Menu

Ann Jones: “La guerra contro le donne”

Washington, 29 mar. (TMNews) – Le guerre in Iraq e Afghanistan costeranno agli Stati Uniti tra i 4mila e i 6mila miliardi di dollari a lungo termine, secondo uno studio della Harvard University condotto da Linda Bilmes, che ha preso in considerazione, fra l’altro, i costi per l’assistenza sanitaria e previdenziale dei 2,5 milioni di veterani, così come la restituzione dei debiti contratti per le spese di guerra.

Le conseguenze delle spese di questo periodo di guerra costringeranno gli Stati Uniti a ridurre futuri investimenti in personale e diplomazia, ricerca, sviluppo e nuove iniziative militari”, si legge nello studio. “In breve, non ci saranno dividendi di pace e l’eredità delle guerre irachena e afgana si farà sentire per decenni”.

Soprattutto, la spesa militare limiterà decisamente la spesa per lo stato sociale, e questo è un paradigma che è valido per qualsiasi Stato. La riduzione delle spese per l’istruzione pubblica, la sanità, la previdenza sociale, diventa matrice di disagio sociale, e il disagio sociale genera violenza.

I frustrati e i delusi sfogano la loro rabbia sugli elementi più deboli, le donne, i bambini, i vecchi.

E la violenza domestica, quindi, diventa riflesso della violenza esercitata dagli Stati su altre società attraverso guerre illegali, embarghi, sanzioni, torture, distruzioni.

Ecco che il fenomeno del “femminicidio” si accentua proprio nell’ambito di quegli Stati che esercitano la violenza contro altri Stati andando in senso contrario al diritto internazionale.

Questo articolo di Ann Jones mette in piena luce questo rapporto fra violenza domestica e violenza indebita contro paesi ritenuti nemici.

Curzio Bettio

Introduzione

Di recente, i telegiornali americani hanno insolitamente dedicato un sacco di tempo a storie africane. O meglio, ad una storia africana in particolare.

Nulla sull’intervento francese in Mali. Nemmeno sulle elezioni in Kenya. Non parliamo della crisi alimentare in Lesotho. (Sì, c’è una crisi alimentare in Lesotho!)

Invece, l’attenzione si è concentrata sulla tragica morte di una modella bianca sudafricana per mano del suo fidanzato bianco, uno sprinter paraolimpionico.

Variano i resoconti dell’uccisione, ma ciò che nessuno contesta è che, il 14 febbraio 2013, Oscar “Blade Runner” Pistorius ha sparato a Reeva Steenkamp, mentre lei stava nel box doccia della stanza da bagno nella sua casa.

In un servizio speciale in prima pagina, il New York Times ha riferito che il giorno prima della morte della Steenkamp, lei si stava preparando per pronunciare un discorso “su un argomento che aveva conosciuto in prima persona, e che è endemico in Sudafrica: la violenza contro le donne”.

L’articolo, però, proseguiva concentrandosi principalmente su quello che il Times definiva il “comportamento più sgradevole di Mr. Pistorius” nel corso degli anni, e non sul fatto che il Sud Africa è tra i paesi del pianeta più letali nei confronti delle donne.

Il Sud Africa presenta “10 femminicidi su una popolazione femminile di 100.000 donne”, secondo un rapporto del 2011 “Global Burden of Armed Violence – Portata globale della violenza armata”, redatto dall’organizzazione con sede in Svizzera “Dichiarazione di Ginevra sulla violenza armata e lo sviluppo”.

Il Sud Africa, naturalmente, non ha il monopolio della violenza contro le donne in quel continente. Per esempio, un recente documento di lavoro dello “Small Arms Survey – Indagine sulle armi leggere”, “Percosse, stupro, violenza letale: una raccolta fondamentale di informazioni sulle minacce fisiche contro le donne a Nairobi”, ha rilevato che quasi “la metà delle donne del Kenya hanno sperimentato violenze fisiche o sessuali”.

Il documento aggiunge che “atti estremi di violenza, persino fatali – in particolare, rivolti contro donne povere – sono comuni, tanto da essere considerati insignificanti, un non-problema per i media, la classe politica, la polizia, e, per estensione, per le istituzioni statali del Kenya.”

E la situazione è similarmente opprimente in gran parte del resto del mondo.

