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Le elezioni in Venezuela: una scelta, non un’eco


Gli elettori venezuelani sceglieranno tra due programmi e sistemi sociali totalmente opposti: Chavez sostiene l’espansione della proprietà pubblica dei mezzi di produzione e consumo, l’aumento della spesa sociale in programmi di welfare, una maggiore partecipazione popolare alle decisioni locali, una politica estera indipendente basata su una crescente integrazione latinoamericana, una tassazione maggiormente progressiva, la difesa dei programmi gratuiti di istruzione e sanità pubblica e della proprietà pubblica del petrolio. Al contrario, Capriles Radonski rappresenta i partiti e le elites che sostengono la privatizzazione delle imprese pubbliche, contrari agli attuali programmi di welfare sociale, istruzione e sanità, e favorevoli a politiche neoliberali che rafforzino il ruolo e il potere del capitale privato, nazionale ed estero. Per quanto Capriles Radonski si dichiari per il “modello brasiliano” di “mercato libero e welfare sociale”, i suoi sostenitori politici e sociali, in passato ed ora, rivendicano accordi di libero commercio con gli USA, tagli alla spesa sociale e tassazione regressiva. A differenza degli americani, gi elettori venezuelani hanno di fronte una scelta, e non una eco: due candidati che rappresentano classi sociali diverse, con diversi orientamenti socio-politici e diversi schieramenti internazionali. Chavez sta con l’America Latina, si oppone a qualunque intervento imperialistico degli USA, difende con decisione l’autodeterminazione e l’integrazione latinoamericana. Capriles Radonski vuole accordi di libero commercio con gli USA, si oppone alla integrazione regionale, appoggia l’intervanto USA in Medio Oriente ed è un accanito sostenitore di Israele. Durante la campagna elettorale, come era prevedibile, tutti i mass media americani sono stati subissati di propaganda anti Chavez e pro Capriles, prevedendo una “vittoria”, o almeno una sconfitta di misura per il protetto di Washington. La propaganda e le previsioni dei media e degli “esperti” sono interamente basate su citazioni scelte di dubbi sondaggi e inchieste, senza alcuna seria discussione sull’eredità storica e i tratti strutturali che formano il quadro di riferimento per queste storiche elezioni.

L’eredità storica

Per quasi un quarto di secolo prima dell’elezione di Chavez nel 1998, l’economia e la società venezuelane erano nel caos, tra corruzione, inflazione record, crescita in calo, un crescente debito, crimine, povertà e disoccupazione.

Le proteste di massa degli anni ’80 e ’90 portarono al massacro di migliaia di abitanti dei ghetti, un golpe fallito e una generale disillusione verso il sistema politico a due partiti di allora. L’industria del petrolio fu privatizzata; la ricchezza del petrolio finanziava una elite affarista che faceva shopping sulla Fifth Avenue, investiva in condomini a Miami, apriva cliniche private per rifare facce e tette, e mandava i propri figli in scuole private di elite per assicurarsi una continuità generazionale di potere e privilegio. Il Venezuela era il baluardo del potere USA nei Carabi, in America Centrale e Meridionale. Il Venezuela era polarizzato socialmente, ma il potere politico era monopolio di due partiti che si contendevano l’appoggio delle diverse fazioni della elite dominante e della ambasciata USA.

Il saccheggio economico, la regressione sociale, l’autoritarismo politico e la corruzione portarono alla vittoria elettorale di Hugo Chavez nel 1998 ed a un graduale cambiamento delle politiche pubbliche in direzione di una maggiore affidabilità politica, e di riforme istituzionali per una maggiore equità sociale.
Il fallimento del golpe padronal-militare, sostenuto dagli USA nell’Aprile 2002, e la sconfitta della serrata del petrolio tra Dicembre 2002 e Febbraio 2003 segnarono un punto di svolta decisivo nella storia politica e sociale del Venezuela: il violento assalto mobilitò e radicalizzò milioni di lavoratori e abitanti dei ghetti in favore della democrazia, e questi fecero pressione su Chavez perché “svoltasse a sinistra”. La sconfitta del golpe USA-capitalista e della serrata fu la prima di molte vittorie popolari che aprirono le porte a grandi programmi sociali per venire incontro ai bisogni di cibo, casa, sanità ed istruzione di milioni di venezuelani. Gli uomini chiave degli USA e della elite venezuelana furono rimossi dai loro posti nelle forze armate, nella burocrazia sindacale, e nell’industria petrolifera.
Capriles ebbe un ruolo attivo nel golpe, capeggiando una banda di delinquenti che assaltarono l’ambasciata di Cuba, e nella serrata del petrolio che paralizzò temporaneamente tutta l’economia.

