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Ha perso il nostro europeismo

 A mio avviso un partito politico, comunque lo si voglia intendere, è davvero un partito serio se sa rispondere non soltanto ai problemi generali di una fase storica (e noi abbiamo ragione da vendere a dire che oggi una prospettiva socialista è più fondata di quanto non lo fosse dieci anni fa…), ma anche alla forma concreta e particolare che questi problemi assumono in un determinato paese o insieme di paesi. Per l’Italia, oggi, il problema della crisi del capitalismo e delle possibili alternative si presenta come problema del rapporto con l’Euro e con l’Europa, e può essere risolto solo accumulando le forze per un’uscita (netta o processuale) dall’Euro e per una ridefinizione dell’Europa come soggetto confederale, politico prima che economico, capace di svolgere una funzione di sviluppo e di mediazione nel contesto dell’inevitabile conflitto multipolare. Non ho modo qui di precisare questa tesi: mi limito a rimandare a quanto scrivono, pur se da diverse prospettive, Emiliano Brancaccio, Bruno Amoroso, Alberto Bagnai ed altri. E a quanto dicono anche molti nostri compagni che, come Bruno Steri o Alfonso Gianni, descrivono con precisione ed acume i limiti strutturali dell’Unione europea, salvo poi ritrarsi di fronte alle conseguenze della loro stessa analisi. E le conseguenze sono che, essendo l’Euro un meccanismo che aumenta le diseguaglianze tra classi e tra territori, e non essendo l’Unione una struttura di ricomposizione politica di quelle diseguaglianze, l’unica strada per costruire – in futuro – la famosa “Europa sociale” è quella di farla finita nel presente con l’Euro, anche se questo comporta inizialmente una rischiosa frattura: l’alternativa, infatti, non sarebbe il rischio, ma la certezza del declino irrecuperabile del paese.
Una forza politica degna di questo nome, una forza comunista degna di questo nome, deve quindi rispondere a questo problema: come trasformare la fine dell’Euro nell’inizio di una nuova epoca della società e dell’economia italiana, basata sulla proprietà pubblica, sul controllo civico, sul protagonismo dei lavoratori, e su una autonoma politica estera del paese? Come evitare la gestione di destra dell’uscita dall’Euro, ossia l’accentuazione della dipendenza dagli Usa e l’utilizzo della svalutazione per riprodurre il vecchio modello economico e per impoverire ulteriormente il lavoro? Né Rifondazione Comunista, né tantomeno Rivoluzione Civile si sono poste questo problema, e per quanto possa suonare strano in una discussione che verte (troppo) sugli errori della campagna elettorale e sulle immediate soluzioni politico-organizzative, proprio qui stanno i motivi fondamentali del nostro isolamento dalla società italiana e della ennesima sconfitta: le elezioni sono state infatti perse dagli europeisti, e quindi anche da noi.
Se ci si pensa bene la sinistra radicale perde proprio perché si presenta come tale, ossia come ala estrema di un area che va dal PD alle associazioni civili, passando dai sindacati maggioritari. Nonostante la dura rottura col PD, sancita dalla fine del secondo governo Prodi, noi abbiamo continuato a situarci nello stesso spazio internazionale (l’Europa) e nella stessa base di massa (il movimento sindacale) del PD, tentando di forzare a sinistra sia l’Unione che i comportamenti dei lavoratori organizzati. Ma l’Unione europea non ha nessuna intenzione di trasformarsi nell’ “Europa sociale”, né si vedono movimenti continentali capaci di imporglielo in tempi ragionevoli. Semmai, fioriscono movimenti antieuropeisti che, per quanto spuri e pericolosi, sanno cogliere la “verità” dell’Europa molto meglio del nostro europeismo ideale: e ci dicono con chiarezza che voler occupare il lato sinistro di uno spazio che si muove naturalmente a destra è un assurdo logico prima che un errore politico. Quanto ai lavoratori organizzati, se è vero che questi, quando sono rivoluzionari, sono “la sola classe rivoluzionaria fino in fondo”, è purtroppo anche vero che, normalmente, essi sono moderatamente progressisti, quando non addirittura conservatori o reazionari. Nel nostro paese, almeno a far data dai primi anni ’90, i lavoratori organizzati agiscono di fatto – nonostante alcuni sussulti – come classe di sostegno del capitalismo europeista: anche per questo, se in condizioni normali si concedono a volte il lusso di optare per la posizione radicale, in condizioni di crisi, ed almeno fino al precipitare rovinoso di quest’ultima, si compattano naturalmente (a differenza di quello che amiamo sperare) attorno all’organizzazione più grande e apparentemente più sicura. E se proprio la rabbia li spinge fuori dal recinto, li fa muovere, insieme ai lavoratori precari ed individualizzati, non verso l’ala estrema del loro abituale schieramento, ma verso quella più lontana. O PD o Grillo, insomma. Noi siamo rimasti in mezzo: troppo radicali per gli euro-fedeli, troppo moderati per gli anti-euro, né carne né pesce. La fretta, l’indeterminatezza della campagna elettorale, le continue oscillazioni nei confronti del PD, il carattere spesso raffazzonato delle liste hanno fatto il resto: ma il più era già stato fatto, e da tempo.
Possiamo recuperare? Forse sì. Nulla è definito, tutto è in movimento, e chi oggi sta con Bersani o con Grillo, domani potrebbe avere amare sorprese. Inoltre nessuno, ma proprio nessuno, sa individuare le soluzioni necessarie al paese come lo si può fare dalla nostra prospettiva: espropriare i privatizzatori, nazionalizzare i grandi gruppi, creare posti di lavoro qualificati attraverso l’intervento pubblico, fondare l’innovazione sulla democrazia industriale, rifondare la democrazia sul controllo civico dell’economia e della politica son cose che possiamo argomentare e proporre solo noi, son cose che mostrano come un’ipotesi di transizione socialista non scaturisca da una vecchia ideologia ma dalle esigenze oggettive del nostro sistema sociale e produttivo. Son cose che, tradotte in un linguaggio accessibile, mutuato dal discorso quotidiano (sicurezza, lavoro subito, dignità del lavoro, dignità del paese, cacciamo la vera casta…), possono soddisfare anche quel bisogno di vero radicalismo che negli ultimi anni abbiamo deluso e che sarà il protagonista della nuova stagione della politica italiana.
Possono farlo a condizione di essere dette fuori dagli spazi in cui ci siamo mossi in questi ultimi anni. Fuori dall’europeismo, appunto – ma anche fuori dall’antieuropeismo “ipotetico” di chi, come Grillo e Berlusconi, dice e non dice, minaccia e ritratta e si prepara così ad una gestione irresponsabile dell’ exit strategy. Fuori dal patto col Centro-sinistra, lavorando piuttosto ad una rottura del PD. Fuori dalla relazione esclusiva coi sindacati maggioritari, valorizzando il sindacalismo di base e soprattutto intercettando i lavoratori nei loro momenti di mobilitazione autonoma, come lavoratori e come cittadini. Fuori dall’idea che il pur decisivo rapporto con la società civile risolva in sé il problema del rapporto col “popolo”. E fuori dall’equivoco per cui ogni pur giusta coalizione deve tradursi in un annacquamento delle nostre più efficaci idee, che sono – sarà un caso? – proprio quelle che derivano da una rielaborazione della nostra migliore tradizione.
Forse, in fondo, si tratta solo di diventare comunisti.

*PRC

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