Secondo il rapporto “Global Burden of Armed Violence”, “circa 66 mila donne vengono violentemente ammazzate in tutto il mondo ogni anno, pari a circa il 17% di tutti gli omicidi intenzionali”.

Questa analisi dei dati provenienti da 111 paesi e territori rivela che è nell’ambito delle pareti domestiche dove la violenza viene esercitata e che “colui che la perpetra è il partner attuale o l’ex, in poco meno della metà dei casi”.

Inoltre, i risultati suggeriscono che la violenza contro le donne, forse non a caso, nell’insieme è coerente con le percentuali di violenza nella società, dal momento che “i paesi caratterizzati da elevati tassi di omicidio nella popolazione maschile in genere registrano anche alti tassi di femminicidi”.

Il rapporto rileva anche che “una su dieci di tutte le morti violente segnalate in tutto il mondo si verifica nei cosiddetti scenari di conflitto o durante attività terroristiche”.

Allora, che dire del paese che genera così tanti scenari di conflitto? E che dire degli uomini del suo fronte interno?

Ann Jones, che collabora regolarmente con Tomdispatch.com, una rete antidoto contro la disinformazione dei mass media, riprende queste e altre importanti domande nel suo ultimo stimolante documento sulla violenza, sia nelle zone di guerra che ci vedono impegnati, che in casa nostra. E lei è una donna in grado di farlo!

Negli ultimi decenni, la Jones è stata in prima linea su entrambi i fronti – relazionando sulle violenze e gli abusi contro donne e bambini, dagli Stati Uniti al Congo, e raccontando la guerra marcescente degli Stati Uniti in Afghanistan, dedicando i suoi articoli alle azioni delle truppe usamericane sul confine afgano / pakistano.

Nel mentre gli Stati Uniti sono impegnati in conflitti semi-segreti nelle terre selvagge dello Yemen e del Pakistan, la Jones mette in luce un’altra guerra segreta, occultata pur essendo in piena luce. Chiamatela come volete – “tortura sulle mogli” o “violenza domestica” o “guerra contro le donne” – Jones solleva domande scomode, che voi molto probabilmente non sentirete mai durante i notiziari della sera, non importa quanta copertura sia riservata ad Oscar Pistorius.

Nick Turse

Uomini che buttano giù a calci le porte

Tiranni a casa e fuori di casa

di Ann Jones

Immaginate questo. Un uomo, con una corazza di tatuaggi, irrompe in un soggiorno non di casa sua. Egli affronta un nemico. Abbaia ordini. Scaglia quel nemico contro una sedia. Quindi contro una parete. Egli si pianta nel centro della stanza, a gambe larghe, pugni serrati, muscoli tesi, volto contorto in un urlo di rabbia. I tendini del collo sono tirati, data l’intensità della sua terrificante performance. Egli insegue il nemico nella stanza successiva, fermando la sua fuga con una presa rapida e spinte, bloccando il corpo del nemico, costringendolo, ripiegato, contro un contatore. Urla più ordini: il suo nemico può andare con lui in cantina per un “colloquio privato”, o essere picchiato a sangue immediatamente. Poi avvolge le sue dita intorno al collo del suo nemico e comincia a strozzarlo.

No, l’invasore non è un soldato usamericano che conduce un raid notturno contro un villaggio afgano, e nemmeno il nemico è un membro di un’anonima famiglia afgana.

Questo guerriero combattente è solo un grottesco individuo di nome Shane, dell’Ohio. Egli sta facendo quello che tanti uomini trovano esaltante: mettere all’ordine la sua ragazza con una pesante dose di violenza, che noi facciamo risultare come innocua, definendola “domestica”.

È facile riuscire a capire da pochi fatti fondamentali che Shane è un predatore specialista.

Perché altrimenti un uomo di 31 anni dovrebbe prestare tanta generosa attenzione ad una diciannovenne carina con due bambini (di quattro e due anni, la seconda una piccolina altrettanto graziosa e potenzialmente designata come bersaglio)?

E costui poteva trovare una ragazza più vulnerabile di questa Maggie: una donna giovane, ancora un’adolescente, trascurata, che per due anni aveva dovuto allevare i suoi figli da sola, mentre il marito, ormai ex, era combattente nella guerra in Afghanistan? Questa guerra aveva mandato in pezzi la famiglia, lasciando Maggie senza alcun sostegno finanziario, e più sola che mai.

