* Commissione Ambiente della Rete dei Comunisti
Gli aspetti giudiziari della vicenda dell’Ilva di Taranto hanno avuto un ulteriore passaggio importante. Il Tribunale del Riesame ha reso nota la sua sentenza dopo il ricorso della proprietà, lasciando una possibile porta aperta alla non chiusura dell’impianto, affermando che le soluzioni tecniche spettano ai Custodi Giudiziari, sottolineando però la necessità di attuare misure urgenti per il risanamento e a queste subordinare il dissequestro e la ripresa della produzione: “Al momento lo spegnimento degli impianti rappresenta solo una delle scelte tecniche possibili […]. In nessuna parte della perizia e, del resto, in nessuna parte del provvedimento del GIP, si legge che l’unica strada perseguibile al raggiungimento della cessazione delle emissioni inquinanti, unico obiettivo che il sequestro si prefigge, sia quello della chiusura dello stabilimento e della cessazione dell’attività produttiva. Al contrario si desume la possibilità che l’impianto siderurgico possa funzionare ove siano attuate determinate misure tecniche che abbiano lo scopo di eliminare ogni situazione di pericolo per i lavoratori e per la cittadinanza”.
I giudici però sono andati ben oltre, riaffermando le motivazioni del GIP: l’Ilva ha inquinato e ucciso consapevolmente e in nome del profitto. Infatti particolarmente significativo è il passaggio nel quale si evidenziano le dirette responsabilità: il disastro ambientale e quello della salute pubblica è stato “determinato nel corso degli anni, fino ad oggi, attraverso una costante reiterata attività inquinante, posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti”. Quindi un evidente dolo, e non semplicemente colpa.
Allora crediamo che, oltre ad aver avuto una chiara preterintenzionalità nel creare un disastro ambientale con effetti devastanti per quel territorio, se questo ha causato anche numerosi decessi nella popolazione tarantina e nei lavoratori, come è evidente che sia, la proprietà e la dirigenza dell’Ilva hanno perpetrato anche un omicidio plurimo volontario.
Questo sarà oggetto comunque del proseguimento del percorso giudiziario, finalmente avviato dopo anni di latitanza anche della magistratura, che auspichiamo sia portato fino in fondo e senza condizionamenti da parte degli altri poteri dello Stato.
Gli aspetti politici della vicenda prendono invece tinte diverse. Il Governo Monti si fa rappresentare in tutto e per tutto nella sua opera di difesa del Gruppo Riva, ancor più che dal Ministro dello Sviluppo Passera, dal Ministro dell’Ambiente Clini, e questo la dice lunga su quale è la questione in gioco. Lunedì 20 agosto Clini, al Meeting di CL a Rimini, è arrivato a superare se stesso indicando negli “estremismi ambientalisti” il motivo dell’impedimento negli anni passati di “soluzioni razionali”. Un’offesa ripugnante verso la popolazione tarantina, verso le centinaia di morti che questa città ha dovuto subire, verso i vari comitati che a Taranto da molti anni si battono contro l’opera di distruzione e morte dell’Ilva.
FIM-CISL e UILM-UIL continuano nella loro opera di appoggio politico alla proprietà mentre
, anche se differenziandosi dagli altri due sindacati sia in alcuni aspetti di merito che non partecipando allo sciopero di 2 ore, non vuole cogliere il centro del problema e la sua reale soluzione. Il Segretario Generale della Camera del Lavoro di Taranto, Luigi D’Isabella, sposa completamente le tesi di Clini quando dice che solo lasciando aperta la produzione si possa risanare l’impianto, afferma che negli ultimi anni, riferendosi a chi sa quali dati, evidentemente a quelli prodotti dalla proprietà (?), le emissioni di diossina sono state abbattute e gli infortuni ridotti ai minimi termini, chiede che anche questa volta i danni prodotti da un’impresa privata vengano pagati con il denaro di tutti e quindi che il Governo si faccia carico di un grande programma di risanamento.
Assegnare all’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) la soluzione del problema come, anche se in forma diversa, fanno il Ministro Clini,
e le associazioni ambientaliste, è fuorviante, anche all’interno del gioco semantico tra “migliore tecnologia disponibile” e “migliore tecnologia in assoluto”.
