La ferocia con la quale i poteri forti nazionali ed europei intendono far pagare la crisi sistemica del capitalismo ai lavoratori, ma soprattutto il piglio autoritario e poliziesco con il quale il governo dei banchieri intende rispondere alla legittima resistenza popolare, si materializza sempre più in politiche concrete, che modificano giorno dopo giorno la vita della stragrande maggioranza della popolazione. In peggio. La distruzione sistematica di ogni diritto e garanzia sociale è inscindibilmente legata all’aumento imponente dell’uso del manganello, della violenza apparentemente “cieca” degli organi di repressione dello Stato contro ogni manifestazione di opposizione e resistenza.
Si è visto in questi giorni a Livorno, dove due manifestazioni pacifiche di contestazione contro i maggiori responsabili del massacro sociale in atto – la prima verso Bersani, la seconda verso l’attitudine al manganello facile – sono state violentemente represse, a freddo, con un uso apparentemente sproporzionato della forza.
La decisione di usare la forza in forme così “inusuali” rispetto al modo di gestire la piazza a Livorno, appare coerente con le direttive del governo centrale, e da una dirigenza prefettizia e della nuova dirigenza della Questura locale, piuttosto arrogante ma soprattutto “ignorante”, nel senso che ignora l’ambiente storico / politico nel quale si trova ad operare, da sempre molto reattivo ad ogni tipo di arroganza da parte degli organi dello Stato. Un dato questo che le forze di polizia locali conoscono meglio e che le direttive centrali hanno voluto ignorare preferendo la linea dura.
Il fatto che il Questore sia di recente nomina non è certo una scusante. In questo caso si sconta anche l’incompetenza, per cui la richiesta d’immediate dimissioni del dott. Marcello Cardona ci pare il minimo.
L’allontanamento del nuovo Questore dalla città labronica sarebbe un minimo segnale di scuse che la cittadina si aspetta di fronte a quello che è accaduto (e che poteva non accadere), ma non risolverà il problema principale che attiene alle direttive di un governo sempre più screditato agli occhi dei lavoratori e dei settori popolari, e per questo contestato ormai in ogni angolo del paese. Se non cambiano le cose il futuro sarà segnato da uno stillicidio di rudi interventi polizieschi, a difesa di un esecutivo inseguito da contestazioni sempre più determinate ogni volta che mette il naso fuori da Palazzo Chigi. Questo è il primo insegnamento che ci viene dai fatti di Livorno, che si sono succeduti a quelli del 14 novembre a Roma, in Sardegna e in altre città, con gli studenti medi pestati sui marciapiedi o gli operai e i minatori che si scontrano con la polizia che protegge la visita e poi la fuga dei ministri.
L’altro insegnamento che ci proviene dalla piazza livornese, sta tutto nella dinamica innescatasi dopo i due giorni di cariche poliziesche e nella “qualità” della risposta.
I piccoli numeri delle manifestazioni di venerdì e sabato si sono trasformati in meno di ventiquattro ore in una manifestazione imponente, in grado di entrare, con forza e determinazione, nella Prefettura, ossia palazzo più importante del potere politico sul territorio, dando una risposta a chi intendeva intimidire una mobilitazione che si alimenta nell’incontro tra una soggettività plurale cosciente e settori sociali colpiti duramente dalla crisi: dalle lavoratrici della Sodexo sotto licenziamento ai disoccupati, dai giovani ai precari.
“Livorno non si piega”, c’era scritto sullo striscione del corteo che è andato in Prefettura, perché centinaia di compagni, giovani e meno giovani, non hanno ritenuto di dover abbassare la testa e resistono uniti contro l’arroganza del potere, locale e nazionale.
Il governo adesso ha davanti a se due scelte: quella di procedere alla repressione che investirebbe l’intera comunità livornese e l’insieme dell’opposizione popolare nel paese o quella di rivedere le proprie direttive nell’atteggiamento delle forze dell’ordine in piazza. Scegliere una delle due strade segna la differenza.
Rete dei Comunisti
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