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Pierre Lévy: “I dirigenti europei non sopportano più la democrazia”

Un libro fortemente politico che spazia nei campi dell’economia, del sociale e della geopolitica.

Il sottotitolo del libro, “il favoloso destino dell’Europa all’alba dell’anno di grazia 2022”, non è un puro prodotto della fantasia di Pierre Lévy, ma ci rinvia ad una inquietante attualità e solleva una questione: bisogna restare nell’Unione europea? L’argomento è tabù, tuttavia merita un vero dibattito che viene aperto su Investig’Action.

Il suo romanzo ci fa piombare nel 2022, e dalle prime righe questo futuro non troppo lontano ci appare insieme assurdo e spaventoso. Ma, cosa ancora più spaventosa, ci si accorge subito che questo mondo non è puro frutto della sua immaginazione, ma si basa su elementi attuali decisamente realistici…

Questo è lo spirito del libro. Anche se questo è un libro molto politico, ho preferito una forma insolita per un saggio. Volevo ridere di cose che non sono affatto divertenti, portando all’assurdo ed estremizzando le logiche attuali. L’idea era quella di capire cosa sta succedendo oggi in campo economico, politico, sociale e geopolitico, andare fino in fondo. Sperando che tutto ciò faccia riflettere.

La grande paura, in ultima analisi, è che la realtà raggiunga la finzione. A Cipro, per esempio, la BCE e il FMI avevano previsto di attingere direttamente dai risparmi dei cittadini, compresi anche i più modesti. Alla fine sono stati costretti a rivedere parzialmente i loro piani. Ma abbiamo assistito a qualcosa che difficilmente si poteva immaginare solo qualche mese fa. Tutto ciò dimostra che può accadere di tutto, anche molto velocemente.

Il suo lavoro spazia efficacemente su molti temi. Dal punto di vista socio-economico, il futuro è poco divertente. Ad esempio, lei immagina un mercato del lavoro totalmente privo di regole, con situazioni a volte assurde. In buona sostanza, quali sono le dinamiche attuali che l’hanno ispirata?

A volte è difficile distinguere tra finzione e realtà. Ogni giorno, gli ultraliberisti ci spiegano che avere un impiego è un privilegio. Bisogna perfino meritarselo! D’altronde, nel linguaggio corrente, si parla di “conseguire” un lavoro. Come se fossimo in un’arena e i più meritevoli si battessero per conseguire la coda di Topolino.

Allora, nel libro spingo questa logica all’estremo. Se il lavoro è un privilegio, non è possibile pretendere di essere pagati, avendolo conseguito. Al contrario, sarebbe opportuno acquistare questo privilegio. Quindi, i posti di lavoro vengono messi all’asta e sono “conseguiti” dai migliori offerenti.

I funzionari pubblici non sono risparmiati …

Assolutamente. Oggi, essi sono l’obiettivo privilegiato dei nostri economisti di riferimento. È ben noto, i dirigenti funzionari sono pagati per non fare nulla! Quindi immagino una sorta di gioco alla Koh- Lanta [Koh-Lanta, versione francese, ambientata in Cambogia, del “Survivor” americano, un format diffuso in tutto il mondo e approdato anche in Italia nella variante con sedicenti celebrità come protagoniste: “L’isola dei famosi”,… appunto], dove le telecamere sono disseminate in tutte le sedi del servizio pubblico. E spetterebbe agli utenti internauti monitorare di continuo i funzionari e decidere quali di costoro dovrebbero essere licenziati prioritariamente.

Deve essere chiaro che, al di là di una ironica strizzatina d’occhio, esiste una realtà terribile. Penso a paesi come la Grecia, la Spagna o il Portogallo. E in Francia e in Belgio, il rischio di andare in quella direzione, purtroppo, non si discosta molto dalla fantasia.

Nel testo si capisce che, nel 2022, il neoliberismo è re. Inoltre, lei immagina la privatizzazione delle istituzioni che avevano fino ad allora resistito.

Sì, per esempio questo è il caso della Giustizia. Nel libro, i tribunali sono direttamente sottoposti a criteri di produttività e competitività. E per i “clienti”, coloro che avranno più soldi potranno scegliersi le corti più clementi.

Lei esplora in modo largo il terreno socio-economico. Un settore che lei dovrebbe ben conoscere visti i suoi trascorsi da sindacalista?