La magistratura ha affermato tre questioni politiche fondamentali: la prima è che il modo di produzione capitalista è orientato allo scopo esclusivo del profitto, per raggiungere tale obiettivo non accetta limiti, la proprietà e la dirigenza dell’Ilva hanno ucciso e distrutto in nome del profitto, concetto contenuto nell’ordinanza del GIP; la seconda, strettamente legata alla prima, che lo hanno fatto consapevolmente, quindi con volontà e con dolo, come afferma il Tribunale del Riesame; la terza che a pagare i costi del risanamento sia la proprietà e non lo Stato, come dichiarato dal Procuratore Generale della Repubblica di Taranto.
Paradossalmente molti settori della sinistra mantengono una posizione decisamente più arretrata, imbrigliati nell’incapacità, o nella non volontà, di un’analisi di classe. Lasciando stare chi, funzionale ormai alle compatibilità del capitale, volutamente ha abbandonato da tempo gli strumenti fondamentali della critica marxista di sistema, arrivando in alcuni casi anche a teorizzare strumentalmente tale scelta proprio sulle questioni ambientali, affermando che solo liberandosi dalla costrizione del concetto del valore lavoro rifiorirebbe la capacità della sinistra di misurarsi con la questione ambientale, assistiamo anche dall’altra parte, ancora, all’evidente incapacità di risolvere sul piano teorico e analitico, e quindi conseguentemente su quello della pratica politica, il presunto scontro tra lavoro e salvaguardia dell’ambiente e della natura.
Misurarsi con le questioni ambientali per i marxisti non può risolversi nell’alternativa occupazione buona o salvaguardia dell’ambiente, accondiscendendo al ricatto tra lavoro e distruzione e morte o disoccupazione e compatibilità ambientale. Come non si può ridurre alla rivendicazione del diritto ad ambedue senza critica, e quindi prospettiva concreta del superamento del modo di produzione capitalista. Sarebbe illusorio pensare di poter salvaguardare pienamente salute e ambiente senza pensare a rapporti sociali di tipo diverso, che sostituiscano quelli capitalistici.
La contraddizione capitale-natura è interna al conflitto capitale-lavoro; la natura è assunta a mezzo di produzione e come tale dal capitale esclusivamente concepita, disponendo completamente di essa nella stessa misura di come fa con la forza-lavoro. Lo sviluppo scientifico assoggettato a quello tecnologico e al servizio esclusivo del profitto diventa tecno-scienza a determinante economica, preminente sulle ragioni polico-sociali, cioè la scienza perde il suo valore di conoscenza collettiva, di strumento della crescita umana e delle condizioni sociali, è alienata dai rapporti sociali di produzione, assumendo anch’essa l’esclusivo ruolo di mezzo di produzione.
In questo quadro, in cui la civiltà capitalista ha separato il lavoro dai mezzi di produzione cancellando lo stretto e organico legame che ha sempre unito l’uomo alla natura e alla conoscenza, la contraddizione tra capitale e ambiente è lampante, lo scontro è netto e si misura sugli interessi di classe e quindi all’interno del conflitto tra le classi.
I 146 milioni di euro promessi, e solo promessi, dal Presidente dell’Ilva Bruno Ferrante per il risanamento dell’impianto sono cosa ridicola, e i 336 milioni di denaro pubblico assolutamente inopportuni. Il problema non è soltanto che questi 300 e più milioni di euro in realtà, per la maggior parte, non sono indirizzati al risanamento industriale e ambientale dell’Ilva e del territorio di Taranto, come invece vogliono far credere (170 milioni andranno a lavori di rifacimento della struttura portuale di Taranto e molto meno della metà alla bonifica dell’Ilva; per il risanamento del quartiere Tamburi, il più esposto ai veleni del polo siderurgico e con la popolazione più colpita da tumori e malattie dovute all’inquinamento, sono previsti solo 8 milioni su 336), ma è assurdo che si regali denaro pubblico ad un impresa privata, oltretutto la stessa che ha provocato devastazione e morte.
