Il processo definito “costruzione europea”, con la situazione di stallo che si è venuta a creare sulla pianificazione di bilancio dell’Unione europea per gli anni 2014-2020, e in secondo luogo per il bilancio 2013, sta subendo un triplice fallimento: economico, politico e simbolico.
La questione simbolica è certamente più importante. Questa situazione di stallo, ben che vada durerà fino all’inizio del 2013, arriva dopo il blocco dell’inizio di questa settimana sulla questione degli aiuti da accordare alla Grecia, e dopo i negoziati estremamente duri relativi alla partecipazione rispettiva degli Stati nell’ambito del gruppo aeronautico EADS, e di conseguenza di una riduzione importante delle ambizioni dell’Europa spaziale. È altamente simbolico che questi avvenimenti si siano succeduti tutti in un periodo di otto giorni. Ciò sta a dimostrare l’esaurimento definitivo dell’Unione europea nell’incarnare l’“idea di Europa”.
[N.d.tr.: Da euronews 2012. La fine del sogno di un’aeronautica europea.
Tom Enders e Ian King, direttori generali rispettivamente di European aeronautic defence & space. (Eads) e British Aerospace (Bae) Systems, ci hanno creduto – hanno voluto crederci – fino alla tarda mattinata di mercoledì 21 novembre.
Ma, a poche ore dalla scadenza fissata dall’authority di mercato inglese, si sono dovuti arrendere e hanno gettato la spugna: il negoziato è finito, la megafusione che avrebbe creato il gigante mondiale dell’aeronautica e della difesa non ci sarà.
Le indiscrezioni, le “fonti vicine al dossier”, gli “insider” sono tutti d’accordo nel dire che la responsabilità è di Berlino. Che è stata la Germania a dire di no. In serata lo conferma lo stesso Enders in una lettera ai dipendenti: “Non avremmo mai immaginato di dover affrontare una simile opposizione, in particolare da parte di Berlino.” (…)
Con Monsieur Dequidt, di KBL Richelieu a Parigi, cercheremo di capire meglio perché le trattative tra Eads e Bae Systems si siano concluse con un fallimento.
Secondo Francesi e Inglesi la Germania ne è stata la causa, ma si immagina che oltre il blocco tedesco ci sia dell’altro. Quali sono le vere ragioni?
Dequit, D.:
Prima di tutto la Germania si è sentita messa in disparte nella divisione delle funzioni che si sono attribuite Francia e Inghilterra. Poi l’attività di difesa del gruppo Eads è situata in gran parte a Monaco di Baviera: la ristrutturazione da parte di British Aerospace che sarebbe seguita avrebbe comportato tagli all’occupazione in Germania. Di conseguenza i rischi sociali avrebbero spinto la Germania a rinunciare alla fusione.
Euronews, E.:
Perché fin dall’inizio delle trattative i mercati hanno accolto così male il progetto di fusione? Cosa ha spinto i due gruppi a lanciarsi in una sfida cosi complicata?
D.:
Oggi Eads è basata per l’80% sull’aereonautica civile, un settore in piena espansione anche se resta un settore ciclico, e per il 20% su quella militare, quando per Bae è esattamente il contrario. Il desiderio del management di Eads era di creare un gruppo equilibrato: 50% civile, 50% militare. Di conseguenza i mercati, quando le prospettive dell’aereonautica civile sono forti e in una fase di maturità in termini di benefici, hanno visto un freno alla potenziale crescita degli utili di Eads, che sarebbe stati come dire mangiati da quelli di Bae, che naviga in acque difficili in quanto il gruppo britannico subisce i contraccolpi sia del taglio alle spese militari negli Stati Uniti, sia della riduzione delle spese legate al ritiro delle forze statunitensi in Afghanistan ed in Iraq.
E.:
Con la fine delle trattative, Eads si è chiusa la porta d’ingresso sul mercato americano della difesa?