In effetti sono stato per tanto tempo un attivista sindacale in una grande impresa metallurgica.

Un settore particolarmente in crisi in questo momento! Lei, come spiega questo tracollo?

Sì, quello che sta succedendo oggi con Mittal riguarda Belgi, Francesi, Lussemburghesi e, in generale, tutti coloro a cui era stato promesso che la creazione di un colosso europeo ci avrebbe aiutato ad “affrontare i paesi emergenti”.

[N.d.tr.: La ArcelorMittal è un colosso industriale mondiale, leader nel settore dell’acciaio, nato dalla fusione di due tra le più grandi aziende del settore, la Arcelor e la Mittal Steel Company, avvenuta nel 2006. Il quartier generale si trova nella capitale del Lussemburgo. Oltre a essere il più grande produttore d’acciaio, la ArcelorMittal è anche leader di mercato nella fornitura di acciaio per l’industria automobilistica e per i settori delle costruzioni, degli elettrodomestici e degli imballaggi.]

Per creare questo gigante, l’ArcelorMittal, si sono fatte scomparire le imprese nazionali. Alcune erano anche imprese pubbliche. Poi, abbiamo visto quello che abbiamo visto!

Il “gigante europeo” è stato riacquistato dal gruppo indiano. Mittal (l’uomo chiave della compagnia è il multimiliardario indiano Lakshmi Mittal) aveva promesso di salvare il settore, ma ora attacca con brutalità insolita non solo i lavoratori e l’impresa, ma anche intere regioni. Devono svilupparsi delle resistenze per arginare questo disastro industriale!

Tuttavia, ci sono personaggi nel suo libro che non si sarebbero tanto impegnati per evitare questa catastrofe industriale. Penso ad una certa tendenza ecologista su cui lei all’occasione ironizza.

Sì, anche se io ne faccio una caricatura, non mi invento nulla, purtroppo.

Un discorso attuale denuncia fabbriche che inquinano, sporcano, ecc. Quindi, immagino un Premio Nobel della de-industrializzazione, per premiare le aziende più meritevoli per il “futuro del pianeta”.

Nel mio libro, gli impianti vengono trasformati gradualmente in musei, diventano più redditizi.

E i lavoratori vengono in qualche modo trasformati in operatori saltuari nel settore dello spettacolo. Costoro testimoniano alle giovani generazioni come si viveva, pochi anni fa, in un “terrificante passato industriale”.

Il mio obiettivo è quello di sottolineare un discorso che alcuni leader ambientalisti effettivamente ci propugnano, che in buona sostanza, la cosa importante è “non avere, ma essere”. Quindi, ci viene intimato di andare verso una maggiore “sobrietà”, cosa che potrebbe in realtà giustificare le politiche di austerità che attualmente ci vengono imposte.

Lei ci rammenta quello che Jean Bricmont ha scritto nella postfazione, vale a dire che una larga parte della “sinistra” negli ultimi anni ha abbandonato la lotta contro il capitalismo per cavalcare altri cavalli di battaglia …

…come l’ecologia, i diritti umani, la criminalizzazione del socialismo … In realtà, il mio romanzo è proiettato verso il futuro, laddove Jean Bricmont contestualizza tutto ciò, ricordando alcuni eventi politici di questi ultimi anni. Ed egli menziona questo fatto che merita un vero dibattito. Molte persone, che fanno appello alla sinistra, ora conducono lotte che non solo non contraddicono il capitalismo, ma per giunta lo confermano. Questo vale per l’ecologia, ma anche sul piano geopolitico, con questi leader della “sinistra” che giustificano gli interventi militari della NATO o europei.

D’altra parte, questo tipo di ingerenze non è scomparso nel 2022…

Effettivamente, ho preso come bersaglio anche questo Nuovo Ordine Mondiale, che d’altra parte era stato pensato dai dirigenti occidentali. Il libro immagina che a questo orizzonte le Nazioni Unite appartengono al passato. Il mondo “ideale” è composto da grandi regioni continentali e/o da regioni etniche, sovrastate da una sorta di direttorio globale. Naturalmente, questo esecutivo rispetta i costumi degli uni e degli altri. Ma quando si tratta di prendere importanti decisioni politiche, tutto deve “armonizzarsi” a livello mondiale.

Anche adesso, a livello europeo, questa “armonizzazione” delle decisioni politiche si applica sempre più. È questo che ha contribuito ad ispirarla?

Sì, e ritengo che l’idea riposta non sia altro che quella di fare sparire i popoli. Nel mio romanzo, i leader lo dichiarano apertamente. Ma questi argomenti sono già oggi di stretta attualità: sarebbe irragionevole permettere a popoli o governi legittimi di agire di testa loro, se ciò dovesse comportare lo scompiglio dell’equilibrio sovranazionale …

E se questo equilibrio viene minacciato, l’uso della forza rimane necessario,… anche nel 2022?

Sicuramente. D’altro canto, questo richiama la formula usata da Hillary Clinton poche settimane dopo le prime manifestazioni di protesta in Siria: “Il Presidente siriano non è più necessario”.

È stata lei a guidare la carica del campo occidentale. Bisognava sbarazzarsi del Presidente siriano e l’obiettivo era ormai palese. Questo era stato confessato già da subito, ben prima degli eventi drammatici che conosciamo oggi.

Nel libro perseguo questa logica. Un leader africano che impieghi più di un’ora a riconoscere la vittoria del suo avversario in una elezione vede il suo paese invaso da truppe d’assalto, le “forze di stabilità globale”. Queste truppe intervengono per ripristinare i “diritti umani” su richiesta di internauti e di alcuni uomini d’affari, che non possono sopportare di vedere la democrazia calpestata. Ma nei nostri paesi, tuttavia, si stima che le elezioni siano pericolose, perché potrebbero interferire con i piani in corso e perturbare l’equilibrio mondiale. Perciò, le elezioni sono sostituite da sondaggi…

[N.d.tr.: da Wikipedia, l’enciclopedia libera.

Con il termine internauta si designa il navigatore della Rete. L’internauta si muove nel ciberspazio, ambiente elettronico in cui le distanze sembrano azzerarsi e il tempo pare unico in tutto il globo (si può ricorrere all’ora universale, la cosiddetta “internet time”).

Il fatto di partecipare – ognuno di fronte al proprio schermo – a un’unica realtà interconnessa ha fatto venire in mente di proporre il concetto di cittadinanza digitale.

Ciò che è chiaro è che i “cittadini” del cosiddetto “villaggio globale” (Marshall McLuhan) di un’ipotetica repubblica virtuale sono chiamati sempre più a partecipare e a diventare protagonisti.

Non a caso la rivista Time ha scelto come uomo-tipo dell’anno (fine del 2006) proprio l’internauta, ossia chi ha contribuito all’“esplosione della democrazia digitale”.

Questa sorta di rivoluzione pacifica si sta ripercuotendo anche sul modo in cui funzionano i mass media tradizionali: si tende a passare da un modello di tipo passivo (utente che guarda immagini o ascolta la radio, sulla base di palinsesti prefissati) a una modalità interattiva (scelta dei palinsesti, anche via internet), con l’esito più recente di un’informazione fatta dagli internauti stessi: è il cosiddetto citizen-journalism, ossia il giornalismo dei cittadini che inviano immagini e scrivono nei blog, oppure inseriscono le proprie opere e il proprio vissuto in siti fai-da-te, tipo MySpace o YouTube (il cui numero di contatti sta crescendo molto rapidamente).]

La democrazia e la sovranità sono due concetti che lei ha fatto sparire dal futuro. Perché?

In buona sostanza, Democrazia e Sovranità rinviano allo stesso concetto, come noi lo abbiamo ereditato in particolar modo dagli Illuministi, dopo secoli di lotte: ogni popolo è sovrano, non devono esistere potenze che lo sovrastano per intimargli ciò che deve fare. Ma questa filosofia politica avanzata è diventata estremamente fastidiosa per i sostenitori della globalizzazione e di questa governance globale, che cancellerebbe la sovranità dei popoli.

Oggi, i leader europei non supportano la democrazia.

Abbiamo avuto un esempio paradigmatico con i referendum irlandesi nel 2001 e nel 2008: la risposta non era soddisfacente per l’Unione europea, dunque i cittadini sono stati costretti a tornare alle urne. Un altro esempio è stato il referendum del 2005 in Francia. Nonostante la massiccia opposizione al Trattato costituzionale, i leader europei sono riusciti a rifilare il contenuto del testo sotto un’altra forma.

