Uso il termine “cosiddetta” perché entrambe queste “Pax” nelle loro fasi finali sono diventate via via sempre meno portatrici di pace e di ordine, e sempre più incardinate sull’imposizione di una potenza competitrice, guerrafondaia e intrinsecamente fautrice delle disuguaglianze.
Potrebbe sembrare pretenzioso considerare la prevenzione di questo conflitto come un obiettivo raggiungibile. Tuttavia, le misure per conseguire questo scopo sono tutt’altro che impossibili, perfino qui negli Stati Uniti.
Per fare questo, non abbiamo bisogno di una nuova politica radicale e inedita, ma di una diversa valutazione realistica e indispensabile di due politiche recentemente avviate – che sono state screditate e che si sono dimostrate contro-produttive. Perciò, dovremmo gradualmente disimpegnarci da queste politiche.
In primo luogo faccio riferimento alla cosiddetta “guerra contro il terrore” condotta dagli Stati Uniti. In questo paese, le politiche nazionali ed estere sono sempre più condizionate ed alterate dal conflitto contro il terrorismo, che è contro-produttivo, di fatto aumentando il numero di autori e di vittime di attacchi terroristici.
Questa guerra è anche profondamente disonesta, in quanto si sa bene che le politiche di Washington contribuiscono in realtà a finanziare e armare gli jihadisti, che sono normalmente censiti fra i nemici degli Stati Uniti e dell’Occidente.
Soprattutto, la “guerra contro il terrore” è auto-generatrice perché produce più terroristi di quanti ne elimina, e questo suscita allarme in molti esperti analisti.
E la “guerra contro il terrore” si è sempre più indissolubilmente legata alla “guerra contro la droga”, la precedente campagna bellica di auto-generazione, disperatamente impossibile da vincere da parte degli Stati Uniti.
In effetti, attualmente queste due guerre auto-generatrici si fondono in un’unica guerra.
Con il lancio della “guerra alla droga”, gli Stati Uniti hanno favorito un para-Stato, organizzando il terrore in Colombia (attraverso gruppi para-militari denominati AUC, acronimo di Autodifese Unite di Colombia) e un regno dell’orrore, ancora più sanguinoso in Messico (con 50.000 persone uccise negli ultimi sei anni).(1)
Scatenando nel 2001 una “guerra contro il terrorismo” in Afghanistan, gli Stati Uniti hanno contribuito a raddoppiare la produzione di oppio nel paese, che è quindi diventato la fonte del 90% dell’eroina mondiale, e della maggior quota complessiva di hashish.(2)
Bisognerebbe che i cittadini degli Stati Uniti si rendessero conto di questo schema generale, che vuole che la produzione di droga aumenti sistematicamente là dove il loro paese interviene militarmente – nel Sud-Est asiatico negli anni ‘50 e ‘60, e poi in Colombia e in Afghanistan.
(La coltivazione del papavero da oppio è aumentata anche in Iraq dopo l’invasione dell’Iraq da parte dell’esercito degli Stati Uniti nel 2003.) (3)
E viene dimostrato anche il contrario: la produzione di droga declina là dove gli Stati Uniti interrompono le loro operazioni militari, in particolare nel Sud-Est asiatico dopo gli anni ‘70. (4)
Le due guerre auto-generatrici degli Stati Uniti sono lucrative per gli interessi privati coltivati da coloro che poi utilizzano le lobby perché questi conflitti possano continuare. (5)
Allo stesso tempo, queste guerre contribuiscono entrambe ad amplificare l’instabilità e l’insicurezza in America e nel mondo.
Così, attraverso una dialettica paradossale, il Nuovo Ordine Mondiale degli Stati Uniti degenera progressivamente verso un Nuovo Disordine Mondiale.
Per di più, benché sembri invincibile, lo Stato di sicurezza nazionale, afflitto da problemi di povertà, disparità di reddito e di droga diventa gradualmente uno Stato di insicurezza nazionale paralizzato da blocchi istituzionali.
Utilizzando le analogie con gli errori britannici alla fine del XIX secolo, l’obiettivo di questo lavoro è quello di promuovere un graduale ritorno ad un ordine internazionale più stabile e più giusto mediante una serie di misure concrete, alcune delle quali dovrebbero essere applicate a fasi successive.
Prendendo ad esempio il declino della Gran Bretagna, spero di dimostrare che la soluzione non può arrivare dal sistema attuale centrato sui partiti politici, ma da quelle persone che sono estranee a questo sistema.
Le follie della “Pax Britannica”
Gli errori finali dei dirigenti imperialisti britannici sono particolarmente illuminanti per comprendere la difficile nostra situazione di oggi.
In entrambi i casi, un eccesso di potenza conseguente alle indubbie esigenze difensive ha portato ad espansioni di influenza sempre più ingiuste e controproduttive.
La mia analisi nei paragrafi seguenti è inequivocabilmente negativa.
Pur innegabili le realizzazioni positive del sistema imperiale all’estero nei settori della sanità e dell’istruzione, tuttavia, il consolidamento della potenza britannica ha portato ad un impoverimento delle nazioni, un tempo prospere, come l’India. Allo stesso tempo ha causato un impoverimento dei lavoratori in Gran Bretagna. (6)
Come Kevin Phillips ha dimostrato, una delle ragioni principali di questo fenomeno è stata la delocalizzazione crescente di investimenti di capitale e della capacità produttiva britannica:
“Così la Gran Bretagna si è squilibrata, arrivando a condizioni raffrontabili a quelle degli Stati Uniti negli anni ’80 e nella gran parte degli anni ‘90 – da un lato, il crollo del livello dei salari (escluse le retribuzioni dei dirigenti) accompagnato ad un declino delle industrie di base; e al vertice della scala, un periodo d’oro per le banche, per i servizi finanziari e le speculazioni borsistiche, un aumento significativo della quota di reddito generato dagli investimenti, così come una percentuale impressionante dei profitti e delle risorse andata a concentrarsi sul percentile superiore. [La definizione di percentile permette di stabilire la percentuale di valori al di sotto o al di sopra di una certa soglia, e anche la percentuale tra due soglie] (7)
A quel tempo, i pericoli di crescenti disparità di reddito e di ricchezza venivano facilmente individuati, in particolare dal giovane politico Winston Churchill. (8)
Tuttavia, solo una minoranza aveva tenuto presente la penetrante analisi di John A. Hobson nel suo libro intitolato Imperialismo (1902).
Secondo Hobson, la ricerca smodata del profitto – causa del trasferimento di capitali all’estero – creava la necessità di insediare un apparato di difesa sovradimensionato per proteggere questo sistema. A livello internazionale, una delle conseguenze di questo fenomeno era un uso più esteso e brutale degli eserciti britannici.
Hobson definiva l’imperialismo del suo tempo, che a suo dire aveva avuto inizio verso il 1870, come un “indebolimento […] del nazionalismo autentico, attraverso tentativi di espanderci oltre i nostri confini naturali e assorbire territori vicini o lontani dove vivono popoli recalcitranti all’assimilazione.”(9)
Come aveva scritto nel 1883 Sir John Robert Seeley, uno storico della Gran Bretagna, si potrebbe affermare che l’Impero britannico era stato “acquisito in uno accesso di disattenzione” (“in a fit of absence of mind”). Ma non potremmo affermare ciò a proposito degli avanzamenti e delle espansioni di Cecil Rhodes in Africa!
Una delle cause principali dell’espansione britannica era stata la cattiva distribuzione della ricchezza, e quindi l’espansione ne diveniva una conseguenza inevitabile.
La maggior parte del libro di Hobson denuncia lo sfruttamento occidentale del Terzo Mondo, in particolare dell’Africa e dell’Asia. (10)
Hobson faceva eco alla descrizione di Tucidide, di “come Atene era stata sconfitta dalla cupidigia sconfinata (pleonexia), che aveva dimostrato nel corso della sua spedizione inutile in Sicilia”, una follia che presagiva quelle degli Stati Uniti in Vietnam e in Iraq [tanto quanto quelle della Gran Bretagna in Afghanistan e nel Transvaal].