D.:
Eads, nel comunicato di ieri sera, apre la porta a possibili accordi con il gruppo Bae non piu’ nell’ambito di una unica struttura di capitali, ma ad accordi commerciali tra le due società. Dunque si tratta forse di un’apertura sul mercato americano. Ma è chiaro che la difficoltà sarà sempre piu’ grande per Eads, perché la filiale militare Cassidian è in una situazione piu’ debole nei confronti di Bae che è il gruppo dominante nel settore militare in Europa.
E.:
È la prova che dimostra che l’idea dell’Europa della Difesa resta lontana dalla realtà, stante il fallimento del progetto di questa fusione.]
Un fallimento economico
La questione del bilancio dell’Unione europea è economicamente importante. Non tanto per le somme in gioco. Il contributo al bilancio dell’Unione europea ha raggiunto l’1,26% del PIL dei differenti paesi. Quindi, per il 2013 sono previsti 138 miliardi di euro. Ma è l’esiguità di questa somma che pone dei problemi.
Nel momento in cui l’Eurozona, un sottoinsieme dell’Unione europea (UE), è in recessione, e questa condizione si protrarrà certamente nel 2013 e nel 2014, la logica avrebbe voluto che si fosse raggiunto un accordo su un bilancio di rilancio, sia per promuovere la domanda che per favorire politiche dell’offerta e della competitività in alcuni paesi.
Ora, ciò che si è prodotto va esattamente nella direzione contraria.
È chiaro che ogni paese tende ad andare in ordine sparso, pur dovendo sottostare alle regole di austerità fiscale, per giunta istituzionalizzate dall’ultimo trattato dell’UE, e questo non è il minore dei paradossi! Gli egoismi vengono a galla da ogni parte e, in incontri come quello tenutosi nella notte fra giovedì 22 e venerdì 23 novembre a Bruxelles, trovano il campo chiuso ideale per i loro confronti e scontri.
Nella situazione attuale, risulta evidente che la recessione non potrà essere combattuta in modo efficace se non da una combinazione di politiche volte a rilanciare la domanda e l’offerta. Queste politiche sono state quantificate.
Esse prevedono, solo per la ripresa di competitività, che vengano impiegati nei quattro paesi dell’Europa meridionale (Spagna, Grecia, Italia e Portogallo), circa 257 miliardi di euro l’anno, come è stato stabilito in una nota precedente (1).
Se si volesse essere coerenti, bisognerebbe effettivamente aggiungere almeno 100 miliardi di euro a questa somma per finanziare grandi progetti, permettendo così di armonizzare la competitività fra tutti i paesi. Questa spesa aggiuntiva di 357 miliardi di euro, rispetto ad un budget di circa 138 miliardi, è importante. Ciò implicherebbe che il bilancio verrebbe aumentato dall’1,26% al 4,5%.
In realtà, il problema è ben più complicato.
I 138 miliardi previsti per il bilancio 2013 danno luogo a rimandi, più o meno importanti, per tutti i paesi dell’UE. Sui 357 miliardi che sarebbero necessari da impegnare in più, 257 miliardi sarebbero trasferimenti netti destinati ai quattro paesi del Sud-Europa già citati. E però questi miliardi dovrebbero essere forniti dagli altri Stati, che in buona sostanza non potrebbero essere che la Germania, l’Austria, la Finlandia e l’Olanda. Questo ci porta a concludere che dovrebbe essere la Germania da sola a contribuire per l’ammontare dell’85%-90% di questa somma, il che rappresenterebbe in trasferimenti netti fra l’8,5% e il 9% del suo PIL annuo. Su un periodo di dieci anni si arriverebbe a 3570 miliardi di euro del bilancio totale.
Quando si parla, con la voce in singhiozzo e le lacrime agli occhi, di “federalismo europeo”, è di questo che in realtà si sta parlando, perché senza significativi trasferimenti niente federalismo!
Rispetto a ciò, è da sottolineare che i dirigenti europei non sono riusciti a mettersi d’accordo su una cifra di 978 miliardi di euro da spalmarsi su 7 anni (2014-2020), quando per il medesimo periodo si trattava di 2499 miliardi in più che avrebbero dovuto finanziare.
Si misuri l’immensità del compito e la sua impossibilità, nelle attuali circostanze.