La democrazia è stata strapazzata, per esempio, anche in Portogallo, dove, nel 2011, il governo di José Socrates ha chiesto un piano di salvataggio europeo in cambio di misure drastiche. Ma questo governo è stato costretto alle dimissioni e si sono svolte elezioni anticipate. Allora, senza tante storie la Commissione europea ha avvertito i Portoghesi: “Voi avete il diritto di voto, naturalmente. Tuttavia, qualunque sia l’esito del voto, l’accordo sottoscritto tra il governo in uscita e la Troika non potrà essere oggetto di revisione!”

Questi referendum e questa elezione rasentano l’assurdo e sembrano direttamente ricavati dal suo romanzo. Eppure questa è la realtà!

La democrazia è diventata un concetto totalmente adulterato dall’Unione europea. Certo, possiamo scegliere il colore dei marciapiedi. Ma è chiaro che le decisioni più importanti devono essere messe al riparo dai “capricci popolari”. La novità è che i dirigenti europei lo dichiarano apertamente.

Dovremmo accettare tutto ciò, o varrebbe la pena di tentare di mettersi di traverso a questo processo? Questa è la domanda posta dal libro in filigrana, attraverso un umorismo nero. Comunque, mi sono divertito molto a scrivere il libro e, per i riscontri che ho ricevuto, le persone hanno cominciato a leggerlo. Ma evidentemente si ride amaro, perché si riconosce una situazione drammatica.

Se vale la pena di mettere fine a questa follia, secondo lei cosa possiamo fare?

Esistono le condizioni per mettersi insieme, per non finire triturati dalla macchina.

La principale condizione, e a questo proposito non si parte dal nulla, consiste nell’organizzare grandi dibattiti popolari sulla natura stessa delle decisioni assunte dai nostri dirigenti.

Prendiamo per esempio le pensioni. Non credo che i nostri politici siano cattivi per natura, e né che Sarkozy prima, e Hollande poi, siano diventati pazzi. Invece, possiamo constatare che le “riforme” in materia pensionistica sono in corso anche negli altri paesi dell’Unione europea, e che ad ogni vertice europeo si raccomanda la loro applicazione.

I nostri leader non sono né pazzi né malvagi. Semplicemente, hanno deciso collettivamente per una camicia di forza, e di questo ne fanno un punto irremovibile.

Inoltre, questo giogo è molto coerente. Dunque, la prima condizione è di prendere coscienza della coerenza della camicia di forza imposta dall’Europa. Ma, disgraziatamente temo che molte forze politiche, che si dicono situarsi a sinistra, e allo stesso modo alcuni sindacati, stanno imbrogliando sulla camicia di forza rappresentata dall’Unione europea.

Come funziona questa camicia di forza imposta dall’Europa?

L’Unione europea non è responsabile per tutto. Ogni governo è in grado di prendere misure anti-sociali. Ma la specificità della camicia di forza europea consiste in ciò che viene chiamato nel gergo di Bruxelles una “cultura acquisita comunitaria”.

In realtà, i “progressi europei” – vale a dire, nello specifico, i regressi sociali – sono irreversibili, secondo il meccanismo dei Trattati. In modo che, se domani, un governo progressista venisse eletto in Belgio, e il suo desiderio fosse quello di perseguire importanti riforme, verrebbe bloccato dagli impegni presi dai governi precedenti, impegni che sono incisi nel marmo dei Trattati.

Io sono redattore capo del mensile “Bastille-République-Nations”. Il nostro obiettivo è di dimostrare che i meccanismi stessi dell’Unione europea sono progettati per soggiogare i popoli. La nostra non è una dimostrazione astratta o dogmatica. Questo è ciò che verifichiamo costantemente nell’attualità. Questo viene dimostrato, per esempio, dalla “governance economica europea”, secondo cui ogni governo è tenuto a fare convalidare il suo progetto di bilancio dalla Commissione europea, prima di sottoporlo all’approvazione del Parlamento nazionale.

Bisogna lacerare la camicia di forza e uscire dall’Unione europea?

So che la questione è tabù, ma penso che questa sia la seconda condizione per non trovarci schiacciati dalla macchina.

È possibile ancora nutrire l’illusione di essere in grado di cambiare le cose dal di dentro, come alcuni pretendono di tentare da oltre 50 anni, (il famoso minuetto dell’“Europa sociale”, per esempio …), dopo che da allora la situazione è andata sempre peggiorando? O è meglio spezzare queste catene?

Questo non verrà deciso a livello dei Ventisette membri dell’Unione, ma alcuni popoli potrebbero dare l’abbrivio per l’uscita dalla UE, in modo che ciascuno possa riprendere il controllo del potere decisionale. Ovviamente, questo va in senso contrario a tutto ciò che è sancito dai Trattati: “Sarebbe necessaria un’“unione sempre più stretta” per modellare il “destino” europeo”.

Non si parla nemmeno più di avvenire, ma di “destino”, un concetto quasi religioso che è fuori dalla portata umana!

Il lessico europeo è molto istruttivo, e anche nel libro mi diverto a giocare con questi modi di espressione. Ma è un vocabolario viziato e scorretto. Quando i nostri avversari arrivano a farci pensare con i loro stessi concetti, spossessandoci delle nostre idee, allora siamo fottuti!

Lei non pensa che un’altra Europa sia possibile?

Ogni architetto sa che un carcere non può diventare una scuola, visto che i carcerati dovrebbero essere sostituiti da studenti. L’architettura dell’edificio non è concepita per questo. Allo stesso modo, se per caso i capi della mafia venissero toccati dalla grazia, e improvvisamente decidessero di riconvertirsi per aiutare gli indigenti, la struttura della loro organizzazione impedirebbe tale conversione …

Per l’Unione europea, non si tratta solo di una questione del perseguimento di cattive politiche. Sono gli stessi meccanismi dell’Unione che costituiscono una sorta di leva per fare in modo che l’azione collettiva della classe dominante venga potenziata e presentata come irreversibile.

Questo può essere verificato empiricamente. Già nel 1982, Mitterrand, pochi mesi dopo la sua elezione, dichiarava: “L’Europa sarà sociale, o non sarà”. Abbiamo visto cosa ne è stato.

Negli anni ‘90, i tre quarti dei governi dell’Europa dei Quindici facevano appello alla “sinistra” con diverse motivazioni. Ad un congresso dei Socialisti europei, a cui ho partecipato come giornalista, i dirigenti ribadivano di avere un’opportunità unica per costruire l’Europa sociale, e che i popoli non li avrebbero perdonati se non avessero afferrato questa opportunità.

Ancora una volta, abbiamo visto il risultato.

Si potrebbe affermare che questi dirigenti erano dei traditori. Ma il fatto è che la pressione a cui sarebbero stati sottoposti questi leader nei loro rispettivi paesi veniva controbilanciata dai meccanismi del sistema dell’Unione europea.

Quindi, questi dirigenti non hanno alcuna responsabilità?

Sì, naturalmente. Le loro responsabilità sono enormi, in quanto collettivamente possono determinare i grandi orientamenti. Ma dopo ogni vertice, dove sono passate misure antisociali, ognuno può ritornare a casa e dire ai cittadini: “Oh, mi dispiace, ma c’è l’Europa!”

Allora, i paesi europei non hanno alcun interesse ad unirsi?

Naturalmente, essi hanno tutto l’interesse a mantenere e sviluppare buoni rapporti. Ma perché dovrebbero vivere con delle istituzioni integrate che lasciano fuori i paesi di altri continenti?

Ho grande simpatia per i Lettoni o gli Sloveni, ma mi sembra che i Francesi abbiano più legami – culturali, storici, geografici, linguistici, perfino famigliari – con i Senegalesi o gli Algerini, per esempio.

Contrariamente a quanto sostenuto, l’Unione europea non ci permette di aprirci, ci contiene.

Inoltre, sicuramente deve essere costruita una solidarietà nelle lotte a livello europeo, ma non solo. La solidarietà deve stabilirsi con tutti i popoli e con tutte le lotte. Si dovrebbe, per esempio, costruire decise convergenze delle lotte con i paesi latino-americani.

Giustamente, i più progressisti fra questi paesi si sono uniti mediante ALBA…

Questi paesi plaudono ad una più stretta cooperazione, ma allo stesso tempo insistono sul fatto che ogni paese deve mantenere e rafforzare la porpria sovranità nazionale. La solidarietà e la sovranità non sono in contraddizione, la sovranità è essa stessa un prerequisito necessario per la solidarietà.

[N.d.tr.: L’Alleanza bolivariana per le Americhe (ALBA) (in spagnolo Alianza bolivariana para América Latina y el Caribe) è un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica tra i paesi dell’America Latina e i paesi caraibici, promossa dal Venezuela e da Cuba in alternativa all’Area di libero commercio delle Americhe (ALCA) voluta dagli Stati Uniti. L’aggettivo “bolivariana” si riferisce al generale Simon Bolivar, l’eroe della liberazione di diversi paesi sudamericani dal colonialismo spagnolo.