Lo stesso Procuratore Capo di Taranto, Franco Sebastio, intervistato dopo l’incontro di giovedì con i Custodi Giudiziari, lo ha detto a chiare lettere, anche se riferendosi soltanto al risanamento interno: “Dovrà essere l’Ilva, e non lo Stato, a pagare il conto dei costi del risanamento interno dell’Ilva”.
Continuare con la politica della privatizzazione degli utili e della socializzazione dei costi è criminale! Chi ha inquinato e ucciso deve pagare, non solo penalmente ma anche economicamente.
Invocare gli investimenti che l’Ilva avrebbe il dovere di fare, significa proiettare la questione sul futuro, in un’opera di voluto oblio del passato.
Ammesso e non concesso che il Gruppo Riva abbia la volontà e la capacità di compiere completamente questi investimenti (su ciò nutriamo fondati dubbi per i motivi che esponevamo sopra e per l’esperienza passata, come anche attuale, dell’intervento pubblico nel sostenere il privato a scapito della crescita del debito che continua a gravare sulla collettività, sulle condizioni di vita dei lavoratori, sull’azzeramento dei diritti sindacali e democratici), chi si farebbe carico degli enormi costi di risanamento ambientale del territorio? Senza contare quelli che gravano sulla collettività che il sistema sanitario nazionale ha dovuto sborsare, e che in futuro ancora dovrà fare, per la cura di coloro che si sono ammalati per colpa delle emissioni inquinanti del polo siderurgico.
Tutto questo in una azienda, oltretutto in netto attivo, sarebbe dovuto andare, e così dovrebbe essere anche in futuro assumendosi anche l’onere del risanamento della devastazione che ha già prodotto, sotto la voce “costi”, non alla voce “investimenti”. Se la proprietà dell’Ilva non è in grado di farlo autonomamente, o non vuole farlo, non può invocare l’intervento pubblico, dichiari invece il proprio fallimento. Un’azienda come l’Ilva, tra l’altro “regalata” dallo Stato alla famiglia Riva attraverso l’IRI in quella devastante stagione delle privatizzazioni che ha visto il nostro paese assoggettarsi al dogma del neoliberismo nel tentativo, per’altro disilluso, di essere protagonista nell’epoca dell’inizio della competizione globale, fa parte di un settore strategico e come tale dallo Stato deve essere concepita.
Di fronte al fallimento di fatto della proprietà e nella considerazione della sua importanza strategica, l’Ilva va nazionalizzata!
Se la collettività si assume l’onere dei costi di risanamento tecnologico in termini di riduzione dell’impatto ambientale, di ripristino ambientale del territorio devastato da anni di volute politiche aziendali, di assunzione dei costi socio-sanitari derivanti dall’inquinamento, è necessario che pretenda anche gli onori di esserne proprietaria. Una proprietà pubblica strategica e non temporanea, e quindi non strumentale al suo risanamento per poi essere nuovamente “regalata” ai Riva o a chi sa chi altro, come ha recentemente proposto
sulla questione che loro definiscono “la rottura del dogma dello Stato fuori dal mercato”.
Solo dopo la nazionalizzazione potrà diventare opportuno l’impiego di denaro pubblico, che potrà essere realmente orientato al ripristino ambientale, alla compatibilità ecologica della produzione, alla salvaguardia dell’occupazione, attraverso un controllo diretto da parte dei lavoratori e dei cittadini su tali processi.
Sulla nazionalizzazione dell’Ilva e sulla gestione del suo risanamento e di quello del territorio tarantino, pensiamo si possa costruire una battaglia ampia dell’intero movimento del lavoro, nelle sue diverse segmentazioni, in grado di risolvere in termini di classe le questioni del conflitto capitale-lavoro e quelle della strutturale contraddizione capitale-ambiente, della salute pubblica e della sicurezza, capace anche di congiungersi in termini pratici ad alcuni aspetti del rifiuto popolare del pagamento del debito pubblico.
Una battaglia diretta, di classe, che non regali nulla ai padroni, con protagonisti i lavoratori dell’Ilva e i cittadini di Taranto, indipendente dai partiti istituzionali e istituzionalizzati, dai sindacati complici e concertativi, in grado di creare una soggettività politica propria e fuori da ogni subalternità al modello di sviluppo capitalista, riattualizzando nella pratica del conflitto la concretezza dell’autonomia di classe.
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