Tucidide attribuiva l’emergere di questa follia ai rapidi cambiamenti che Atene aveva conosciuto subito dopo la morte di Pericle, e in particolare alla salita al potere di una oligarchia predatoria. (11)
Parimenti, sia l’apogeo dell’Impero britannico, sia l’inizio del suo declino possono essere collocati negli anni attorno al 1850. Nel corso di questo decennio, Londra instaurava un controllo diretto sull’India, rimpiazzando così la Compagnia delle Indie, che aveva avuto una funzione puramente di sfruttamento.
Ma, nello stesso decennio, il Regno Unito concordava con la Francia di Napoleone III, decisamente espansionista, (e con l’Impero ottomano), le sue ambiziose mire ostili al protettorato della Russia in Terra Santa.
Anche se la Gran Bretagna usciva vincitrice dalla guerra di Crimea, in seguito gli storici hanno giudicato questa vittoria come una delle cause principali della rottura dell’equilibrio fra le potenze prevalso in Europa dopo il Congresso di Vienna del 1815.
Così, per la Gran Bretagna, il lascito di questa guerra consisteva in un esercito più efficiente e moderno, ma in un mondo più pericoloso e instabile. (In futuro, gli storici potrebbero riscontrare che l’avventura libica della NATO nel 2011 ha svolto un ruolo simile, col finire della distensione tra Stati Uniti e Russia.)
Nel contempo, la guerra di Crimea ha visto anche l’emergere di quello che è stato forse il primo grande movimento contro la guerra in Gran Bretagna, anche se bisogna tenere ben presente perché mise fine ai ruoli politici attivi dei suoi principali dirigenti, John Cobden e John Bright. (12)
In un breve lasso di tempo, i governi e i dirigenti della Gran Bretagna si sono radicalizzati verso destra. Ciò ha portato, per esempio, al bombardamento di Alessandria da parte di Gladstone nel 1882, per recuperare i debiti che gli Egiziani avevano contratto con investitori privati britannici.
Considerando l’analisi economica di Hobson alla luce degli scritti di Tucidide, possiamo riflettere sulla questione morale di come la smisurata avidità (pleonexia) venisse incoraggiata dalla potenza britannica senza limitazioni.
Nel 1886, la scoperta di enormi riserve di oro nella Repubblica boera del Transvaal, che era nominalmente indipendente, attirava l’attenzione di Cecil Rhodes – quest’ultimo si era già arricchito grazie alle concessioni minerarie e diamantifere che aveva disonestamente acquisito nel Matabeleland.
Allora, Rhodes intravedeva l’opportunità di accaparrarsi anche dei giacimenti auriferi nel Transvaal, rovesciando il governo dei Boeri con il sostegno degli Uitlanders (gli stranieri, per lo più Britannici, accorsi in massa in questa regione).
Nel 1895, dopo il fallimento dei suoi intrighi che vedevano coinvolti direttamente gli Uitlanders, Cecil Rhodes, nella sua qualità di Primo ministro della Colonia britannica del Capo appoggiò un’invasione del Transvaal, in seguito denominata “Raid Jameson” – condotta da un gruppo eterogeneo composto da membri dei volontari della polizia a cavallo e mercenari.
Questa aggressione non solo sfocerà in un fallimento, ma anche generò uno scandalo tale che Rhodes fu costretto a dimettersi da Primo ministro, e suo fratello fu imprigionato.
I dettagli del “raid Jameson” e della guerra dei Boeri scatenata da questa operazione sono troppo complessi per essere discussi in questa sede. Tuttavia, l’esito della guerra produsse come risultato finale il fatto che Cecil Rhodes entrò in possesso della maggior parte dei giacimenti auriferi.
Il passo successivo nell’espansionismo di Rhodes, pesantemente finanziato, è stato il suo progetto di una ferrovia tra Città del Capo e il Cairo, che avrebbe attraversato le colonie controllate dalla Gran Bretagna.
Come vedremo in poche righe, questo progetto ha generato la concorrente ideazione francese di un piano per una ferrovia “Est-Ovest”, che ha innescato una prima serie di crisi aggravate dalla competizione imperialista.
A poco a poco, queste crisi si intensificarono fino allo scatenarsi della Prima guerra mondiale.
Secondo Carroll Quigley, Cecil Rhodes era stato perfino il fondatore di una società segreta il cui obiettivo principale era una più ampia espansione dell’Impero britannico. La Tavola Rotonda (Round Table) ne fu una ramificazione, e a sua volta questa Tavola ha generato il Reale Istituto di Relazioni Internazionali (RIIA, Royal Institute of International Affairs).
Nel 1917, alcuni membri della Tavola Rotonda statunitense contribuirono anche alla fondazione della organizzazione sorella del RIIA, il Consiglio per le Relazioni Internazionali con sede a New York (CFR, Council on Foreign Relations). (13)
Alcuni analisti hanno ritenuto che le argomentazioni di Carroll Quigley fossero esagerate. Tuttavia, che si sia o no d’accordo con esse, si può osservare una continuità tra l’avidità espansionista di Cecil Rhodes in Africa durante gli anni 1890 e quella delle compagnie petrolifere britanniche e statunitensi durante il periodo post-II guerra mondiale, quando colpi di Stato venivano sostenuti dal CFR in Iran (1953), in Indonesia (1965) e in Cambogia (1970).(14)
In tutti questi esempi, la cupidigia privata (anche se espressa ora dalle imprese, piuttosto che da singoli individui) ha imposto la violenza di Stato e / o la guerra come elementi della politica pubblica.
Ciò ha comportato l’arricchimento e il potenziamento delle imprese private, nell’ambito di ciò che ho definito la “Macchina da guerra degli Stati Uniti”, in un processo di indebolimento delle istituzioni che dovrebbero rappresentare l’interesse generale.
La centralità della mia tesi si fonda sul fatto che, prevedibilmente, il progressivo sviluppo e potenziamento della marina e dell’esercito britannico ha provocato il riarmo delle altre potenze, in particolare della Francia e della Germania, e questo processo ha reso inevitabile la Prima Guerra mondiale (e di conseguenza anche la Seconda).
Retrospettivamente, non è difficile rimarcare che questo rafforzamento degli apparati militari ha contribuito in modo disastroso, non certo alla sicurezza, ma ad una insicurezza sempre più pericolosa – non solo per le potenze imperiali, ma per il mondo intero.
Dal momento che la supremazia globale degli Stati Uniti attualmente supera ormai quella dell’Impero britannico al suo apice, non abbiamo assistito, fino ad ora, a delle comparabili ripercussioni nelle ambizioni concorrenziali di altri Stati; invece, comincia a farsi sempre più evidente un incremento delle reazioni violente provenienti da persone sempre più oppresse (che i media definiscono “il terrorismo”).
Con uno sguardo rivolto al passato, possiamo ugualmente constatare che il progressivo impoverimento dell’India e delle altre colonie ha fatto sì che l’Impero britannico divenisse sempre più instabile, e alla fine, il suo destino sarebbe stato quello di scomparire.
A quell’epoca, tutto ciò non era assolutamente evidente; e nel XIX secolo, rispetto ad oggi, pochi altri Britannici come John A. Hobson rimettevano in discussione le decisioni politiche che avrebbero portato il loro paese alla Lunga Depressione degli anni 1870, alla “corsa precipitosa verso l’Africa” e alla corsa corrispondente agli armamenti. (15)
Tuttavia, nel considerare oggigiorno queste decisioni, non possiamo che stupirci per la grettezza, la stupidità e la miopia dei cosiddetti uomini di Stato di quest’epoca. Le crisi assurde ma allarmanti che le loro decisioni hanno generato nelle regioni lontane dell’Africa, come a Fascioda (1898) o ad Agadir (1911) rafforzano questa idea.(16)
Possiamo anche osservare come alcune crisi internazionali siano state inizialmente provocate dalle iniziative di minuscoli gruppi di burocrati fuori controllo.
La crisi di Fascioda nel Sud-Sudan vedeva coinvolto un reparto non molto consistente di 132 fra ufficiali e soldati francesi. Questi ultimi, dopo un periplo di 14 mesi, erano animati dalla vana speranza di stabilire una presenza francese da est a ovest attraverso tutta l’Africa (quindi con il progetto di contrastare la visione di Rhodes, di una presenza britannica che si voleva estendere da nord a sud del continente africano). (17)
Per quel che è denominato il “colpo di Agadir” (o Panzersprung), l’arrivo provocatorio della cannoniera tedesca SMS Panther nella città marocchina di Agadir era dovuto ad una idea insensata di un sottosegretario agli Affari Esteri; il suo effetto principale fu quello di cementare l’amichevole Intesa anglo-francese, contribuendo così alla sconfitta della Germania nella Prima Guerra mondiale. (18)
La “Pax Americana” alla misura della “Pax Britannica”
Il mondo non è condannato a ripetere la tragedia di una guerra mondiale, in quest’epoca di “Pax Americana”.