Il progetto ALBA è una proposta di integrazione differente dall’ALCA. Mentre l’ALCA risponde agli interessi del capitale transnazionale e persegue la liberalizzazione assoluta del commercio dei beni e dei servizi, l’ALBA pone enfasi alla lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, e pertanto esprime gli interessi dei popoli latinoamericani.

ALBA è basata sulla creazione di meccanismi finalizzati alla creazione di vantaggi cooperativi fra le nazioni che permettano di compensare le asimmetrie (sociali, tecnologiche, economiche, sanitarie, etc.) esistenti tra i paesi dell’emisfero.

Si basa sulla cooperazione tramite fondi di compensazione destinati alla correzione delle disparità che pongono in posizione di svantaggio i paesi deboli rispetto alle potenze economiche. Perciò la proposta dell’ALBA dà priorità all’integrazione latinoamericana e privilegia la negoziazione tra i blocchi sub-regionali, aprendo nuovi spazi di consultazione con l’intento di approfondire la conoscenza della posizione dei paesi membri e di identificare ambiti di interesse comune che consentano di costruire alleanze strategiche e assumere posizioni comuni nei processi di negoziazione. L’obiettivo è impedire la dispersione nella negoziazione, evitando che le nazioni aderenti si contrappongano e siano assorbite nella voragine delle pressioni per la rapida costituzione dell’ALCA.]

L’uscita dall’Unione europea non rischia di favorire i nazionalismi cari all’estrema destra?

Stiamo attenti alle parole che usiamo. Difendere il quadro nazionale e rivendicare il nazionalismo, non è la stessa cosa. In francese, il nazionalismo rinvia ad una concezione aggressiva e imperialista della nazione. Per contro, la difesa del quadro nazionale non è un’idea di estrema destra, anzi.

La giunzione tra i concetti di nazione e di sovranità dei popoli è stata effettuata dai rivoluzionari del 1789 e soprattutto del 1792. Durante la battaglia di Valmy, l’esercito rivoluzionario ha bloccato la coalizione delle aristocrazie europee che volevano riportare i Borboni sul trono. Dopo l’esito di questa battaglia, fu proclamata la Repubblica. Goethe, il celebre poeta tedesco, scriveva: “Questo giorno e questo luogo segnano una nuova era nella storia del genere umano”. Per la prima volta, un popolo affermava la propria sovranità collettiva sul proprio futuro.

Jaurès ha anche affermato: “Un po’ di internazionalismo allontana dal concetto di patria, molto lo ripristina e lo consolida.” Inoltre, sottolineava che la nazione è “l’unica risorsa dei poveri”.

La difesa del quadro nazionale resta più che mai una idea fondamentalmente progressista, in quanto rinvia alla necessità che le persone possano decidere del loro futuro. In Francia, questa difesa è stata a lungo sostenuta dalla sinistra, specialmente dal movimento comunista e dalla Resistenza, che coniugavano le lotte sociali con la difesa del quadro nazionale.

E poiché abbiamo accennato poco fa all’America Latina, bisogna ancora ricordare che la parola d’ordine della Rivoluzione cubana proclamava: “Patria o muerte, venceremos!”. Allora, il Che e Fidel, agenti dell’estrema destra?

Tuttavia, se noi ora andiamo a vedere quali sono i partiti politici che sostengono l’uscita dall’Unione europea, la maggior parte sono classificati a destra dello spettro politico.

Ma di chi è la colpa? Chi ha abbandonato incolto questo terreno, sacrificando il concetto di sovranità in nome della costruzione e dell’integrazione europea?

A questo livello si è prodotto un vuoto, tanto che altre forze, che hanno chiaramente sentito il sentimento popolare, hanno recuperato e stanno ancora recuperando questo terreno abbandonato dalla sinistra. Questa situazione richiede appunto il reinvestimento in questo campo, piuttosto che abbandonarlo all’attenzione di soggetti che non hanno assolutamente in testa la difesa dei lavoratori.

Lei non teme che una rottura dell’Unione europea possa condurre a conflitti come quelli che abbiamo già conosciuto tra i diversi paesi del continente?

In sé e per sé non sono state le nazioni, ma sono stati gli scontri tra interessi imperialisti all’origine delle due guerre mondiali.

Quando ha dovuto confrontarsi con il suo stesso popolo, la borghesia francese ha più volte tentato di fare affidamento sulla grande borghesia tedesca. Alla fine degli anni 1930, la borghesia francese proclamava “piuttosto Hitler che il Fronte Popolare!”, ben prima di sguazzare nella collaborazione con le forze di occupazione per difendere i propri interessi di classe. E non era una novità. L’aristocrazia francese aveva chiamato in suo soccorso gli aristocratici europei durante la Rivoluzione. Allo stesso modo, Adolphe Thiers invocò l’aiuto di Bismarck per schiacciare la Comune di Parigi.

È una costante. Non solo le borghesie nazionali ricercano diversivi ​​nelle guerre tra nazioni quando i movimenti popolari diventano più profondi. Ma sono anche disposte a sacrificare gli interessi della nazione a tutto vantaggio dei propri interessi di classi dominanti.

Quindi, l’Unione europea non offrirebbe alcuna garanzia di pace fra i popoli?

Basta guardare cosa succede. Laddove popoli sovrani, liberi e uguali dovrebbero essere in grado di sviluppare fra di loro la cooperazione, succede il contrario. Si cerca di imporre loro le stesse regole, gli stessi modi di comportarsi e, soprattutto, le stesse battute d’arresto sul terreno.

Per questa cosiddetta pace tra i popoli, i risultati sono disastrosi. Infatti, abbiamo potuto vedere la grande stampa tedesca rappresentare i Greci come profittatori, pigri e parassiti. D’altra parte, è tale il risentimento, che nei giornali greci non si vede altro che Angela Merkel conciata in foggia hitleriana!

Sotto l’apparenza di sviluppare stretti legami, i popoli vengono posti in opposizione gli uni contro gli altri. Questo è terribile!

Il primo ministro lussemburghese Jean-Claude Junker, che è stato fino a poco tempo fa il presidente dell’Eurogruppo, in marzo ha dichiarato a Der Spiegel: “I demoni che hanno condotto allo scoppio della Prima Guerra mondiale forse sono in sonno, ma non sono scomparsi, e penso che le tensioni che conosciamo oggi ci ricordano quelle che hanno prevalso nel 1913.”

Jean-Claude Junker, tuttavia, è uno di coloro che ci hanno raccontato che l’Europa è la pace. Costoro cominciano a preoccuparsi. Il modo in cui i dirigenti europei, in particolare i Tedeschi, hanno preso possesso di Cipro è sintomatico. Loro, nemmeno vanno tanto per il sottile, e spiegano molto chiaramente che metteranno il paese sotto il giogo. Con la speranza che, se saranno in grado di dominare in tal modo un piccolo paese, l’esempio sarà dato.

Lei stesso ha affermato che ogni governo è in grado di prendere misure antisociali al di fuori dell’Unione europea. Uscire dalla camicia di forza europea basterà a proteggerci da queste politiche? Non è meglio aggredire il problema alla radice, attaccando il capitalismo?

Sono convinto anch’io che la questione fondamentale sia la logica del capitalismo. Ciò che è nuovo, sono le armi di cui il capitalismo si è dotato per meglio sottomettere i popoli. Se domani l’Unione europea non esistesse più, per questo i problemi non scomparirebbero. Non verrebbe eliminato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e si dovrebbe continuare a combattere il capitalismo.

Ma quando si arriva a mettere fuori uso l’arma più efficace del proprio avversario, si è già fatto un grande passo in avanti.

Dobbiamo quindi dare priorità alla battaglia di oggi, che consiste nel far saltare le catene e le camice di forza. Quando le forze progressiste rimettono in causa l’Unione europea, questo offre delle opportunità. Ma quando delle forze presumibilmente progressiste continuano a ripetere “abbiamo bisogno di un’altra Europa”, sono queste forze molto meno simpatiche che si impossessano delle lotte nazionali. Con tutti i pericoli che possiamo immaginare …

Fonte : Investig’Action

Grégoire Lalieu è un assiduo collaboratore diInvestig’Action, un gruppo di giornalisti con sede a Brussels, diretto da Michel Collon, con l’obiettivo di investigare sulle notizie in modo indipendente.

http://www.michelcollon.info/Pierre-Levy-Les-dirigeants.html?lang=fr

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

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