Al golpe e alla serrata seguì un referendum finanziato dagli USA contro Chavez, il quale vinse sonoramente. I fallimenti della destra rafforzarono le tendenze socialiste nel governo, indebolirono l’opposizione della elite, e spinsero gli USA ad appoggiare il governo del narco-terrorista Uribe in Colombia, per destabilizzare e rovesciare dall’esterno il regime. Crebbero le tensioni al confine, le basi USA divennero 7, e squadre della morte colombiane passarono il confine. Ma l’intera America Latina, il Centroamerica e i Caraibi si schierarono contro una invasione appoggiata dagli USA, sia per principio che per paura di un allargamento dei conflitti armati.

La memoria storica dell’autoritarismo dell’elite e dei successi di Chavez è ben presente nella coscienza dei venezuelani che voteranno il 7 Ottobre. Il ricordo della profonda ostilità della elite a soluzioni democratiche in favore delle masse popolari e della difesa di massa del “presidente socialista” si esprime nella profonda polarizzazione politica dell’elettorato, e nella forte mutua ostilità, o “odio di classe”, che permeano la campagna elettorale. Per le masse le elezioni riguardano i torti passati e le conquiste attuali, una mobilità sociale verso l’alto e miglioramenti materiali degli standard di vita; per la classe media affluente c’è un forte risentimento per una perdita relativa di potere, privilegio, prestigio e benefici privati. Le perdite relative della destra hanno dato luogo a risentimenti pericolosi per la democrazia in caso di sconfitta elettorale, e a politiche revansciste in caso di vittoria

Configurazione istituzionale

L’elite di destra può non controllare il governo, ma non le manca una forte base di potere istituzionale. L’ottanta per cento del settore bancario e finanziario è in mani private, come anche la gran parte della manifattura, dei servizi, e una parte sostanziale del commercio all’ingrosso e al minuto. Nella burocrazia pubblica, esercito e Guardia Nazionale l’opposizione conta almeno su una minoranza di sostenitori attivi e passivi dei gruppi politici di destra. I centri di aggregazione sociale della destra sono le associazioni di businessmen, proprietari terrieri e finanzieri. La destra conta circa un terzo dei sindaci e governatori, e oltre il 40% dei deputati. Grandi multinazionali USA ed europee hanno sostanziali partecipazioni di minoranza nel settore petrolifero.

Nonostante i progressi del governo, la destra ha ancora il monopolio della stampa, e una audience maggioritaria nelle TV e radio. Il governo ha acquisito potere con la nazionalizzazione del 20% delle banche, di parte delle miniere e dell’industria metallurgica e alcune industrie alimentari, e in modo più sostanziale nelle campagne, con la riforma agraria.

Un maggior consenso per il governo viene dai lavoratori pubblici e dell’industria petrolifera, dei servizi sociali e del welfare. L’esercito e la polizia sono leali e costituzionalisti. Il governo ha introdotto nuovi mass media e promosso una rete di radio delle comunità.

La maggior parte dei sindacati e delle associazioni contadine sostengono il governo. Ma la vera forza del governo è nelle organizzazioni quasi istituzionali a base comunitaria nei grandi insediamenti urbani legati alle “missioni sociali”.

Per quanto riguarda i soldi, il governo usa i grandi introiti del petrolio per finanziare programmi sociali a breve e lungo termine, contrastando efficacemente i programmi caritatevoli del settore privato e i finanziamenti clandestini e non di fondazioni, ONG e agenzie di “aiuti” USA. In altri termini, nonostante le grandi sconfitte politiche e i decenni di malgoverno e corruzione, la destra ha ancora forti basi istituzionali per contrastare le grandi conquiste socio-economiche del governo Chavez, e montare una campagna elettorale aggressiva.

La campagna elettorale del presidente e le dinamiche sociali

La chiave del successo della rielezione di Chavez è concentrarsi sui temi sociali: i programmi universali di sanità ed istruzione, il grande programma di edilizia pubblica, i supermarkets finanziati dallo stato, il miglioramento del trasporto pubblico nelle zone più densamente popolate. Più aumenta la polarizzazione sociale nazionale tra la elite affarista e le masse, meno la destra può speculare sul malcontento popolare verso funzionari pubblici corrotti o inetti a livello locale. Più aumenta la solidarietà sociale tra lavoratori occupati, salariati, e informali, meno la destra può fare appello alle aspirazioni di status di lavoratori in ascesa sociale che hanno conseguito stili di vita da classe media, ironicamente, proprio negli anni di prosperità di Chavez.

La campagna di quest’ultimo promette una ulteriore prosperità sociale, una maggiore e protratta mobilità sociale e maggiori opportunità, un appello ad una maggiore eguaglianza sociale ed equità; conta su un baluardo del 40% dell’elettorato pronto ad innalzare barricate per il Presidente. Capriles richiama molti gruppi contraddittori: uno zoccolo duro del 20% dell’elettorato, fatto di affaristi, banchieri, l’elite agraria e i suoi dipendenti, managers e professionisti che vorrebbero tornare al passato neoliberale, nel quale polizia, esercito e servizi segreti tenevano i poveri dentro i loro ghetti e i proventi del petrolio affluivano nelle loro tasche. I secondo gruppo cui Capriles si rivolge sono professionisti e piccoli affaristi che hanno paura dell’espansione del settore pubblico e dell’”ideologia socialista”, pur avendo prosperato coi crediti facili, l’aumento della clientela e con la spesa pubblica. I rampolli dei settori affluenti di questa classe sono gli “attivisti”, che vedono nella caduta del governo Chavez una opportunità per riguadagnare potere e prestigio che credevano di avere prima della “rivolta delle masse”. Il passato neoliberista di Capriles e il golpe militare del 2002, con i suoi legami stretti con L’elite affaristica, Washington, e i suoi analoghi di destra in Colombia ed Argentina, assicurano alla classe media arrabbiata che le promesse di mantenere le missioni sociali di Chavez sono solo demagogia elettorale.

Il terzo gruppo, che Capriles non controlla, ma che è vitale almeno per far bella figura, è nelle piccole città, ceto medio-basso di provincia e poveri delle città. Qui Capriles si presenta come come sostenitore “progressista” delle missioni sociali di Chavez, attaccando amministratori locali e funzionari governativi per le loro inefficienze, incapacità e la mancanza di sicurezza pubblica. Con la sua iperattività, demagogia populista e sforzandosi di sfruttare il malcontento locale, Capriles può assicurarsi qualche voto nelle classi più povere, ma i suoi legami con l’elite e la sua lunga storia di aggressivo appoggio all’autoritarismo di destra gli precludono un consenso di massa.

D’altro canto Chavez vanta le sue conquiste sociali, un decennio di crescita spettacolare, il calo delle disuguaglianze ( il Venezuela ha il minor tasso di disuguaglianza dell’America Latina) e il grande consenso alla sua governance. Il finanziamento dei programmi sociali di Chavez viene da un recupero economico dalla recessione mondiale (5% di crescita nel 2012), prezzi del petrolio a tre cifre, e un generale miglioramento dell’ambiente politico della regione comprendente un grande miglioramento dei rapporti colombiano-venezuelani.

La correlazione delle forze: internazionali, regionali, nazionali e locali.

Il governo Chavez ha enormemente beneficiato dei prezzi favorevolissimi della sua principale esportazione, il petrolio; ha anche aumentato i suoi introiti con opportune espropriazioni e aumenti delle tasse e delle royalties, e da accordi di investimento con nuovi investitori stranieri nonostante l’opposizione delle multinazionali USA.

Washington, impelagata in conflitti nei paesi islamici ricchi di petrolio, non può permettersi di organizzare il boicottaggio del Venezuela, uno dei suoi principali fornitori di petrolio; il suo ultimo grande tentativo di “cambiare regime” nel 2002-2003, con la serrata da parte dei managers del petrolio venezuelano, ha determinato solo il licenziamento di quasi tutti i manager filo-USA e la radicalizzazione della politica petrolifera nazionalista.

Gli sforzi USA di isolare Chavez sono falliti; Russia e Cina hanno aumentato i loro investimenti commerciali, e con loro una dozzina di paesi europei, mediorientali e asiatici. La recessione nella UE e la crisi negli USA e nell’economia mondiale non hanno poi creato alcuna simpatia per restrizioni dei rapporti economici col Venezuela.

Significativamente, l’avvento di regimi di centro-sinistra in America Latina, nei Caraibi e in Centroamerica ha favorito i legami economici e diplomatici col Venezuela e una maggiore integrazione latinoamericana. Per contro, il sostegno di Obama ai golpe in Honduras e Paraguay, e gli accordi di libero commercio a favore di Washington hanno perso consensi. In breve, la correlazione delle forze internazionali e interregionali è stata altamente favorevole al governo Chavez, e l’influenza dominante di Washington è diminuita.

La Colombia, uno degli ultimi baluardi degli sforzi USA di destabilizzare Chavez, ha cambiato seccamente politica nei confronti del Venezuela. Da quando Santos ha sostituito Uribe al governo, la Colombia ha firmato accordi miliardari di commercio e investimento, e accordi militari e diplomatici col Venezuela, iniziando una sorta di “coesistenza pacifica”. Nonostante un recente accordo di libero commercio, e la persistenza delle basi USA, la Colombia ha escluso, almeno per il momento, una sua partecipazione a campagne di destabilizzazione, o interventi politici e militari, sponsorizzati dagli USA.