L’interdipendenza globale e, soprattutto, ogni tipo di comunicazioni hanno conosciuto un significativo miglioramento. Noi possediamo il sapere, le competenze e le motivazioni per comprendere i processi storici con più padronanza che mai.
In buona sostanza, è sempre più evidente (…per una minoranza globale) che l’iper-militarismo degli Stati Uniti, giustificato da ragioni di sicurezza, diventa in realtà una minaccia per la sicurezza di questo paese e del mondo intero. In effetti, questa tendenza guerrafondaia innesca e scatena guerre sempre più estese – ciò che fa ricordare l’iper-militarismo britannico del diciannovesimo secolo.
Fra un sempre più crescente squilibrio globale, esiste un motivo di consolazione per il popolo degli Stati Uniti. Dal momento che le cause dell’insicurezza mondiale risiedono sempre più nel loro paese, anche i rimedi a questo problema vi sono insiti.
Ben più dei loro predecessori Britannici, e a differenza degli attuali altri popoli, i cittadini degli Stati Uniti hanno l’opportunità di ridurre le tensioni globali e di far evolvere l’ordine internazionale verso un sistema di maggior equità.
Naturalmente, nessuno può prevedere come e quando una tale evoluzione possa essere portata a compimento. Tuttavia, la fine catastrofica della “Pax Britannica” e l’onere sempre più pesante che i cittadini statunitensi devono sopportare suggeriscono quanto la mutazione sia necessaria.
In effetti, l’espansionismo unilaterale del loro paese, come quello della Gran Bretagna in passato, attualmente contribuisce a rompere gli accordi e gli assetti giuridici internazionali che hanno procurato una relativa stabilità per decenni – in particolare quelli previsti dalla Carta delle Nazioni Unite.
Dovrebbe a chiare lettere essere affermato che l’attuale rafforzamento dell’apparato militare degli Stati Uniti è la principale causa del riarmo globale. Così inquietante, questo processo ricorda la corsa agli armamenti alimentata dall’industria militare britannica, che aveva indotto l’incidente di Agadir nel 1911, e subito dopo aveva contribuito a scatenare la Prima Guerra mondiale.
Tuttavia, l’attuale riarmo non può essere descritto come una “corsa agli armamenti”.
In buona sostanza, gli Stati Uniti – e i loro alleati della NATO, la cui politica degli armamenti richiede il possesso di armi compatibili – dominano talmente il mercato mondiale delle armi che le vendite di armi da attribuire alla Russia e alla Cina appaiono risibili al confronto:
“Nel 2010 […] gli Stati Uniti hanno mantenuto la loro posizione dominante nel mercato mondiale degli armamenti, firmando contratti per 21,3 miliardi di dollari di esportazioni di armi, vale a dire una quota del 52,7% del mercato internazionale[…].
La Russia ha occupato la seconda posizione, con la vendita di armi sull’intorno di 7,8 miliardi di dollari nel 2010, cioè una quota di mercato del 19,3%, contro i 12,8 miliardi di dollari nel 2009.
In termini di vendite, dopo gli Stati Uniti e la Russia, possiamo trovare la Francia, la Gran Bretagna, la Cina, la Germania e l’Italia.” (19)
Un anno dopo, nel 2011, la dimensione egemonica assoluta degli Stati Uniti nelle esportazioni di armamenti era più che raddoppiata, a rappresentare il 79% delle vendite globali di armi:
“L’anno scorso, le esportazioni di armi dagli Stati Uniti hanno totalizzato 66,3 miliardi di dollari, cioè più dei tre quarti del mercato globale delle armi, stimato sugli 85,3 miliardi nel 2011. Anche se in seconda posizione, la Russia era decisamente indietro, registrando un fatturato di vendite pari a 4,8 miliardi.”(20)
Ed ora, qual è l’attività principale della NATO che richiede così tanti armamenti? Non è la difesa contro la Russia, ma l’appoggio degli Stati Uniti nella loro guerra auto-generatrice contro il terrorismo, in Afghanistan come prima in Iraq.
La “guerra contro il terrore” deve essere percepita per quello che è veramente: un pretesto per mantenere un apparato militare statunitense pericolosamente ipertrofico, mediante l’esercizio arbitrario di un potere che si verifica essere sempre più instabile.
In altri termini, gli Stati Uniti sono oggi, e di gran lunga, il primo paese a inondare il mondo di armamenti. I cittadini di questo paese devono imperativamente esigere una nuova valutazione dei fattori aggravanti la loro povertà e la loro insicurezza.
Dobbiamo ricordarci della famosa messa in guardia di Eisenhower nel 1953, secondo cui “ciascun fucile prodotto, ogni nave da guerra dispiegata, ogni razzo sparato significano – nel senso stretto del termine – una rapina perpetrata contro coloro che hanno fame e non possono nutrirsi, nei confronti di coloro che hanno freddo e non possono coprirsi.”(21)
È necessario ricordare che il presidente Kennedy, in un discorso del 10 giugno 1963 pronunciato presso l’Università Americana, aveva delineato una visione di pace che esplicitamente non corrispondeva ad una “Pax Americana imposta al mondo attraverso armi da guerra statunitensi.” (22) Pur effimera, la sua visione era saggia.
Sessant’anni dopo la genesi del sistema di sicurezza degli Stati Uniti – la cosiddetta “Pax Americana” – gli Stati Uniti da soli si sono intrappolati in una situazione di insicurezza psicologica sempre più segnata dalla paranoia.
Le caratteristiche tradizionali della cultura usamericana, come il rispetto per l’Habeas corpus e per il diritto internazionale, sono in procinto di essere cancellate a causa di una presunta minaccia del terrorismo che, però, è in gran parte generata dagli stessi Stati Uniti. E questo fenomeno è osservabile all’interno di questa nazione e al suo esterno.
L’alleanza segreta USA-Arabia
Dei 66,3 miliardi dollari di esportazioni di armi degli Stati Uniti nel 2011, più della metà sono stati destinati all’Arabia Saudita, per un ammontare di 33,4 miliardi di dollari.
Queste vendite includevano dozzine di elicotteri della classe Apache e Black Hawk che, secondo il New York Times, sono necessari all’Arabia Saudita per la sua difesa contro l’Iran. Tuttavia, sono più coerenti con il crescente coinvolgimento di questo paese nelle guerre asimmetriche e aggressive (ad esempio contro la Siria). (23)
Queste vendite di armi all’Arabia Saudita non sono fortuite, ma sono il risultato di un accordo tra i due paesi destinato a compensare l’afflusso di dollari statunitensi utilizzati per pagare il petrolio saudita. Durante gli shock petroliferi del 1971 e del 1973, il presidente Nixon ed Henry Kissinger avevano negoziato un accordo con l’Arabia Saudita e con l’Iran per pagare il greggio a prezzi molto più elevati, ma solo a condizione che questi due paesi riciclassero i loro petrodollari in differenti destinazioni – soprattutto negli acquisti di armamenti statunitensi. (24)
La ricchezza degli Stati Uniti e quella dell’Arabia Saudita sono divenute più interdipendenti che mai, il che suona ironico.
In effetti, riprendendo i termini di un cablogramma diplomatico trapelato, “i donatori Sauditi restano i principali finanziatori di gruppi estremisti come al-Qaeda”. (25)
La “Rabita” (o Lega Musulmana Mondiale), varata e fortemente finanziata dalla famiglia reale saudita, ha fornito una sede per gli incontri internazionali dei Salafiti attivi in tutto il mondo, tra cui alcuni leader di al-Qaeda. (26)
In sintesi, i ricchi profitti generati dalle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita servono a finanziare tanto gli jihadisti apparentati ad al-Qaeda, che operano in tutto il mondo, quanto le guerre autogeneratrici condotte contro costoro da parte delle forze statunitensi.
Ciò si traduce in una crescente militarizzazione all’estero, e all’interno degli Stati Uniti, nella misura in cui si aprono nuovi fronti nella cosiddetta “guerra al terrorismo” in zone un tempo pacifiche come il Mali – e questa tendenza era prevedibile fin dall’inizio!
I media tendono a presentare la “guerra contro il terrorismo” come un conflitto che oppone governi legittimi a dei fondamentalisti islamici, fanatici e ostili alla pace.
In realtà, la maggior parte dei paesi collaborano regolarmente con quelle stesse forze che loro combattono in altre occasioni, e questo avviene da tanto tempo. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non fanno eccezione a questa regola.
Attualmente, la politica estera degli Stati Uniti è sempre più caotica, e ciò viene dimostrato in particolare dalle loro operazioni clandestine.
In alcuni paesi, specialmente nell’Afghanistan, gli Stati Uniti stanno combattendo gli stessi jihadisti che la CIA aveva sostenuto negli anni ’80, e che ancora godono del sostegno di nostri alleati sulla carta, che sono l’Arabia Saudita e il Pakistan.
In altre nazioni, come in Libia, gli Stati Uniti hanno fornito la loro protezione e il loro appoggio indiretto allo stesso tipo di Islamisti. Ci sono anche altri paesi, da sottolineare il Kosovo, in cui gli Stati Uniti hanno aiutato i fondamentalisti nella loro conquista del potere. (27)
Nello Yemen, le autorità statunitensi hanno ammesso che i loro clienti hanno supportato gli jihadisti. Come ha relazionato il professore universitario Christopher Boucek qualche anno fa, parlando presso la Fondazione “Carnegie Endowment of International Peace”,:
“L’estremismo islamista nello Yemen è il risultato di un processo lungo e complesso. Negli anni ‘80, un gran numero di Yemeniti hanno partecipato alla jihad anti-sovietica in Afghanistan. Dopo la fine dell’occupazione sovietica, il governo yemenita ha incoraggiato i suoi cittadini a tornare, e ha anche consentito a stranieri veterani di stabilirsi nello Yemen. La maggior parte di questi Arabi afghani sono stati cooptati dal regime e integrati all’interno delle diverse amministrazioni di sicurezza dello Stato. Questo tipo di cooptazione è stato condotto anche a beneficio di individui detenuti dal governo yemenita dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre.
Dal 1993, in un rapporto di intelligence oggi declassificato, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti aveva osservato che lo Yemen stava diventando un punto di raccolta e una base importante per i tanti combattenti che abbandonavano l’Afghanistan. Inoltre, questo rapporto ribadiva che il governo yemenita era sia reticente che incapace di limitare le loro attività. Nel corso degli anni ‘80 e ‘90, l’islamismo e le attività che ne risultavano furono utilizzati dal regime per reprimere gli oppositori interni. Per giunta, durante la guerra civile del 1994, gli Islamisti hanno combattuto contro le forze del Sud.”(28)
Nel marzo 2011, lo stesso accademico osservava che la guerra degli Stati Uniti contro il terrorismo aveva avuto come risultato quello di sostenere nello Yemen un governo impopolare, contribuendo in tal modo ad evitare l’attuazione delle riforme necessarie:
“Ebbene, per ciò che ci riguarda, credo che la nostra politica nello Yemen si sia esclusivamente focalizzata sul terrorismo – sul terrorismo, sulla sicurezza e su al-Qaeda nella penisola arabica [al-Qaeda nella penisola arabica, AQAP], escludendo quasi tutto il resto. Penso che, nonostante ciò che affermano i dirigenti dell’amministrazione, ci siamo concentrati solo sul terrorismo -. Non abbiamo rivolto la nostra attenzione alle sfide sistemiche che deve affrontare lo Yemen: la disoccupazione, gli abusi nella conduzione di governo, la corruzione. Penso che siano questi i fattori che porteranno al collasso dello Stato. Non certamente AQAP. […] Tutti quanti nello Yemen vedono che stiamo sostenendo questo regime, a spese del popolo yemenita.”(29)
In termini più crudi, la “guerra contro il terrore” degli Stati Uniti è uno dei motivi principali per cui lo Yemen, come altri paesi, rimane un paese sottosviluppato e offre terreno fertile per il terrorismo jihadista.
Ma la politica estera degli Stati Uniti in materia di sicurezza non è la sola a contribuire alla crisi yemenita. Anche l’Arabia Saudita ha un interesse a rafforzare l’influenza jihadista all’interno della Repubblica dello Yemen. Questo si è verificato a partire dagli anni ’60, quando la famiglia reale saudita ha fatto ricorso alle tribù conservatrici e tradizionaliste delle colline del nord dello Yemen per respingere un attacco contro il Sud dell’Arabia Saudita ad opera del governo yemenita, repubblicano e sostenuto da Nasser. (30)
Queste macchinazioni dei vari governi e delle loro agenzie di intelligence sono in grado di creare situazioni di una oscurità impenetrabile.
Per esempio, come ha riportato il senatore John Kerry, uno dei principali leader di al-Qaeda nella penisola arabica (AQAP) “è un cittadino saudita che è stato rimpatriato in Arabia Saudita nel novembre 2007, dopo essere stato imprigionato a Guantanamo, e che ha ripreso le sue attività radicali nello Yemen, dopo aver seguito un percorso di riabilitazione nel suo paese.”(31)
Come altre nazioni, gli Stati Uniti possono essere indotti a stringere accordi con i jihadisti di Al- Qaeda per aiutarli a combattere in settori di reciproco interesse all’estero, come in Bosnia.
La condizione di questa collaborazione è che questi terroristi non dovrebbero rivoltarsi contro di loro.
Questa pratica ha chiaramente contribuito all’attentato dinamitardo del 1993 contro il World Trade Center, quando almeno due dei suoi autori erano stati messi al riparo da qualsiasi arresto.
Costoro erano stati perfino ben protetti dalle autorità statunitensi quando avevano partecipato ad un programma condotto presso il centro “al-Kifah” di Brooklyn, che aveva come obiettivo quello di preparare gli Islamisti alla guerra in Bosnia.
Nel 1994, in Canada, l’FBI ha garantito la liberazione di Ali Mohamed, un agente segreto degli Stati Uniti e di al-Qaeda, operativo nell’ambito del centro “al-Kifah”. Poco dopo, Mohamed si recava in Kenya dove, secondo la relazione della Commissione sull’11 settembre, “dirigeva” gli organizzatori dell’attentato del 1998 contro l’ambasciata degli Stati Uniti a Nairobi. (32)
Il sostegno dell’Arabia Saudita ai terroristi
In questo gioco oscuro, l’attore più importante è probabilmente l’Arabia Saudita. In realtà, questo paese non solo ha esportato jihadisti nei quattro angoli della terra, ma anche li ha finanziati – come abbiamo visto in precedenza – a volte in coordinamento con gli Stati Uniti.
Un articolo sulla fuga di notizie dai dispacci diplomatici statunitensi, pubblicato nel 2010 sul New York Times, ha rivelato, citando uno di questi cablogrammi, che “i donatori Sauditi restano i principali finanziatori dei gruppi estremisti come al-Qaeda”. (33)
Nel 2007, anche il Sunday Times riferiva che “i ricchi Sauditi restano i principali finanziatori delle reti terroristiche internazionali. ‘Se potessi in qualche modo schioccare le dita e troncare i sovvenzionamenti di un paese alle attività terroristiche, prenderei di mira l’Arabia Saudita’, ha affermato Stuart Levey, il funzionario del ministero del Tesoro statunitense incaricato di sorvegliare il finanziamento del terrorismo.”(34)
Secondo Rachel Ehrenfeld, rapporti simili, che tenevano conto di un finanziamento saudita del terrorismo, venivano stilati anche dalle autorità irachene, pakistane e afghane:
“Nel 2009, la polizia pakistana ha riferito che organizzazioni caritatevoli saudite continuano a finanziare al-Qaeda, i Talebani e Lashkar-e-Taiba [Lashkar-e Taiba, letteralmente Esercito del bene, comunemente tradotto come Esercito dei giusti, Esercito dei puri o Esercito di Dio, è una delle più grandi e più attive organizzazioni terroristiche in Asia meridionale].
Secondo questo rapporto, i sauditi hanno fornito 15 milioni di dollari agli jihadisti, anche ai responsabili di attacchi suicidi in Pakistan e della morte di Benazir Bhutto, l’ex primo ministro del Pakistan.
Nel maggio 2010, Buratha News Agency, una fonte giornalistica indipendente con sede in Iraq, ha parlato di ‘un documento dei servizi segreti sauditi fatto trapelare. Questo documento dimostrava un supporto continuo di al-Qaeda in Iraq da parte del governo dell’Arabia Saudita. Questo sostegno consisteva di denaro contante e di armi. […]
Un articolo pubblicato il 31 maggio 2010 dal The Sunday Times di Londra ha rivelato che, secondo il dipartimento finanziario del servizio segreto afghano (FinTRACA), almeno 1,5 miliardi di dollari erano entrati illegalmente dall’Arabia Saudita in Afghanistan, dal 2006. Questo denaro era probabilmente destinato ai Talebani.”(35)
Tuttavia, secondo il Times, il sostegno saudita ad al-Qaeda non si limita al finanziamento:
“Negli ultimi mesi, alcuni predicatori sauditi hanno causato costernazione in Iraq e in Iran dopo avere lanciato delle fatwa che esigevano la distruzione di importanti santuari sciiti a Najaf e a Kerbala, in Iraq – che erano già stati presi di mira da attentati dinamitardi. E mentre membri di spicco della dinastia regnante dei Saud regolarmente esprimono la loro avversione contro il terrorismo, comunque certi funzionari che difendono l’estremismo sono ben tollerati all’interno del regno.
Nel 2004, lo sceicco Saleh al-Luhaidan, l’alto magistrato che vigila sui processi in materia di terrorismo, è stato registrato in una moschea mentre incoraggiava gli uomini sufficientemente giovani a combattere in Iraq. ‘Oggi, penetrare all’interno del suolo iracheno è diventato rischioso’, metteva in guardia. ‘Bisogna evitare questi satelliti malefici e i droni aerei, che tengono sotto controllo ogni centimetro del cielo iracheno. Se qualcuno si sente in grado di entrare in Iraq per unirsi alla lotta, e se la sua intenzione è quella di far trionfare la parola di Dio, allora è libero di farlo.’”(36)
L’esempio del Mali
Oggi, un processo simile è in corso di svolgimento in Africa, dove il fondamentalismo wahhabita saudita “si è diffuso negli ultimi anni in Mali, indirettamente per opera di giovani imam di ritorno dai loro studi religiosi condotti nella Penisola arabica.”(37)
I media internazionali, tra cui Al Jazeera, hanno descritto la distruzione di mausolei storici per opera di jihadisti locali:
“Secondo testimoni, due mausolei di terra rossa della moschea antica e i cimiteri di Djingareyber a Timbuktu, sono stati distrutti dai combattenti di Ansar Dine, un gruppo legato ad al-Qaeda che controlla il nord del Mali. Questo sito, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, è minacciato. […] Questa nuova demolizione si verifica dopo gli attacchi della scorsa settimana contro altri monumenti storici e religiosi di Timbuktu, azioni qualificate come “distruzione insensata” dall’UNESCO.
Ansar Dine ha dichiarato che i mausolei antichi erano “haram”, o vietati dall’Islam.
La moschea di Djingareyber era una delle più importanti a Timbuktu, ed è stata una delle attrazioni principali di questa città leggendaria, prima che la regione diventasse una zona proibita per i turisti. Ansar Dine ha giurato di continuare a distruggere tutti i santuari “senza eccezioni”, incurante dell’ondata di tristezza e di indignazione suscitata sia in Mali che all’estero.”(38)
Tuttavia, gli autori della maggior parte di questi resoconti – compreso quello di Al-Jazeera – non hanno messo mai in evidenza il fatto che la distruzione delle tombe era stata un’antica pratica wahhabita, non solo appoggiata, ma perpetrata dal regno saudita:
“Tra il 1801 e il 1802, sotto il regno di Abdulaziz ben Mohammed ben Saud, i wahhabiti sauditi attaccarono e invasero le città sante di Karbala e Najaf, in Iraq, massacrarono una parte della popolazione musulmana e vi distrussero le tombe di Husayn ibn Ali, del nipote di Maometto e del figlio di Ali (Ali ibn Abi Talib, il genero di Maometto).
Tra il 1803 e il 1804 i Sauditi si impadronirono della Mecca e Medina, dove vi demolirono i monumenti storici, oltre a vari siti e luoghi sacri musulmani – come ad esempio il santuario costruito sulla tomba di Fatima, la figlia di Maometto -. Avevano perfino l’intenzione di demolire la tomba di Maometto stesso, ritenendola manifestazione di idolatria.
Nel 1998, i Sauditi bruciarono e spianarono con i bulldozer la tomba di Amina bint Wahb, la madre di Maometto, provocando indignazione in tutto il mondo musulmano.”(39)
Una opportunità per la pace
Attualmente, dobbiamo compiere una distinzione tra il Regno di Arabia Saudita e il wahhabismo promosso da alti dignitari religiosi sauditi e da alcuni membri della famiglia reale.
In particolare, il re Abdallah ha teso la mano verso altre religioni, visitando il Vaticano nel 2007 e incoraggiando l’organizzazione di una conferenza interreligiosa con esponenti di spicco delle religioni cristiana ed ebraica, che ha avuto luogo l’anno successivo.
Nel 2002, quando era principe ereditario, al vertice delle nazioni della Lega Araba, Abdallah presentava anche una proposta per raggiungere la pace tra Israele e i suoi vicini.
Il suo progetto, sostenuto a più riprese dai governi della Lega Araba, prevedeva la normalizzazione delle relazioni tra tutti i paesi arabi ed Israele in cambio del ritiro totale dai territori occupati (compresa Gerusalemme Est) e di una “soluzione equa” della crisi dei rifugiati palestinesi, in base alla Risoluzione 194 dell’ONU.
Sempre nel 2002, il piano veniva respinto da Ariel Sharon, allora Primo ministro di Israele, e anche da George W. Bush e Dick Cheney, che erano determinati ad entrare in guerra contro l’Iraq.
Tuttavia, come ha osservato David Ottaway del Centro Woodrow Wilson:
“Il piano di pace proposto da Abdallah nel 2002 resta una base affascinante per una possibile cooperazione tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita sulla questione israelo-palestinese.
La proposta di Abdallah è stata sostenuta da tutti i membri della Lega Araba durante il vertice del 2002; il presidente israeliano Shimon Peres e l’allora Primo ministro israeliano Ehud Olmert ne hanno parlato favorevolmente; e Barack Obama, che aveva scelto la rete televisiva saudita al-Arabiya per la sua prima intervista dopo il suo insediamento, elogiava Abdallah per il “grande coraggio” che aveva dimostrato nell’elaborare questa proposta di pace.
Tuttavia, Benjamin Netanyahu, che si presume poter diventare il nuovo Primo ministro israeliano, si è dimostrato decisamente contrario a questo piano saudita, in particolare all’idea che Gerusalemme Est dovrebbe diventare la capitale di uno Stato palestinese.”(40)
Nel 2012, il piano viene congelato, lasciando Israele trasparire la sua volontà per un’azione armata contro l’Iran, ed essendo gli Stati Uniti paralizzati dalla tornata elettorale presidenziale.
Tuttavia, nel 2009 il Presidente israeliano Shimon Peres aveva accolto con favore questa iniziativa, e George Mitchell, quando era inviato speciale del presidente Obama in Medio Oriente, annunciava nello stesso anno che l’amministrazione Obama intendeva “incorporare” questa iniziativa nella sua agenda politica per il Medio Oriente. (41)
Quindi, questi appoggi espressi pubblicamente dimostrano che un accordo di pace in Medio Oriente è teoricamente possibile. Tuttavia, sono ben lontani dal rendere probabile la sua applicazione.
In effetti, qualsiasi accordo di pace richiede una fiducia reciproca, ma è difficile acquisire questa fiducia quando un sentimento di insicurezza circa il futuro della propria nazione ossessiona ciascuna delle parti in causa.
Certi commentatori filo-sionisti come Charles Krauthammer ricordano che, durante i 30 anni precedenti gli accordi di Camp David, “la posizione unanime della Lega Araba” era la distruzione di Israele. (42)
Molti Palestinesi e la maggior parte di Hamas temono che un accordo di pace sarebbe insoddisfacente e che in buona sostanza soffocherebbe le loro aspirazioni per una soluzione equa delle controversie.
In Medio Oriente, il senso di insicurezza è particolarmente diffuso a causa di risentimenti largamente condivisi, provocati da tante ingiustizie alimentate e allargate dal senso di insicurezza.
L’attuale status quo internazionale trova i suoi principali fondamenti nelle ingiustizie. Ma quelle che interessano il Medio Oriente si rivelano – in tutti i loro aspetti – estreme, ancora vive e permanenti.
Dico questo semplicemente per dare un consiglio agli Stati Uniti: bisogna ricordarsi sempre che le questioni della sicurezza e della giustizia non possono essere trattate separatamente. Soprattutto, noi dobbiamo dare prova di compassione. Come Americani, dobbiamo capire che gli Israeliani e i Palestinesi vivono in una condizione prossima ad uno stato di guerra; eppure questi due popoli hanno motivo di temere che un accordo di pace potrebbe spingerli in una situazione ancora peggiore di quella in cui si trovano attualmente. Troppi civili innocenti sono stati uccisi in Medio Oriente. Bisognerebbe che le azioni degli Stati Uniti non aggravassero questo pesante tributo umano.
Questo sentimento di insicurezza, che è il principale ostacolo alla pace, non si limita solo al Medio Oriente. Dopo l’11 settembre, il popolo degli Stati Uniti ha provato le conseguenze dell’angoscia da insicurezza, e questa è la principale ragione che spiega perché questo popolo abbia opposto così poca resistenza alle follie evidenti della “guerra contro il terrore” di Bush, Cheney e anche di Obama.
Coloro che conducono questa guerra promettono di rendere gli Stati Uniti un posto più sicuro. Tuttavia, questa guerra continua ad assicurare la proliferazione di terroristi, che vanno a gonfiare l’elenco dei nemici degli Stati Uniti. Questa guerra continua inoltre a diffondere i conflitti in nuovi campi di battaglia, specialmente in Pakistan e nello Yemen.
Generando nuovi nemici, sembra probabile che la “guerra contro il terrore” non possa allentare la sua virulenza, visto quanto è ora saldamente radicata nella inerzia burocratica.
Di fatto, è molto simile alla “guerra contro la droga”, una politica miope che mantiene un alto livello di costi e che consente immensi ricavi al narcotraffico, che perciò attrae nuovi trafficanti.
Per giunta, la guerra contro il terrorismo amplifica soprattutto l’insicurezza tra i Musulmani, in quanto sono sempre più numerosi coloro che devono affrontare la paura di diventare vittime di attacchi dei droni, nella loro condizione di civili, pur non essendo terroristi jihadisti.
L’insicurezza in Medio Oriente è il principale ostacolo alla pace nella regione. I Palestinesi vivono con la paura quotidiana dell’oppressione da parte dei coloni in Cisgiordania, così come delle rappresaglie messe in atto dallo Stato ebraico. Gli Israeliani vivono nella costante paura dei loro vicini ostili. Le famiglia reale saudita condivide questo terrore.
Così, dopo l’11 settembre e lo scatenarsi della “guerra contro il terrore”, l’insicurezza e l’instabilità si sono simultaneamente amplificate.
L’insicurezza colpisce il Medio Oriente su una scala sempre più vasta. La paura di Israele nei confronti dell’Iran e di Hezbollah trova la sua eco nel terrore iraniano provocato dalle minacce israeliane di attacchi massicci contro gli impianti nucleari dell’Iran.
Inoltre, ex falchi statunitensi come Zbigniew Brzezinski hanno recentemente messo in guardia che un attacco israeliano contro l’Iran potrebbe sfociare in una guerra più lunga di quella che si annuncia – questo conflitto potrebbe diffondersi ad altri paesi. (43)
Secondo me, i cittadini degli Stati Uniti dovrebbero soprattutto temere l’insicurezza generata dagli attacchi con droni condotti dal loro paese. Se non vengono bloccati al più presto, questi attacchi distruttivi possono avere lo stesso risultato degli attacchi nucleari degli Stati Uniti del 1945: ci conducono verso un mondo in cui numerose potenze, non una sola, entrano in possesso di queste armi. E queste potenze potrebbero poi essere indotte ad utilizzarle. In questo caso, alla lunga, potrebbero gli Stati Uniti divenire il nuovo obiettivo più probabile.
Mi chiedo, quanto tempo occorrerà ai cittadini di questo paese per capire il corso prevedibile di questa guerra auto-generatrice? e per mobilitarsi contro di essa con la creazione di una forza prevalente?
Che fare?
Utilizzando le analogie con gli errori della Gran Bretagna alla fine del XIX secolo, questo articolo ha sostenuto un graduale ritorno verso un ordine internazionale più stabile e più giusto attraverso una serie di passaggi concreti:
1) Una riduzione progressiva degli enormi bilanci della difesa e dei servizi di intelligence. Questa riduzione andrebbe quindi ad aggiungersi a quella attualmente prevista per ragioni finanziarie, e dovrebbe essere di più ampie dimensioni.
2) Una graduale abolizione degli aspetti violenti della cosiddetta “guerra al terrorismo”, pur conservando i mezzi e i metodi tradizionali di polizia per contrastare fenomeni di terrorismo.
3) La recente intensificazione del militarismo degli Stati Uniti può essere attribuita in gran parte alla “stato di emergenza” decretato il 14 settembre 2001, e rinnovato anno dopo anno da tutti i presidenti degli Stati Uniti che si sono succeduti. Questo stato di emergenza deve essere interrotto immediatamente, e con questo anche le cosiddette misure di “continuità di governo” (COG, Continuity of Government) ad esso associate devono essere ridiscusse. Queste includono la sorveglianza e le detenzioni senza mandato, e la militarizzazione della sicurezza interna negli Stati Uniti. (44)
4) Un ritorno alle strategie che dipendono essenzialmente dai servizi civili di polizia e di controllo per affrontare il problema del terrorismo.
Quarant’anni fa, avrei fatto appello al Congresso perché si adottassero le misure necessarie per rimuovere lo stato di paranoia in cui viviamo attualmente. Oggi, sono arrivato a pensare che questa istituzione è a sua volta dominata dai circoli del potere che beneficiano di quello che ho battezzato come la “Macchina da guerra globale” degli Stati Uniti.
In questo paese, i sedicenti “uomini di Stato” sono coinvolti nel mantenimento della supremazia della loro nazione, tanto quanto lo sono stati i loro predecessori britannici.
Tuttavia, rammentare questo non comporta il disperare sulla capacità che hanno gli Stati Uniti di cambiare direzione. Dovremmo tenere sempre a mente che, quarant’anni fa, le proteste politiche nel paese hanno svolto un ruolo determinante nel fermare una guerra ingiustificata contro il Vietnam.
È vero che nel 2003, manifestazioni del tutto consimili – che hanno coinvolto un milione di persone negli Stati Uniti – non sono state sufficienti per impedire l’ingresso del loro paese in una guerra illegale contro l’Iraq.
Comunque, il gran numero di manifestanti, riunitisi in un periodo relativamente breve, è stato impressionante. Il problema oggi è di sapere se quegli attivisti possono adattare le loro tattiche alle nuove realtà, allo scopo di sollevare campagne di protesta durature ed efficaci.
Per quarant’anni, con il pretesto della pianificazione della Continuità di governo (COG), la “Macchina da guerra” statunitense si è preparata a neutralizzare le proteste urbane contro la guerra.
Assumendo consapevolezza di questo processo, e sfruttando l’esempio delle follie dell’iper-militarismo britannico, i movimenti attuali contro la guerra devono imparare ad esercitare pressioni coordinate all’interno delle istituzioni degli Stati Uniti – non solo “occupando” le strade con l’aiuto dei senzatetto -. Non basta denunciare il crescente divario di reddito tra ricchi e poveri, come faceva Winston Churchill nel 1908.
Noi dobbiamo andare oltre, per capire le origini di queste disuguaglianze procurate da accordi istituzionali che possono necessariamente venire corretti – benché le istituzioni siano disfunzionali -. E una delle principali disposizioni che devono essere messe in discussione qui è la cosiddetta “guerra contro il terrore”.
È impossibile prevedere il successo di tale movimento. Ma io credo che gli sviluppi mondiali convinceranno un numero crescente di cittadini degli Stati Uniti, come tutto questo sia necessario. Si deve saper mettere insieme un largo ventaglio di elettorato, dai lettori progressisti di “ZNet” e di “Democracy Now” ai sostenitori libertari di Murray Rothbard e Ron Paul.
E credo anche che una minoranza contro la guerra, ben coordinata e non violenta, può spuntarla. Dovrebbe raggruppare fra i due e i cinque milioni di persone, basandosi la loro azione sulle risorse di verità e di buon senso. Oggi, le più “accreditate” istituzioni politiche degli Stati Uniti sono per nulla funzionanti e del tutto impopolari. In particolare, il Congresso ha un indice di gradimento che si aggira intorno al 10%.
La resistenza feroce del mondo delle ricchezze personali e dell’imprenditorialità nell’incontrare riforme ragionevoli è un problema ancora più serio; infatti i più ricchi mostrano apertamente la loro influenza antidemocratica, tanto più quando si rende evidente la necessità di limitare i loro abusi e privilegi. Recentemente, hanno preso di mira alcuni membri del Congresso per escluderli da questa istituzione, questi ultimi essendosi resi “colpevoli” di essersi compromessi nella risoluzione di problemi di governo della cosa pubblica.
In questo paese, esiste certamente una maggioranza di cittadini pronta per essere mobilitata, in grado di impegnarsi nella difesa del bene comune.
Assolutamente saranno necessarie nuove strategie e nuove tecniche di protesta.
Lo scopo di questo articolo non è quello di definirle. Tuttavia, si prevede che le manifestazioni future – o cyber-manifestazioni – utilizzeranno in modo più abile e funzionale Internet.
Anche in questo caso, nessuno può predire con fiducia la vittoria in questa lotta per il bene comune contro gli interessi particolari e gli ideologi ignoranti.
Ma con il crescere del pericolo di un conflitto catastrofico internazionale, la necessità di mobilitarsi per difendere l’interesse generale è sempre più evidente. Lo studio della Storia è uno dei mezzi migliori per evitare il suo ripetersi.
Queste speranze di vedere emergere un movimento di protesta sono irrealistiche? Molto probabilmente. Ma, in ogni caso, sono convinto che questo movimento sia necessario!
Peter Dale Scott
Fonte : Dedefensa.org
Note
(1) Oliver Villar e Drew Cottle, “Cocaine, Death Squads, and the War on Terror : U.S. Imperialism and Class Struggle in Colombia – Cocaina, Squadroni della morte e la guerra contro il terrore: imperialismo USA e lotta di classe in Colombia) (Monthly Review Press, New York, 2011) ;
Peter Watt e Roberto Zepeda, “Drug War Mexico : Politics, Neoliberalism and Violence in the New Narcoeconomy – Guerra alla droga in Messico: politica, neoliberismo e violenza nella New Narcoeconomy (Zed Books, Londra, 2012) ;
Mark Karlin, “How the Militarized War on Drugs in Latin America Benefits Transnational Corporations and Undermines Democracy – Come la guerra militarizzata contro la droga nell’America Latina favorisce le corporation transnazionali e mina la democrazia ”, (Truthout, 5 agosto 2012).
(2) Peter Dale Scott, “La Machine de guerre américaine : la Politique profonde, la CIA, la drogue, l’Afghanistan…” (Éditions Demi-Lune, Plogastel Saint-Germain, 2012), pp.317-41.
(3) Patrick Cockburn, “Opium : Iraq’s deadly new export – Oppio: implacabilmente, nuove esportazioni dall’Iraq” , Independent (Londra), 23 maggio 2007.
(4) Scott, “La Machine de guerre américaine”, pp.204-12.
(5) Vedere Mark Karlin, “How the Militarized War on Drugs in Latin America Benefits Transnational Corporations and Undermines Democracy – Come la guerra militarizzata contro la droga nell’America Latina favorisce le corporation transnazionali e mina la democrazia”, (Truthout, 5 agosto 2012).
(6) Sekhara Bandyopadhyaya, “From Plassey to Partition : A History of Modern India – Dalla battaglia di Plassey alla Spartizione: storia dell’India moderna” (Orient Longman, New Delhi, 2004), p.231.
(7) Kevin Phillips, “Wealth and Democracy : A Political History of the American Rich – Opulenza e democrazia: una storia politica della ricchezza americana” (Broadway Books, New York, 2002), p.185.
(8) “I semi della rovina imperiale e del declino nazionale – il divario abnorme tra ricchi e poveri […] la crescita esplosiva di un lusso volgare e decadente – sono i nemici della Gran Bretagna.” (Winston Churchill, citazione da Phillips, “Wealth and Democracy”, p.171).
(9) John A. Hobson, “Imperialism” (Allen and Unwin, Londra, 1902 ; ristampa del 1948), p.6.
A quel tempo, il principale impatto di questo libro in Gran Bretagna fu di bloccare definitivamente la carriere di economista di John A. Hobson.
(10) Hobson, “Imperialism”, p.12. Cf. Arthur M. Eckstein, “Is There a ‘Hobson–Lenin Thesis’ on Late Nineteenth-Century Colonial Expansion ? – Esiste una ‘tesi Hobson-Lenin’ sull’espansione coloniale della fine del XIX secolo?”, Economic History Review, maggio 1991, pp.297-318 ; vedere in particolare pp.298-300.
(11) Peter Dale Scott, “The Doomsday Project, Deep Events, and the Shrinking of American Democracy – Il progetto Doomsday, eventi nascosti e restringimento di spazi di democrazia negli Stati Uniti”; (Asia-Pacific Journal : Japan Focus, 21 gennaio 2011).
(12) Vedere Ralph Raico, “Introduction, Great Wars and Great Leaders : A Libertarian Rebuttal – Introduzione, Grandi Guerre e grandi leader: un rifiuto libertario.” (Mises Institute, Auburn, AL, 2010).
(13) Carroll Quigley, “Tragedy and Hope : A History of the World in Our Time – Tragedia e speranza: una storia del mondo nel nostro tempo” (G,S,G, & Associates, 1975) ;
Carroll Quigley, “The Anglo-American Establishment – Le classi dirigenti anglo-americane”(GSG Associates publishers, 1981). Discussione in Laurence H. Shoup e William Minter, “Imperial Brain Trust : The Council on Foreign Relations & United States Foreign Policy – La concentrazione imperiale di cervelli: il Consiglio per le relazioni con l’estero & la politica estera degli Stati Uniti” (Monthly Review Press, New York, 1977), pp.12-14 ;
Michael Parenti, “Contrary Notions : The Michael Parenti Reader” (City Lights Publishers, San Francisco, CA, 2007), p.332.
(14) A proposito degli interessi esteri – poco sottolineati dagli osservatori – delle compagnie petrolifere nei campi petroliferi della Cambogia, vedere Peter Dale Scott, “The War Conspiracy : JFK, 9/11, and the Deep Politics of War – Complotti di guerra: JFK, 9/11, e le politiche nascoste di guerra (Mary Ferrell Foundation, Ipswich, MA, 2008), pp.216-37.
(15) Thomas Pakenham, “Scramble for Africa : The White Man’s Conquest of the Dark Continent from 1876-1912 – La contesa per l’Africa: la conquista del Continente Nero da parte dell’uomo bianco dal 1876 al 1912” (Random House, New York, 1991).
(16) Consultare le diverse opere di Barbara Tuchman, in modo particolare “The March of Folly : From Troy to Vietnam – La marcia della follia: da Troia al Vietnam” (Knopf, New York, 1984).
(17) Pakenham, ibidem.
(18) E. Oncken, “Panzersprung nach Agadir. Die deutsche Politik während der zweiten Marokkokrise 1911 – La corazzata Panther verso Agadir. La politica tedesca durante la seconda crisi marocchina del 1911” (Dusseldorf, 1981). In tedesco, l’espressione Panzersprung è divenuta una metafora per qualsiasi esibizione gratuita della diplomazia delle cannoniere.
(19) Thom Shanker, “Global Arms Sales Dropped Sharply in 2010, Study Finds – Nel 2010 le vendite di armi nel mondo sono schizzate alle stelle, risultati di ricerche”, New York Times, 23 settembre 2011.
(20) Thom Shanker, “U.S. Arms Sales Make Up Most of Global Market – Le vendite di armi da parte degli Stati Uniti rappresentano la maggior parte del commercio mondiale”, New York Times, 27 agosto 2012.
(21) Stephen Ambrose, “Eisenhower : Soldier and President” (Simon and Schuster, New York, 1990), p.325.
(22) Robert Dallek, “An unfinished life : John F. Kennedy, 1917-1963 – Un’esistenza incompiuta: John F. Kennedy, 1917-1963” (Little, Brown and Co., Boston, 2003.), p.50.
(23) Thom Shanker, “U.S. Arms Sales Make Up Most of Global Market”, New York Times, 27 agosto 2012.
(24) Peter Dale Scott, “La Route vers le Nouveau Désordre Mondial : 50 ans d’ambitions secrètes des Etats-Unis, – La strada verso il Nuovo Disordine Mondiale: 50 anni di segrete ambizioni degli Stati Uniti” (Éditions Demi-Lune, Paris, 2010), pp.66-72.
(25) Scott Shane e Andrew W. Lehren, “Leaked Cables Offer Raw Look at U.S. Diplomacy – I cablogrammi trapelati offrono uno sguardo crudo sulla diplomazia degli Stati Uniti”, New York Times, 29 novembre 2010. Cf. Nick Fielding e Sarah Baxter, “Saudi Arabia is hub of world terror : The desert kingdom supplies the cash and the killers – L’Arabia Saudita è il centro del terrore mondiale: il regno nel deserto fornisce il denaro e gli assassini ”, Sunday Times (Londres), 4 novembre 2007.
(26) Le Nazioni Unite hanno registrato le antenne dell’International Islamic Relief Organization (l’IIRO, Organizzazione di Soccorso Islamico Internazionale, una filiale della Rabita, Lega Musulmana Mondiale) in Indonesia e nelle Filippine come proprietà di al-Qaïda o in collaborazione con al-Qaïda.
(27) Vedere Peter Dale Scott, “La Bosnie, le Kosovo et à présent la Libye : les coûts humains de la collusion perpétuelle entre Washington et les terroristes – La Bosnia, il Kosovo e ora la Libia: i costi umani della collusione perpetua tra Washington e i terroristi ”, Mondialisation.ca, 17 ottobre 2011 ; vedere anche William Blum, “The United States and Its Comrade-in-Arms, Al Qaeda – Gli Stati Uniti e il loro compagno d’armi, Al Qaeda”, Counterpunch, 13 agosto 2012.
(28) Christopher Boucek, “Yemen: Avoiding a Downward Spiral – Yemen: evitare una spirale verso il basso”, Carnegie Endowment for International Peace, p.12.
(29) “In Yemen, ‘Too Many Guns and Too Many Grievances’ as President Clings to Power – Nello Yemen, ‘Troppe armi e troppe ingiustizie’ così il Presidente si aggrappa al potere”, PBS Newshour, 21 marzo 2011.
(30) Robert Lacey, “The Kingdom : Arabia and the House of Sa’ud – Il Regno: l’Arabia e la Casa di Sa’ud” (Avon, New York, 1981), pp.346-47, p.361.
(31) John Kerry, “Al Qaeda in Yemen and Somalia : A Ticking Time Bomb : a Report to the Committee on Foreign Relations – Al Qaeda nello Yemen e in Somalia: una bomba ad orologeria; una relazione al Comitato per le Relazioni Estere ” (U.S. G.P.O., Washington, 2010), p.10.
(32) Scott, “La Route vers le Nouveau Désordre Mondial”, pp.214-20.
(33) Scott Shane e Andrew W. Lehren, “Leaked Cables Offer Raw Look at U.S. Diplomacy”, New York Times, 29 novembre 2010.
(34) Nick Fielding e Sarah Baxter, “Saudi Arabia is hub of world terror : The desert kingdom supplies the cash and the killers”, Sunday Times (Londres), 4 novembre 2007 : “Estremisti religiosi inviano una moltitudine di reclutati in alcuni dei luoghi più violenti al mondo. Una analisi della NBC News suggerisce che i Sauditi rappresentano il 55% dei combattenti stranieri in Iraq. I Sauditi si ritrovano anche tra gli elementi intransigenti nel loro attivismo.”
(35) Rachel Ehrenfeld, “Al-Qaeda’s Source of Funding from Drugs and Extortion Little Affected by bin Laden’s Death – Le fonti del finanziamento di Al-Qaeda dalla droga e dalle estorsioni poco influenzate dalla morte di Bin Laden”, Cutting Edge, 9 maggio 2011.
(36) Sunday Times (Londra), 4 novembre 2007.
(37) BBC, 17 luglio 2012.
(38) Al-Jazira, 19 luglio 2012.
(39) The Weekly Standard, 30 maggio 2005. Cf. Newsweek, 30 maggio 2005. Estratto da Hilmi Isik, “Advice for the Muslim – Avviso all’Islam” (Hakikat Kitabevi, Istanbul)
(40) David Ottaway, “The King and Us : U.S.-Saudi Relations in the Wake of 9/11 – Il Re e gli Stati Uniti: le relazioni fra Stati Uniti e regno saudita sulla scia dell’11settembre”, Foreign Affairs, maggio-giugno 2009.
(41) Barak Ravid, “U.S. Envoy : Arab Peace Initiative Will Be Part of Obama Policy – Un diplomatico degli USA: l’iniziativa di pace araba sarà parte della politica di Obama”, Haaretz, 5 aprile 2009.
David Ottaway, “The King and Us : U.S.-Saudi Relations in the Wake of 9/11”, Foreign Affairs, maggio-giugno 2009.
(42) Charles Krauthammer, “At Last, Zion : Israel and the Fate of the Jews – Alla fine, Sion: Israele e il destino degli Ebrei”, Weekly Standard, 11 maggio 1998.
(43) “Noi non abbiamo proprio idea di come finirebbe questa guerra”, dichiara Brzezinski. “L’Iran è dotata di mezzi militari e potrebbe contrattaccare destabilizzando l’Iraq” (Salon, 14 marzo 2012).
(44) Vedere Scott, “La Route vers le Nouveau Désordre Mondial – La strada verso il Nuovo Disordine Mondiale” pp.257-331 ;
Peter Dale Scott, “La continuité du gouvernement étasunien : L’état d’urgence supplante-t-il la Constitution? – La continuità del governo degli Stati Uniti: lo stato di emergenza che soppianta la Costituzione?”, Mondialisation.ca, 6 dicembre 2010.
* Peter Dale Scott (nato il 11 gennaio 1929 in Canada) è un ex professore di inglese presso Berkeley, l’Università della California, ex diplomatico e poeta.
Oppositore nei confronti della politica estera americana fin dai tempi della guerra del Vietnam, Scott ha sottoscritto nel 1968 il manifesto della “Protesta degli Scrittori ed Editori contro le imposte destinate alla guerra”, con cui i partecipanti si impegnavano a non versare i pagamenti fiscali in segno di protesta contro la guerra del Vietnam.
Ha trascorso quattro anni (1957-1961) nel servizio diplomatico canadese. Si è ritirato dall’insegnamento alla facoltà di Berkeley nel 1994.
Il suo libro, “The Road to 9/11” (2007), si occupa del contesto geo-politico degli avvenimenti che hanno portato all’11 settembre, e descrive “come la politica estera degli Stati Uniti dagli anni ’60 ha provocato parziali o totali insabbiamenti di precedenti atti criminali all’interno del paese, tra cui, forse, la catastrofe del 9/11”.
Sul libro di Scott, “American War Machine: Deep Politics, the CIA Global Drug Connection, and the Road to Afghanistan – La macchina da guerra statunitense: Politiche sotterranee, le connessioni della CIA con il traffico delle droghe nel mondo, e la marcia verso l’Afghanistan” (2010) Daniel Ellsberg così si è espresso: “Ho già parlato sulle brillanti analisi di recente prodotte da Scott su questi argomenti, droghe, petrolio e guerra, che rendono la lettura della maggior parte delle interpretazioni accademiche e giornalistiche sugli interventi del passato e attuali degli Stati Uniti nient’altro che propaganda governativa scritta per i bambini. Ora Scott ha scritto un libro ancora migliore […]”
http://www.michelcollon.info/Les-guerres-auto-generatrices-des.html?lang=fr#top
(traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
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