A questo proposito, questo scacco, probabilmente temporaneo in quanto una soluzione di compromesso non soddisfacente per nessuno e nulla risolvente comunque si troverà entro la fine del gennaio 2013, assume il suo pieno significato.
Se i 27 paesi dell’Unione europea stentano così tanto ad accordarsi su una somma, in definitiva modesta, non si vede come potrebbero decidere di comune accordo su cifre che sono 2,5 volte più importanti. Insomma, la realtà dell’UE consiste nell’assenza totale di solidarietà nel suo interno, perfino quando questa solidarietà sarebbe nell’interesse di tutti.
Quello che rivela questa situazione è che nell’ambito dell’Unione europea non esiste il concetto di “cosa pubblica” (res publica).
Ciò si manifesta anche nel modo in cui è stato trattato (male!) il caso della Grecia.
È assolutamente evidente che il fardello del debito genera debito. Nel caso della Grecia, la sola soluzione è un défault, (una “ristrutturazione”), che vada a colpire la metà del debito detenuto dagli organismi pubblici, così come un default equivalente è stato imposto ai creditori privati.(2)
Ma i paesi dell’Eurozona sono incapaci di affrontare questa realtà. Così ridaranno dei soldi, con i pagamenti del debito da spalmarsi a breve termine. Questo non risolverà nulla, e la maggior parte degli esperti se ne rende conto. Tuttavia, oltre il fatto di intraprendere un’azione che è solo un palliativo, gli stessi paesi non sono d’accordo nemmeno sulla quantità di denaro da prestare a breve termine alla Grecia. Questo è ciò a cui si è assistito all’inizio della settimana del 19 novembre. Questi paesi preferiscono addossare la parvenza di responsabilità al Fondo Monetario Internazionale.
L’autore di questo documento ha scritto nel passato considerazioni estremamente critiche e dure nei confronti di questo organismo.(3) Ma è chiaro che lo statuto del FMI non consente al Fondo di prestare ad un paese che sia decisamente insolvente. Da questo punto di vista, il FMI entra perfettamente nel suo ruolo quando fa presente ai paesi dell’Eurozona come sia necessaria una soluzione a lungo termine per la Grecia e che questa soluzione non può altro che pervenire da un parziale default.
Per altro, vengono scartate tutte le soluzioni razionali, a solo profitto di quelle che servono agli interessi immediati di questo o di quello. Questa inconseguenza è il prodotto di una incoerenza di base: si vuole evitare il default, ma ci si rifiuta di pagarne il prezzo!
Dunque, non c’è da stupirsi che i paesi europei non abbiano potuto addivenire ad un accordo, qualsiasi che sia, sulla programmazione dei bilanci con l’orizzonte il 2020, o su un piano realistico di salvataggio della Grecia.
Questo doppio fallimento è rivelatore dell’esaurirsi dell’“idea di Europa”. Perciò si vivrà di espedienti, e si andrà avanti sempre peggio fino al momento in cui bisognerà affrontare la realtà.
Un fallimento politico
Il problema posto è inoltre politico, ed è stato esposto in piena luce in occasione del fallimento del Consiglio europeo, fra la notte del 22 e 23 novembre.
Sorvoliamo del tutto sull’“alleanza” tra la cancelliera tedesca, la signora Angela Merkel e il primo ministro britannico David Cameron, un’alleanza che potrebbe comportare l’isolamento della Francia. Comunque, questa “alleanza” è in realtà puramente congiunturale.
La Gran Bretagna persegue il suo vecchio obiettivo di ridurre l’Unione europea ad una zona di libero scambio e ad un quadro normativo più leggero possibile.
La Germania, da parte sua, e a lei si uniscono su questo punto paesi come la Finlandia, l’Olanda e l’Austria, è nettamente contraria a che i trasferimenti diventino maggiormente impegnativi. È conosciuta l’opposizione assoluta dei dirigenti tedeschi, di tutti i partiti, a trasferimenti massicci, soprattutto nell’ambito dell’Eurozona.