L’influenza politica USA in Venezuela è principalmente la canalizzazione di risorse finanziarie e consiglieri ai loro clienti elettorali. Data la carenza di alleati esterni nella regione, e la perdita dei suoi uomini chiave nell’esercito venezuelano e nelle forze paramilitari colombiane, Washington ricorre ai suoi clienti elettorali. Con forti finanziamenti ha imposto l’unificazione dei vari gruppi di opposizione, confezionato una ideologia di moderato riformismo “centrista” per camuffare l’ideologia neoliberale di estrema destra di Carriles e della sua leadership, e assunto centinaia di agitatori locali e organizzatori “dal basso” per sfruttare il sostanziale divario tra le promesse programmatiche di Chavez e la loro applicazione incompetente e inefficiente da parte dei poteri locali.

La debolezza strategica di Chavez è locale, l’incapacità degli amministratori locali di garantire acqua ed elettricità. A livello internazionale e regionale la correlazione delle forze è favorevole a Chavez. Washington e Capriles attaccano i suoi programmi di aiuti regionali, sostenendo che toglie risorse per l’estero invece di occuparsi dei problemi nazionali. Chavez ha stanziato risorse enormiper spesa sociale e infrastrutture – il problema non sono i soldi all’estero, ma la cattiva gestione dei funzionari locali chavisti, spesso provenienti da passate clientele e personalità. Il tema della crescente criminalità, e della scarsa sicurezza, costerebbe certamente molti voti a Chavez, se i tassi di criminalità non fossero egualmente alti nello stato di Miranda, governato da Capriles negli scorsi quattro anni.

Esito delle elezioni

Nonostante le conquiste delle classi più povere, e il loro solido appoggio, la classe media emergente prodotta dall’era di prosperità di Chavez aspira a maggiori consumi e minore criminalità e insicurezza; vogliono prendere le distanze dai poveri e avvicinarsi ai ricchi; guardano in alto anziché in basso. La spinta di dodici anni di governo sta rallentando, ma la paura di massa di una regressione neoliberale limita il possibile elettorato di Capriles. Nonostante il crimine e la inefficienza e corruzione dei funzionari, l’era di Chavez è stata estremamente favorevole alle classi più basse e a settori di affari, commercio e finanze. Il 2012 non fa eccezione. Secondo l’ONU, il tasso di crescita del Venezuela (5%) è maggiore di quello dell’Argentina (2%), del Brasile (1,5%)e del Messico (4%). La crescita è stata spinta dai consumi privati, grazie alla crescita del mercato del lavoro, del credito e degli investimenti pubblici. La grande maggioranza dei venezuelani, compresi settori del mondo degli affari , non voteranno contro un governo che ha generato una delle più veloci riprese economiche dell’emisfero. Il passato di estrema destra di Capriles, e il suo presente programma, potrebbero provocare conflitti di classe, instabilità politica, declino economico e scoraggiare gli investitori internazionali.

Probabilmente Washington non appoggerebbe un golpe post-elettorale, o una campagna di destabilizzazione, se Capriles perdesse con un margine significativo. La popolarità di Chavez, la legislazione sul welfare sociale, la crescita dinamica i quest’anno gli assicurano un margine di vittoria del 10%. Chavez avrà il 55% e Capriles il 45%. Washington e i suoi clienti di destra stanno consolidando la loro organizzazione per prepararsi alle elezioni parlamentari di Dicembre. L’idea è una “marcia attraverso le istituzioni” per paralizzare le iniziative dell’esecutivo e frustrare gli sforzi di Chavez di proseguire verso una economia socializzata. Il tallone di Achille di Chavez è appunto a livello locale e statale: una priorità assoluta andrebbe data alla sostituzione di funzionari incompetenti e corrotti con leaders locali efficienti e democraticamente controllati per portare avanti i programmi popolarissimi di Chavez. Il quale dovrebbe prestare maggiore attenzione alla politica e alla amministrazione locale, per bilanciare i suoi successi in politica estera: il fatto che la destra possa portare mezzo milione di dimostranti a Caracas non è basato su un appello ideologico ad un passato rovinoso di golpe, ma al suo successo nello sfruttare cronici risentimenti locali non risolti – crimine, corruzione, blocchi di elettricità e acqua.

La posta in gioco alle elezioni dell’Ottobre 2012 non è solo il welfare del popolo venezuelano, ma il futuro dell’integrazione e dell’indipendenza latinoamericana, e la prosperità di milioni che dipendono dagli aiuti e dalla solidarietà venezuelani.

Una vittoria di Chavez getterebbe le basi per una agenda sociale sostanzialmente progressiva, e la continuazione di una politica estera antimperialista. Una sconfitta darebbe ad Obama o a Romney il trampolino per rilanciare le politiche reazionarie neoliberali e militariste dell’era pre-Chavez – la famigerata decade di Clinton (anni ’90) di ruberia, saccheggio, privatizzazioni e povertà.

(traduzione di R. Pellegrini)

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