Ma il modo in cui Shane aggrediva Maggie potrebbe benissimo essere stato quello di un soldato nel corso di un’irruzione notturna, terrorizzando una famiglia civile afgana alla ricerca di qualche pericoloso Talebano, reale o immaginario.

Per quanto ne sappiamo, l’ex marito/soldato di Maggie avrebbe agito nello stesso modo in qualche stanza-soggiorno afgana, e per questo non solo veniva pagato, ma anche onorato.

Fondamentalmente, il comportamento è del tutto simile: una manifestazione straordinaria di una forza superiore. La tattica: “Shock and Awe”, colpisci e terrorizza! L’obiettivo: controllare il comportamento, la vita stessa della vittima designata come bersaglio. La posizione mentale: un senso di diritto, come se si trattasse di determinare il destino di una creatura subumana. Il lato oscuro: la paura e la rabbia brutale di un perdente spaventato, che infligge agli altri il suo io miserabile.

Per quanto concerne il nemico designato, così come la convinzione degli Stati Uniti di essere eccellenti afferma la loro superiorità su tutti gli altri paesi e le culture sulla Terra, e perfino sulle leggi che regolano i rapporti internazionali, la misoginia – che sembra informare così tanto gli Stati Uniti di questi giorni, dai campi di addestramento militare ai premi Oscar, al profluvio di assalti politici frontali al diritto della donna di controllare il proprio corpo – assicura anche gli individui più patetici come Shane della loro superiorità innata su qualche “cosa” a cui di solito ci si indirizza con oscenità di qualsiasi specie.

Dall’11 settembre, l’ulteriore militarizzazione della nostra cultura già abbondantemente militarizzata ha raggiunto nuovi livelli. L’America ufficiale, incarnata nel nostro sistema politico e nel nostro stato di sicurezza nazionale, ora sembra essere completamente maschilista, paranoica, irascibile, rinchiusa in se stessa, avida, aggressiva e violenta.

I lettori che hanno familiarità con la “violenza domestica” potranno sicuramente riconoscere questi tratti descrittivi altrettanto tipici del picchiatore medio di mogli americane: preso dalla disperazione, ma arrabbiato e aggressivo, sente assolutamente il diritto di controllare qualcosa, che sia anche solo una donna, o un paese di poco conto, miserabile come l’Afghanistan

Colleghiamo…i puntini

È stato John Stuart Mill, che scriveva nel XIX secolo, a costruire la relazione tra violenza “domestica” e violenza internazionale. [ John Stuart Mill, filosofo ed economista britannico, è stato uno dei massimi esponenti del liberalismo e dell’utilitarismo]. Ma egli non usava il nostro termine scialbo, assurdamente neutro nella distinzione di genere, “violenza domestica”.

Stuart Mill definiva questa violenza come “tortura sulla donna” o “atrocità”, e riconosceva che la tortura e le atrocità erano del tutto simili, non importa dove avvenivano – se oggi a Guantanamo Bay, Cuba, o nella provincia di Wardak, Afghanistan, o in una camera da letto, o in uno scantinato dell’Ohio.

Argomentando nel 1869 contro la sottomissione delle donne, Mill scriveva che l’abitudine degli Inglesi a dimostrarsi tiranni in casa propria e a “maltrattare le donne” stabiliva il modello e la pratica per la politica estera della Gran Bretagna. Il tiranno in casa diventa il tiranno in guerra. La casa è il campo di addestramento per i grandi giochi condotti all’estero.

Mill riteneva che, nella preistoria, gli uomini forti avevano usato la violenza per schiavizzare le donne e la maggior parte dei loro simili.

Nel XIX secolo, tuttavia, la “legge del più forte” gli sembrava dovesse essere “abbandonata” – in Inghilterra, almeno – “come principio regolatore degli affari nel mondo”. La schiavitù veniva rigettata. Solo in famiglia continuava ad essere praticata, anche se le donne non erano più apertamente schiavizzate, ma soltanto… “sottoposte” ai loro mariti.

Questa sottomissione, dichiarava Mill, era l’ultimo vestigio dell’arcaica “legge del più forte”, e doveva inevitabilmente svanire, visto che uomini ragionevoli riconoscevano la sua barbarie e ingiustizia.

Del suo tempo, egli scriveva che “nessuno professa” la legge del più forte, e “per quanto riguarda la maggior parte delle relazioni tra esseri umani, a nessuno è permesso di praticarla.”