Il rifiuto dell’Unione dei Trasferimenti è un punto cardine della politica tedesca, e questo si spiega sia per l’impatto che questi trasferimenti avrebbero sull’economia tedesca (4), sia per i dati demografici di questo paese, che indicano una riduzione progressiva della popolazione.
Ciò non implica che la Germania condivida il punto di vista della Gran Bretagna sulla filosofia della UE. I leader tedeschi si rendono conto che l’Unione europea deve essere tutt’altra cosa che una semplice zona di libero scambio. Tuttavia i loro interessi si posizionano sulla stessa linea di quelli dei Britannici nell’opporsi ad un impegno di fornire ulteriori finanziamenti, nella misura in cui sono pienamente consapevoli che diventerebbero, per forza maggiore, i principali contribuenti.
È su questa alleanza che si è andata a scontrare la posizione francese.
Qui dobbiamo dissipare l’illusione tanto diffusa nelle élite politiche francesi. I dirigenti francesi pensano che si potrà, con concessioni su alcuni punti, portare i leader tedeschi ad accettare di maggiormente contribuire, visto il loro (relativo) ammorbidimento sulla questione della crisi del debito nell’Eurozona.
Ricordiamoci che in occasione delle prime riunioni sulla crisi, all’inizio del 2010, la posizione tedesca era in netto contrasto con il salvataggio della Grecia. In realtà i leader francesi commettono non uno, ma due errori nel valutare la posizione tedesca.
Il primo errore è quello di confondere la crisi del debito con la crisi di competitività. Queste due crisi sono distinte, anche se la seconda rialimenta di continuo la prima. L’atteggiamento tedesco è stato quello di fare concessioni sulla crisi del debito al fine di evitare una tempesta finanziaria che si sarebbe abbattuta sull’Eurozona, ma di rifiutare qualsiasi concessione relativa alla crisi di liquidità.
I dirigenti tedeschi hanno le idee molto chiare nel fare distinzioni fra queste due crisi. Essi considerano che la crisi del debito sia un problema collettivo, invece la crisi di competitività sia di competenza dei singoli Stati!
Ne consegue che non si può arguire dal loro cambiamento di atteggiamento sulla crisi del debito un qualsiasi cambiamento di valutazione sulla crisi strutturale, quella di competitività.
Il secondo errore consiste nel non capire che la scelta per la Germania non può ridursi al salvataggio a tutti i costi dell’Eurozona. La Germania anela soprattutto allo status quo (che le permette di realizzare le sue enormi eccedenze commerciali nella bilancia dei pagamenti a scapito di altri paesi della zona euro). Per mantenere questo status quo ha già accettato di aiutare, e ha già consentito una mutualizzazione del debito – checché se ne dica – sotto forma di acquisti sul mercato secondario da parte della Banca Centrale europea del debito dei paesi in difficoltà. Infatti, la Germania è co-responsabile del bilancio della BCE fin dal suo contributo iniziale a questa istituzione. Ma non è pronta ad andare al di là di un contributo annuo di circa il 2% del suo PIL (circa 50 miliardi di euro).
Se si lancia la sfida alla Germania per il pagamento delle somme di cui sopra, corrispondenti all’8% fino al 9% del suo PIL, al fine di rendere l’Eurozona in grado di durare, la Germania preferirà la fine della zona euro. Là dove i leader francesi vedono l’inizio di un processo, che potrebbe essere allargato, in realtà è possibile riscontrare un impegno strettamente limitato della Germania.
Dunque, la crisi attuale non è solo economica, anche se questa dimensione da sola è sufficiente per portarci al disastro. È anche politica. L’idea di un’alleanza tra la Francia e la Germania, il Merkozy, che tanto veniva difesa dal governo precedente, era basata sull’illusione, nutrita da ignoranza o volutamente, che la crisi dell’Eurozona era unicamente una crisi del debito.
Se tale fosse stato il caso, è probabile che si sarebbe potuto trovare il terreno per un’intesa stabile tra questi due paesi. Ma la crisi dell’euro è in primo luogo una crisi derivante dalla eterogeneità delle economie, eterogeneità che aumenta naturalmente in un sistema a moneta unica e con una politica monetaria uniforme in assenza di flussi massicci di trasferimenti, e che sfocia in una più grave crisi di competitività, che a sua volta genera un aumento dei disavanzi di bilancio.
Arrivati a questo punto, le posizioni rispettive di Francia e Germania divergono spontaneamente, e di questo il nuovo governo francese ne ha preso atto. Ma quando ha tentato di radunare attorno a sé i paesi in difficoltà, non ha fatto altro che provocare l’alleanza, seppur temporanea, ma temibile, della Germania con la Gran Bretagna.
Infatti, all’interno della zona euro, la Germania può sempre trovare alleati e una strategia di uscita, almeno nel breve termine.
È la Francia che si trova, in fin dei conti, come dicono i piloti dei caccia “out of power, out of altitude and out of idea” (che può essere liberamente tradotto con “senza potenza, in stallo, e senza idee”). François Hollande deve capire che, nella situazione attuale, l’unica possibilità che rimane per la Francia è quella di rovesciare il tavolo, di porre la Germania davanti alla scelta di procedere ad una dissoluzione ordinata dell’Eurozona in cui senza dubbio perderà incontestabilmente alcuni dei suoi benefici, o ad una esplosione disordinata in cui la Germania avrà ben più da perdere.
Un fallimento simbolico
I fallimenti, tanto quello economico che politico della settimana scorsa, sono, ovviamente, rivelatori di un fallimento simbolico più importante. Attualmente, chi crede ancora nell’Unione europea?
L’analisi degli ultimi sondaggi pubblicati nei mesi di giugno e novembre su questo punto fornisce un risultato incontrovertibile. La perdita di fiducia nella capacità dell’UE di produrre una qualsiasi cosa di positivo per le popolazioni è enorme. Mai l’Euroscetticismo si è portato tanto bene, non solo in Gran Bretagna, ma anche in Francia e nella stessa Germania.
Nell’Eurobarometro, sondaggio realizzato a scadenza regolare in tutti i paesi dell’UE (5), la percentuale di fiducia sull’Unione europea è crollata al 31%.
Infatti, il 28% degli interpellati hanno espresso un’opinione “molto negativa” sull’UE e il 39% non si sono pronunciati. La cosa più impressionante è l’evoluzione nel tempo dei risultati. Le opinioni sfavorevoli sono passate dal 15% dell’autunno 2009 al 28% della primavera 2012, mentre le opinioni favorevoli sono passate nel medesimo periodo dal 48% al 31%.
Ma c’è di peggio: il 51% delle persone interrogate non si sentono prorio solidali con gli altri paesi in crisi.
Grafico 1
In generale, l’immagine che voi avete dell’UE è molto positiva, abbastanza positiva, neutra, abbastanza negativa o molto negativa?
In altre parole, la politica dell’UE ha provocato un aumento della sfiducia reciproca, ciò che doveva di regola combattere. Ed è evidente che la perdita di fiducia nella UE e nelle sue istituzioni tende a generalizzarsi. Quali conclusioni possiamo trarne?
Dunque, è la credibilità generale della UE ad essere in questione, e vediamo allora che le strategie discorsive messe in campo dagli europeisti saranno sempre meno efficaci.
Queste strategie si fondano: a) su una delegittimazione delle opinioni negative, associandole alla categoria degli “ignoranti” e quindi degli incapaci di capire l’apporto positivo dell’Unione europea; b) sulla giustificazione che questi risultati poco confortanti semplicemente sono dovuti alle difficoltà materiali generate dalla crisi.
Sul primo punto, ci sarebbe molto da dire. Immediatamente si scorge l’affinità tra questo argomento e gli argomenti del XIX secolo a favore del voto secondo il censo. Le persone con redditi modesti, che in genere non compiono studi superiori, sono considerate intrinsecamente inadatte a giudicare un progetto che viene presentato come “complesso”.
In realtà, questo argomento non è altro che una razionalizzazione del percorso anti-democratico intrapreso nella costruzione europea dal 2005.
Il secondo argomento contiene un pizzico di verità. È chiaro che l’impatto della crisi ha modificato le preferenze degli individui. Ma questa spiegazione si ritorce contro questi europeisti: perché l’Unione europea non è riuscita a proteggere le persone dagli effetti della crisi? In realtà, la crisi agisce come un indicatore che evidenza le carenze e le lacune dell’UE.
Vi è un terzo argomento, che viene utilizzato di volta in volta: l’Unione europea ci avrebbe evitato il ritorno di conflitti inter-europei dei secoli precedenti. Ma questo è falso, tecnicamente e storicamente.
Tecnicamente, l’UE non è stata in grado di impedire i conflitti nei Balcani, e le modalità della loro risoluzione si devono molto di più alla NATO che all’UE.
Storicamente, i due eventi più importanti che sono la riconciliazione franco-tedesca e la caduta del muro di Berlino non sono affatto il prodotto dell’Unione europea.
Infatti, come possiamo ben vedere attualmente, attraverso la sua odierna politica l’UE alimenta il ritorno di vecchie contrapposizioni odiose, sia tra paesi (Grecia e Germania, ma anche Portogallo o Spagna e Germania) che al loro interno (Spagna, con i Paesi Baschi e la Catalogna, e il Belgio).
Questo fallimento simbolico è certamente il più grave a breve termine, in quanto influisce sulle rappresentazioni dei popoli.
Se il fallimento politico e il fallimento economico dimostrano che l’Unione europea è a corto di fiato, il fallimento simbolico, evidenziato dagli ultimi sondaggi, apre la strada a radicalizzazioni nell’opinione pubblica in tempi relativamente brevi.
Trarre insegnamenti dall’esaurimento di un progetto europeo
Ora diventa opportuno impegnarsi in una valutazione intransigente del progetto prodotto dall’Unione europea, e che a tutt’oggi si è manifestamente arenato. Questo non significa che tutto il progetto europeo sia destinato al fallimento. Ma ancora una volta si dovrebbe tralasciare di identificare l’Europa con l’Unione europea.
Risulta palese che alcuni paesi esterni al quadro dell’UE hanno interesse all’esistenza di una Europa forte e prospera. I casi della Russia e della Cina saltano agli occhi. Per di più, la Russia è anch’essa un paese europeo, anche se non unicamente europeo.
È quindi possibile pensare ad un progetto europeo che includa tutta l’Europa, compresi quei paesi che oggi non sono membri dell’Unione europea, e nemmeno aspirano a diventarlo. Ma alla condizione di fare delle nazioni europee, queste “vecchie nazioni” che restano ancor oggi il quadro privilegiato per la democrazia, la base di questo progetto.
Questo progetto dovrà imperniarsi intorno ad iniziative industriali, scientifiche e culturali, il cui nucleo iniziale potrà essere variabile, ma per esistere avranno l’esigenza della rimessa in discussione di una serie di norme e regolamenti della UE.
Più di ogni altra cosa, sarà necessario procedere allo smantellamento dell’euro.
Questa dissoluzione dell’euro, se coordinata fra tutti i paesi membri dell’Eurozona, sarà essa stessa uno strumento europeo, e potrà immediatamente dar luogo a meccanismi di concertazione e di coordinamento che faranno sì che i tassi di cambio delle monete nazionali ritrovate non fluttino più in modo irregolare, ma in funzione dei parametri fondamentali dell’economia.
Questo percorso richiede del coraggio, perché gli attuali dirigenti di molti paesi sono gli eredi diretti dei “padri fondatori” dell’Unione europea. Ma ad un tratto tutta l’eredità deve essere liquidata! Rifiutarsi di farlo significa per i paesi europei entrare in una nuova fase storica di convulsioni violente, sia interne che esterne, fase che si sta preparando.
Se è vero che l’“idea di Europa” è portatrice di pace, il proseguire dell’Unione europea nella sua forma attuale non può altro che essere fonte di conflitti sempre più violenti.
Note
(1) Jacques Sapir, “Le coût du fédéralisme dans la zone Euro – Il costo del federalismo nell’Eurozona”, articolo pubblicato sul sito “Russeurope”, il 10/11/2012, URL: http://russeurope.hypotheses.org/453
(2) Jacques Sapir, “Grèce: seule l’annulation de la dette peut apporter un début de solution – Grecia: solo la cancellazione del debito può dare inizio ad una soluzione”, articolo pubblicato sul sito “Russeurope”, il 20/11/2012, URL: http://russeurope.hypotheses.org/522
(3) Jacques Sapir, Le Krach Russe, La découverte, Paris, 1998. Idem, Les Économistes contre la Démocratie, Albin Michel, Paris, 2002. Idem, “Le FMI et la Russie: conditionnalité sous influences”, in Critique Internationale, n°6, Hiver 2000, pp. 12-19.
(4) Patrick Artus, “La solidarité avec les autres pays de la zone euro est-elle incompatible avec la stratégie fondamentale de l’Allemagne : rester compétitive au niveau mondial ? La réponse est oui –La solidarietà con gli altri paesi dell’Eurozona è incompatibile con la strategia di fondo della Germania: rimanere competitivi a livello mondiale? La risposta è affermativa!”, Flash Économie, Natixis, n° 508, 17 juillet 2012.
(5) Eurobaromètre Standard 77, “L’opinion publique dans l’Union européenne”, Commissione europea, Direzione generale per la Comunicazione, luglio 2012, URL :http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/eb/eb77/eb77_first_fr.pdf
Jacques Sapir, “Europe : fin de partie ?”, documento pubblicato sul sito “Russeurope”, il 25/11/2012
URL: http://russeurope.hypotheses.org/539
(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
Diplomato con lode all’istituto di Studi Politici di Parigi nel 1976, ha conseguito il dottorato di ricerca sull’organizzazione del lavoro in Unione Sovietica fra il 1920 e il 1940 (EHESS, 1980), poi il dottorato di Stato in economia, dedicato ai cicli di investimento nell’economia sovietica (Paris-X, 1986).
Ha insegnato macroeconomia ed economia finanziaria all’Università di Parigi -X Nanterre dal 1982 al 1990, e all’ENSAE (1989-1996), prima di entrare alla Scuola di Studi Superiori in Scienze Sociali nel 1990. Dal 1996 dirige il Centro Studi sui Modelli di Industrializzazione (CEMI-EHESS).
Inoltre ha insegnato in Russia presso il Collegio Superiore di Economia (1993-2000) e attualmente è docente alla Scuola di Economia dell’Università di Mosca.
Le sue attività di ricerca si sono orientate su tre direzioni, lo studio dell’economia russa e della transizione, l’analisi delle crisi finanziarie, e ricerche teoriche sulle istituzioni economiche e le interazioni fra i comportamenti individuali.
Dopo molti anni di ricerche sull’economia sovietica, i suoi interessi si sono focalizzati sui problemi della transizione. Dopo il 1991, con il professore Ivanter dell’Istituto di Previsione dell’Economia Nazionale (INP-RAN) ha co-animato il Seminario franco-russo sui problemi monetari e finanziari della transizione in Russia, che due volte all’anno riunisce ricercatori e membri dell’amministrazione dei due paesi.
Responsabile scientifico delle ricerche sugli aspetti macroeconomici e strutturali della transizione, con particolare riguardo sui problemi dello sviluppo regionale e sulle politiche industriali in Russia, ha contribuito all’organizzazione del seminario intergovernativo franco-russo sull’efficienza energetica (Mosca-2004).
Ha sviluppato un programma di ricerche sulle instabilità finanziarie a partire dal 1997 ed è intervenuto a più riprese su considerazione del governo russo nel 1998/1999, a seguito della crisi finanziaria che la Russia stava conoscendo.
A partire dal 2000, ha proseguito le sue ricerche sulle interazioni fra i regimi di cambio, la strutturazione dei sistemi finanziari e le instabilità macroeconomiche, e dal 2007 si è impegnato nell’analisi della crisi finanziaria attuale, in particolare della crisi dell’Eurozona.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa