fabbrica chiuda, perché non la dai a noi lavoratori? Perché non ci dai la possibilità di produrre, concedendoci un prestito che poi ripagheremo insieme a tutti gli altri che Manesis ha accumulato nei confronti dello stato?”». Era una domanda retorica, ci tiene a precisare Yorgos, che è ben consapevole delle reali intenzioni del ministro, come anche delle tante difficoltà cui l’autogestione di una fabbrica da parte dei lavoratori deve far fronte fintanto che opera in un contesto di economia di mercato. Eppure, è una domanda che sempre più lavoratori greci cominciano a porsi.

* da Controlacrisi, 12 aprile 2012

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