Bene, anche un femminista non può essere sempre nel giusto su tutto.

I tempi spesso cambiano in peggio, e raramente la legge del più forte è stata più popolare di quanto non sia oggi negli Stati Uniti. Di routine, ora sentiamo Congressisti dichiarare che gli Stati Uniti sono la più grande nazione del mondo, perché sono la più grande potenza militare della storia, proprio come ora regolarmente i loro Presidenti insistono sul fatto che l’esercito usamericano è “la forza da combattimento più bella nella storia del mondo”.

Non importa che questo esercito non vinca quasi mai una guerra!

Pochi qui contestano questo standard primitivo – la legge del più forte – come misura di questa “civilizzazione” declinante degli Stati Uniti.

La guerra contro le donne

Stuart Mill, tuttavia, aveva individuato il nocciolo della questione: che la tirannia in casa è il modello per la tirannia all’esterno.

Quello che forse non aveva colto era la perfetta reciprocità del rapporto che perpetua la legge del più forte, sia in casa che lontano. Quando la tirannia e la violenza vengono praticate su larga scala in un paese straniero, questa pratica si intensifica anche in sede domestica.

Come il militarismo usamericano è arrivato ai limiti del sopportabile dopo l’11 settembre, nel paese viene ratificata anche la violenza contro le donne, visto che i Repubblicani hanno votato al Senato contro la riapprovazione del Violence Against Women Act, la legge statunitense contro la violenza sulle donne (approvata per la prima volta nel 1994), e le celebrità che pubblicamente hanno aggredito le loro ragazze non affrontano altre conseguenze che un diluvio di “tweet” di solidarietà con le giovani.

Le invasioni degli Stati Uniti all’estero hanno anche convalidato la violenza all’interno delle stesse forze armate degli Stati Uniti.

Si stima che circa 19.000 donne-soldato siano state aggredite sessualmente nel 2011; e un numero imprecisato siano state uccise da commilitoni che erano, in molti casi, i loro mariti o fidanzati.

Sono stati documentati tantissimi episodi di violenza contro le donne nelle forze armate, dallo stupro all’omicidio, individuati solo fortuitamente, visto l’insabbiamento ad opera della catena di comando.

D’altra parte, la violenza domestica contro le donne civili non può essere sempre riportata o valutata del tutto, quindi la sua piena portata sfugge all’attenzione. Gli uomini preferiscono mantenere la finzione storica che la violenza in casa è una loro questione privata, opportunamente e legalmente nascosta dietro una “cortina”.

In questo modo vengono conservate l’impunità e la tirannia maschile.

Le donne si aggrappano ad una finzione della nostra condizione: che noi donne siamo molto più “uguali” di quello che noi siamo nella realtà.

Invece di affrontare la violenza maschile, noi ancora preferiamo addossare la colpa della violenza alle singole donne e ragazze, vittime di essa – come se queste si offrissero volontariamente.

Ma allora, come spiegare il fatto dissonante che almeno una su tre donne-soldato usamericane viene aggredita sessualmente da un uomo suo “superiore”? Sicuramente, non è questo che le donne usamericane avevano in mente quando hanno firmato per i Marines o per l’addestramento al volo nell’Air Force.

In realtà, tante ragazze adolescenti entrano volontarie nell’esercito proprio per sfuggire alla violenza e agli abusi sessuali nelle case o per le strade della loro infanzia.

Non fraintendetemi, i militari non sono i soli, e nemmeno i fuori dal comune, a terrorizzare le donne.

La guerra più ampia usamericana nei confronti delle donne si è intensificata su molti fronti, anche qui a casa, giusto in concomitanza con le nostre guerre all’estero.

Tali guerre all’estero hanno causato la morte di innumerevoli migliaia di civili, molti dei quali donne e bambini, che potrebbero far sembrare le battaglie private dei guerrieri domestici come Shane, qui negli Stati Uniti, ben poca cosa al confronto.

Ma sarebbe un errore sottovalutare la potenza di fuoco dei vari Shane del nostro mondo usamericano. Le statistiche ci dicono che una pistola legale è stata il mezzo più popolare per mandare all’altro mondo le donne e le mogli, ma quando si tratta di ragazze, gli ignobili individui preferiscono picchiarle a morte.

Durante gli attacchi terroristici dell’11 settembre contro gli Stati Uniti sono state uccise qualcosa come 3.073 persone. A partire da quel giorno fino al 6 giugno 2012, 6.488 soldati statunitensi sono caduti in combattimento in Iraq e in Afghanistan, portando il bilancio dei morti causati dalla guerra degli Stati Uniti contro il terrorismo, in patria e all’estero, al numero di 9561.

Nello stesso periodo, 11.766 donne sono state trucidate negli Stati Uniti dai loro mariti o fidanzati, sia militari che civili.

Il maggior numero di donne uccise qui a casa nostra è una misura della portata e dell’intensità furiosa della guerra contro le donne, una guerra che minaccia di continuare per molto tempo dopo che la guerra al terrorismo, un’idea sbagliata, sarà divenuta Storia.

Capire come stanno le cose

Pensate a Shane, in piedi in un soggiorno anonimo in Ohio, che urla istericamente come un bambino che vuole ciò che vuole quando lo vuole. Secondo quanto riferito, questo Shane stava cercando di essere un bravo ragazzo e di fare carriera come cantante in un gruppo rock cristiano. Ma, come il soldato in combattimento in una guerra straniera, sullo stesso modello, egli usava la violenza per tenere insieme la sua vita e portare a termine la sua missione.

Sappiamo di Shane solo perché è capitato che una fotografa si trovava sulla scena dell’aggressione. Sara Naomi Lewkowicz aveva scelto di documentare la storia di Shane e della sua ragazza Maggie per comprensione della situazione di Shane, quella di un ex-detenuto da poco uscito dal carcere, che non riesce ancora a liberarsi del marchio assegnato a un uomo che aveva scontato un periodo in galera.

[N.d.tr.: per capire come stanno le cose, vedere il video a

http://lightbox.time.com/2013/03/25/video-a-portrait-of-domestic-violence/

Da quando è stata pubblicata la storia straziante di Maggie di abusi domestici alla fine di febbraio su LightBox e sul TIME, e dopo l’arresto dell’ex-fidanzato di Maggie, Shane, la fotografa Sara Naomi Lewkowicz ha continuato a documentare la storia di Maggie con fotografie e video.

Qui, TIME presenta la versione multimediale della storia, fornendo un aggiornamento sulla vita di Maggie, come lei affronta le sfide di andare avanti e prendersi cura della sua famiglia.]

Poi, nella notte in cui Shane era lì nel soggiorno che scaraventava in giro Maggie, la Lewkowicz aveva fatto quello che ogni buon fotografo di guerra avrebbe fatto come testimone della storia: lei continuò a riprendere. Tale azione era l’unico tipo di intervento possibile e avrebbe potuto salvare la vita di Maggie.

Nel bel mezzo della violenza, la Lewkowicz aveva anche avuto il coraggio di strappare dalla tasca di Shane il suo telefono cellulare, che gli aveva prestato in precedenza. Non è chiaro se abbia passato il telefono a qualcun altro o abbia fatto lei stessa la chiamata al 911 della polizia. La polizia ha arrestato Shane, e una poliziotta intelligente ha detto a Maggie: “Sai, lui non ha intenzione di fermarsi. Non si fermano mai. Di solito si fermano quando ti ammazzano.”

Maggie ha fatto la cosa giusta. Ha presentato denuncia alla polizia. Shane è tornato in carcere. E le impressionanti foto della Lewkowicz sono state diffuse on-line il 27 febbraio sulla rubrica Lightbox del sito web della rivista Time sotto il titolo di testa “Fotografo come testimone: una rappresentazione di violenza domestica”.

Le foto sono impressionanti perché la fotografa è decisamente brava, e l’oggetto della sua attenzione è così raramente catturato da una macchina fotografica.

A differenza dei servizi di guerra in Iraq e in Afghanistan presentati da fotografi “integrati” (embedded), le torture contro le donne si svolgono per lo più a porte chiuse, senza preavviso e non vengono registrate.

Le prime fotografie di violenze contro una donna a comparire negli Stati Uniti sono state le immagini ora iconiche di Donna Ferrato, immagini di violenza domestica contro le donne.

Come la Lewkowicz, la Ferrato si era imbattuta per caso nella violenza contro le donne: nel 1980, lei stava documentando un matrimonio, quando il felice marito decideva di picchiare la moglie. Allora gli editori curatori di servizi fotografici era così riluttanti di scostare la cortina della privacy domestica che, anche dopo che la Ferrato era divenuta fotografa di Life nel 1984, perseguendo lo stesso soggetto, nessuno, compresa Life, desiderava pubblicare le immagini scioccanti che lei produceva.

Nel 1986, sei anni dopo che lei aveva assistito alla prima aggressione, alcune delle sue fotografie sulle violenze domestiche contro le donne vennero pubblicate dal quotidiano Philadelphia Inquirer, e le procurarono nel 1987 il premio per il giornalismo “Robert F. Kennedy” “per gli eccezionali servizi giornalistici sui problemi degli svantaggiati”.

Nel 1991, Aperture, la rivista che pubblica fotografie di alto valore, ha edito il corpo essenziale del sorprendente lavoro della Ferrato, dal titolo “Living with the Enemy – Vivere con il nemico” (per cui io ho scritto una introduzione).

[Segnalazione del traduttore: Donna Ferrato, la fotografa dei diritti, arriva in Italia. Da “la Repubblica”.

http://www.repubblica.it/cronaca/2013/02/19/foto/donna_ferrato_la_fotografa_attivista_per_le_donne_arriva_in_italia-52981410/1/&h=660&w=479&sz=57&tbnid=FC88p7BTqGoxsM:&tbnh=186&tbnw=134&zoom=1&usg=__ahr-ftb2HBLPd2CZyLoGzOc-IZU=&docid=VBFVM2w9jDzgIM&hl=it&sa=X&ei=-ANXUa-7M6S47Aak9YGQCQ&ved=0CDAQ9QEwAA&dur=5602%20″>http://www.google.it/imgres?imgurl=http://www.repubblica.it/images/2013/02/19/160921989-99e125fd-5631-4a05-9305-9aa104a7fd38.jpg&imgrefurl=http://www.repubblica.it/cronaca/2013/02/19/foto/donna_ferrato_la_fotografa_attivista_per_le_donne_arriva_in_italia-52981410/1/&h=660&w=479&sz=57&tbnid=FC88p7BTqGoxsM:&tbnh=186&tbnw=134&zoom=1&usg=__ahr-ftb2HBLPd2CZyLoGzOc-IZU=&docid=VBFVM2w9jDzgIM&hl=it&sa=X&ei=-ANXUa-7M6S47Aak9YGQCQ&ved=0CDAQ9QEwAA&dur=5602 ]

Da allora, le foto sono state ampiamente riprodotte.

Nel 1994, Time ha utilizzato un’immagine della Ferrato sulla sua copertina, quando l’assassinio di Nicole Brown Simpson aveva richiamato brevemente l’attenzione su ciò che la rivista definiva “l’epidemia degli abusi domestici”, e il 27 giugno 2012 Lightbox dava risalto ad una piccola retrospettiva del suo lavoro sulle violenze domestiche.

La Ferrato stessa ha dato inizio ad una fondazione, offrendo il suo lavoro a gruppi di donne in tutto il paese per costruire mostre dedicate alla raccolta di fondi per case-rifugio e servizi locali. Tali mostre fotografiche hanno anche aiutato ad accrescere la coscienza in tutti gli Stati Uniti e certamente hanno contribuito a procedure di polizia più intelligenti, meno misogine, sul tipo di quelle che hanno riportato in carcere Shane.

Le foto della Ferrato costituiscono le prove inconfutabili della violenza all’interno delle nostre case, raramente riconosciuta e mai messa in pubblico così apertamente.

Eppure, fino al 27 febbraio, quando, con l’aiuto della Ferrato, le foto di Sara Naomi Lewkowicz sono state pubblicate su Lightbox solo due mesi dopo che erano state raccolte, le foto della Ferrato erano tutto quello che avevamo su queste violenze.

Noi abbiamo bisogno di più! Quindi c’erano tutte le ragioni per cui il lavoro della Lewkowicz venisse accolto con plauso unanime dai fotografi e dalle donne di ogni dove.

Invece, in più di 1.700 commenti inviati a Lightbox, la fotografa Lewkowicz veniva soprattutto criticata per fatti come quello di non avere abbandonato la sua macchina fotografica e non essersi preso cura di portare fuori della stanza la figlia di Maggie, di due anni, che era sconvolta, o di non avere bloccato l’aggressione, (lei, da sola!). (C’è bisogno di dire che arrestare i combattimenti non è il compito dei fotografi di guerra?)

Anche Maggie, la vittima di questa aggressione criminale, è stato denunciata senza pietà: in primo luogo, per essersi accompagnata con Shane, per non avere saputo prevedere la sua violenza, per avere “ingannato” suo marito, comunque già ex, che combatteva in Afghanistan, e inspiegabilmente per essere una “perpetratrice”.

Passando in rassegna tutti questi commenti per la Columbia Journalism Review, Jina Moore ha concluso: “Su una cosa tutti i critici sembrano essere d’accordo: l’unico adulto nella casa a non essere responsabile delle violenze è l’uomo che le commette!”

Loro si fermano solo quando ti hanno ammazzata

A coloro che visionano queste fotografie – foto che riflettono con precisione la violenza quotidiana che tante donne sono costrette ad affrontare – sembra far comodo ignorare, o addirittura elogiare, l’uomo furioso che sta dietro a tutto ciò.

Così, purtroppo, sono tanti a trovare conveniente ignorare la violenza che i guerrieri d’America, eseguendo ordini, infliggono all’estero su scala di massa contro donne e bambini in zone di guerra.

L’invasione e l’occupazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti ha avuto l’effetto di spostare milioni di persone dalle loro case all’interno del paese o spingendole in esilio in terre straniere.

Le stime sugli stupri e atrocità erano impressionanti, come ho imparato in prima persona quando nel 2008-2009 ho passato molto tempo in Siria, Giordania, Libano a parlare con i rifugiati iracheni. Inoltre, le donne che sono rimaste in Iraq ora vivono sotto il dominio degli Islamisti più retrivi, fortemente influenzati dall’Iran. Sotto il passato regime laico, le donne irachene venivano considerate le più emancipate nel mondo arabo; oggi, affermano di essere state ricacciate indietro di un secolo.

In Afghanistan, per giunta, mentre gli Statunitensi si prendono il merito di avere riportato al lavoro le donne e le ragazze a scuola, migliaia e migliaia di donne e bambine sono state fatte sfollare all’interno del paese, molte in campi profughi improvvisati alla periferia di Kabul, dove 17 bambine sono morte per congelamento lo scorso gennaio.

Le Nazioni Unite hanno segnalato la morte di 2.754 civili e 4.805 feriti civili, come risultato della guerra nel 2012, la maggior parte dei quali donne e bambini. In un paese senza uno Stato in grado di censire le persone, queste cifre sono senza dubbio significativamente sottostimate.

Un funzionario delle Nazioni Unite ha affermato, “È la tragica realtà, che tante delle donne e ragazze afgane siano state uccise o ferite mentre erano impegnate nelle loro attività quotidiane.” Migliaia di donne nelle città afgane sono state costrette a fare le prostitute per sopravvivere, così come le donne irachene che sono fuggite profughe a Beirut e in particolare a Damasco.

Questo è ciò che la violenza maschile è destinata a fare alle donne. Il nemico!

La guerra è di per sé una sorta di uomo tatuato che sbraita, in piedi al centro di una stanza – o in un altro paese – affermando la legge del più forte.

È come un tasto di azzeramento sulla storia, che quasi invariabilmente garantisce alle donne che si troveranno sempre sottoposte a uomini con comportamenti sempre più terribili.

È la medesima cosa che, a un certo tipo di uomo, lo induce ad andare in guerra, simile alla bella tortura vecchio stile sulle donne, molto emozionante e così tanto divertente.

di Ann Jones

21 marzo 2013

http://www.tomdispatch.com/blog/175663/

articolo segnalato da Atenea Acevedo mujerypalabra@gmail.com

per la rete internazionale di traduttori a http://www.tlaxcala-int.org/

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

* Ann Jones, storica, giornalista, fotografa e collaboratrice costante di TomDispatch, ha raccontato la violenza contro le donne negli Stati Uniti in diversi libri, fra cui i classici del femminismo “Women Who Kill – Donne che uccidono” (1980) e “Next Time, She’ll Be Dead – La prossima volta, sarà lei ad essere uccisa” (2000), prima di recarsi in Afghanistan in 2002 per lavorare con le donne.

Ha pubblicato nel 2006 “Kabul in Winter – Kabul in inverno” e nel 2010 “War Is Not Over When It’s Over – La guerra non è finita quando è finita

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *