Menu

Cronache dalla Siria, reportage da Aleppo

* Il Fatto Quotidiano

Il luogo più pericoloso, qui, é l’ospedale. E’ la prima cosa che ti dicono, quando arrivi: se hai voglia di stare tranquilla, stai sul fronte.

Lasciate ogni regola, voi che entrate. Aleppo e’ esplosioni, in questi giorni, nient’altro. Macerie. E quando ti avventuri in cerca di pane, acqua un medico, solo il tiro dei cecchini. Gli aerei di Assad volano radente, ti precipitano contro con schiaffi di vento e morte. Eppure sono così imprecisi che non bombardano mai vicino le linee del fronte: rischierebbero di colpire non i ribelli, ma i lealisti.

L’unita’ dell’Esercito Libero in cui siamo embedded e’ composta da tredici uomini, di cui due in ciabatte – e gli altri non sempre hanno ai piedi due scarpe uguali. Erano diciassette, in tre sono morti per recuperare il cadavere di un quarto che e’ ancora li’, in fondo alla strada. Hanno per base una scuola, e ognuno addosso una pistola, un kalashnikov e un coltello. Un bambino, nell’ufficio del preside, lucida su un tappeto i gioielli di famiglia: due lanciarazzi e un bazooka. A parte il capitano, un ufficiale che ha lasciato le truppe di Assad sei mesi fa, non sono che ragazzini di diciassette, diciotto anni. Alaa studia filosofia, e tra un turno e l’altro legge Habermas. I disertori si riconoscono subito: si sono rubati dalla caserma la maglietta mimetica. Gli altri hanno quella di Messi o Che Guevara.

 

La primavera siriana e’ diventata la guerra di Siria. E l’evoluzione si percepisce tutta nella differenza tra la frontiera con il Libano e la frontiera con la Turchia. Beirut e’ rifugio, clandestino, dei più noti attivisti: quelli da cui tutto e’ cominciato, corteo dopo corteo, assemblea dopo assemblea – e a cui hanno confiscato la rivoluzione. Aiutavano i giornalisti non solo a attraversare il confine, ma anche, soprattutto, capire le ragioni e rivendicazioni dell’opposizione al regime. Adesso la frontiera con il Libano e’ inaccessibile. Si e’ aperta in compenso quella con la Turchia: i ribelli controllano l’ufficio passaporti, entri calpestando il tappetino con il ritratto di Assad. Ma la nuova Siria di cui si sono autoproclamati portavoce e’ un’incognita. Difficile discutere di politica, con loro. Inutile chiedere di inviati dell’Onu, Islam. Sunniti e alauiti. Qui l’essenziale e’ consegnare 500 dollari al giorno: i giornalisti sono l’affare del momento – e’ la tariffa del giro turistico per la Aleppo sotto attacco.

Perché le linee del fronte, formalmente, sono quattro. Ma la verita’ e’ che il fronte e’ uno solo, qui: e’ il cielo. E chi non ha che proiettili e coltelli, da opporre ai caccia, non ha scampo. Senza un intervento esterno, l’Esercito Libero non può vincere. E quindi, per ora, tenta di non perdere.

 

Si difendono le posizioni, in questi giorni, ad Aleppo. Non si avanza. La città é disseminata di cecchini e sangue rappreso, mentre dall’alto si bombarda senza sosta. La mappa disegnata sul muro, nell’ufficio del preside, ricorda la settimana enigmistica, quelle linee aggrovigliate e bisogna scoprire come arrivare da A a B: solo che tra A e B, qui, vivono decine di famiglie – e quella e’ la mappa dei cecchini da stanare. In mezz’ora, all’ospedale Al Shifa sbarcano tre morti, uno ha otto anni. Fuori, l’orma lasciata dall’ultimo aereo, ieri sera: profonda due metri. Per rassicurare la popolazione, i ribelli si aggirano in pick-up bardati di doshka: e’ una mitragliatrice placebo, contro un aereo ha l’effetto della cerbottana. E per rassicurare il mondo, guadagnarsi sostegno, trascinano i giornalisti al fronte: e cioe’ davanti a invisibili cecchini lealisti. In tre, quattro, si nascondono al primo incrocio, a cento metri di distanza. E poi attraversano la strada di corsa, in perpendicolare, sventagliando alla cieca colpi di kalashnikov. Su e giu’. Ogni tanto, nella foga da Rambo, dimenticano di ricaricare i proiettili.

 

Non esistono regole, in Siria. Bombardamenti sui civili, moschee convertite in postazioni militari. Armi sulle ambulanze, ribelli con le divise dei lealisti. Lealisti senza divise. E questa base sembra piu’ un liceo occupato che un’unita’ di esercito. E’ una lite ogni dieci minuti. A chi tocca cucinare, come conquistare il prossimo isolato. Che tattica usare. Hai rubato le mie scarpe, no sei tu che ieri hai rubato le mie coperte. E non e’ che il microcosmo di quello che accade tra i vari gruppi armati, e ancora piu’ in generale, tra le varie anime dell’opposizione. Non si ha un’unica leadership e un’unica strategia, qui. Ne’ tra i civili ne’ tra i militari. Ed e’ questa, piu’ di ogni arsenale, la vera forza di Assad.

 

Per la scuola, tra i kalashnikov, si aggirano bambini. Ahmed ha sei anni. Oggi ti insegno a essere un siriano vero, gli dice il capitano. Un siriano libero. Gli affida la pistola e gli fa sparare un colpo in aria, in questa strada stretta di edifici a otto piani con i vetri gia’ in frantumi. Se ne rompe un altro. Una giovane donna corre giu’ spaventata, il proiettile e’ entrato nella sua cucina. Mi prende dalle mani penna e taccuino: ma che Siria puo’ venire fuori, scrive, da uomini cosi’? E si rintana nel sottoscala.

 

Una mano mi tira a terra, e il proiettile, tre centimetri più su, va a scorticare il muro.

Mi chiedevo dove fossero finiti, gli abitanti di Aleppo. Sono oltre due milioni, e secondo le stime, per due terzi sono ancora qui, tra queste strade di macerie e cecchini. Ma le case, sfiancate dall’artiglieria, sono vuote, da quelle dilaniate dondolano nel vento una lampada una tenda, fossili di vite normali. Persino un gatto, qui, raggomitolato su una sedia, sembra dormire: e invece e’ morto.

Ma sono in un cunicolo buio, quando mi rialzo, davanti a me una rampa di scale. Eccoli infine, gli abitanti di Aleppo. Decine di ombre mi strusciano vicino curiose: sono la prima anima in cui si imbattono, da due mesi a questa parte. Un accendino mi fa luce. Venti bambini, stretti gli uni agli altri, mi fissano in silenzio, allineati contro una parete. Immobili. Mi guardano con terrore, poi capisco: e’ l’elmetto, credono sia un soldato di Assad. Sono allineati come prigionieri in attesa dell’esecuzione.

La casa di Umm Bashar, ventotto anni, é stata centrata a inizio agosto. Bisognerebbe chiamarla Umm Mahmoud, in realtà: Bashar, il primogenito, é rimasto sotto il cemento. Sono in trentasette: oltre ai bambini, tutti dagli uno ai nove anni, cinque uomini e dodici donne. Hanno con se’ solo i vestiti che avevano addosso al momento della fuga. Non possono pagarsi una casa in affitto, ne’ hanno i cinquanta dollari per un’auto fino alla frontiera con la Turchia. E quindi galleggiano qui, nell’angolo un fornellino da campeggio e niente acqua, né elettricità né telefoni. Ogni tanto Omar, ventinove anni, tassista, si avventura fuori in cerca di cibo. Un cecchino lo aspetta dall’altro lato della strada.

Suo fratello Shadi, ventisette anni, meccanico, e’ stato ucciso cosi’. “E non dimentichero’ mai quando mi sono ritrovato a frugare tra le verdure, le arance lo zucchero, quello che aveva comprato. Lavare via il sangue dalle patate, e cucinarle comunque”.

Fuori o dentro, in realta’, non fa piu’ differenza, ad Aleppo. L’intera citta’ e’ martellata da aerei e mortai, un’esplosione ogni pochi secondi. E a migliaia si sono rifugiati sottoterra. “Il pane viene distribuito al cimitero. Solo tra i morti, qui, sei sicuro di non essere un obiettivo”, dice Omar. Ma la verita’ e’ che non esiste riparo: da quando Assad ha sguinzagliato l’aviazione, sopravvivere e’ solo questione di fortuna. “Gli edifici alti, in periferia, proteggono dai mortai. Si sta al primo, al secondo piano: nel caso, crollano quelli di sopra. Ma se arriva un aereo, rimani sotto tonnellate di macerie. In una casa a un piano, invece” – di quelle tipiche siriane, bellissime, con il cortile al centro e i limoni, i gelsomini rampicanti – “le macerie addosso da scavarti via sarebbero meno. Ma sei a rischio anche con un mortaio”.

La verita’ e’ che l’unica cosa sicura, ad Aleppo, e’ andarsene.

 

Solo che e’ di nuovo il nostro turno, adesso. Una mitragliatrice antiaerea, a un isolato da qui, tossisce tre colpi. Ed e’ un attimo – e’ il tempo di guardarci, l’un altro: braccati, un caccia di Assad inizia a ringhiarci in testa. Scompare, riappare plana, torna in quota, venti bambini che strillano disperati. Sono i minuti piu’ feroci. Perche’ la mente e’ ancora lucida: e mentre il pilota sceglie il suo obiettivo, mentre forse tocca a te non ti rimane che stringerti a te stesso, le spalle contro un muro umido, e fissare il pavimento insieme a tutto quello che non hai detto, nella tua vita, le volte in cui non sei stato capace di amare, le volte che non sei stato capace di osare – mentre tutto intorno, intanto, bombardano.

Aisha, nove anni, mi allunga un biglietto da visita. E’ della sala matrimoni al piano di sopra, quella da cui si accede alle scale. Tariq al-Bab, mi dice, siamo a Tariq al-Bab. “Scrivi di venirci a prendere. Non scrivere cose inutili”. Poi vede il mio telefono, mi dice: hai il numero dell’Onu?

 

Eppure, martoriata da Assad, la Aleppo del sottosuolo diffida dell’Esercito Libero. Hanno cominciato una guerra che non erano pronti a combattere, dice Afraa, diciassette anni – in mezzo alla sua frase, quattro esplosioni. “Sono li’ con le infradito e dieci proiettili. E intanto, offrono ad Assad il pretesto per colpirci tutti”. Quando si domanda dei ribelli, e’ quasi un’unica risposta, tra gli abitanti di Aleppo: non si capisce quale sia la loro strategia, chi siano davvero. E soprattutto, quale Siria vogliano. Afraa ha partecipato a decine di manifestazioni. “Ma adesso e’ tutto finito. Non abbiamo piu’ spazio, piu’ voce”. Undici parole e cinque esplosioni. “Occupano le nostre case, sparano dalle nostre finestre. E non gli interessa se non abbiamo altro luogo in cui andare. In due mesi, qui non e’ passato nessuno”. Una ong, la Mezzaluna Rossa. Un medico senza frontiere: nessuno. Un altro mortaio, vetri in frantumi. “Ma soprattutto, sono profondamente religiosi e conservatori. E tutti sunniti”. Miriam e’ la migliore amica di Afraa, ha un burqa nero anche lei. Ma e’ cristiana. “E’ il mio antiproiettile”.

 

Continuo a guardare l’orologio. Sono l’unica, e’ un’abitudine della vecchia vita. Perché la sola differenza tra la notte e il giorno, qui, e’ che senza luce i kalashnikov sono inutili. La notte, non rimane che il metronomo delle esplosioni, i ribelli non rispondono. La notte, ad Aleppo, la guerra si fa assassinio. Non si combatte, si muore e basta. A caso. Bombardano, qui, bombardano, bombardano. Nient’altro.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *