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L’ipoteca delle oligarchie sulle nuove generazioni

 Da dove partiamo?

Gli ultimi dati Eurostat e Istat sull’occupazione in Europa e nell’Eurozona ci dicono che Spagna, Grecia, Portogallo e Italia si confermano come fanalino di coda con un trend trimestrale negativo ormai da anni (una perdita media di un punto percentuale all’anno tra il 2008 e oggi). Preoccupanti soprattutto i numeri della disoccupazione giovanile, che nel nostro paese è del 38,7%  con picchi che al meridione superano la metà della forza lavoro disponibile. Se aggiungiamo la considerazione che tale indice sottostima il problema, poiché non tiene conto dei cosiddetti scoraggiati e include invece chi abbia lavorato anche solo un’ora  a settimana, la situazione risulta ancora più drammatica. Soprattutto se osserviamo che di fronte a un’inadeguata risposta della conflittualità del mondo del lavoro questa situazione diventa terreno fertile per fare dei contratti atipici, o addirittura delle partite Iva, il modello standard di assunzione per chi si affaccia sul mercato in una posizione di piena ricattabilità, specialmente quindi per i giovani non sindacalizzabili e per i quali la figura del sindacato diventa sempre più estranea poiché lontana dal poter render loro una funzione reale se non, al massimo, di servizio (tramite patronati, caf, ecc.). Vanno inoltre ad appianarsi le differenze tra chi ha conseguito una laurea (triennale, specialistica o a ciclo unico) e chi ha un titolo di studio inferiore. Sia in termini di reddito sia in termini di assorbimento occupazionale sul mercato. I margini vanno ad assottigliarsi proprio sulla fascia dei neolaureati, indicandoci come la questione giovanile tanto invocata anche dai media vada intesa sempre più come questione generale e non particolare, come l’instaurazione stabile di un modo di intendere e praticare le assunzioni da parte di una classe imprenditoriale che dentro la crisi non ha altri margini per recuperare profitto in un contesto produttivo ad alta intensità di lavoro come è il nostro. La generazione precaria sta diventando adulta.

 È qui che si apre la partita sulla formazione. Ancora una volta, l’indagine AlmaLaurea conferma il disallineamento tra il livello raggiunto dalla forza lavoro qualificata e l’effettiva domanda sul mercato: il ruolo assegnato all’Italia nella divisione internazionale del lavoro sul panorama europeo porta i giovani laureati a essere spesso sotto inquadrati rispetto al proprio percorso di studi. Salvo la scelta di emigrare all’estero. Ma ciò non toglie che il sistema produttivo nostrano mantiene le sue caratteristiche, e in assenza d’altro sa richiamare masse di immigrati ancora più deboli poiché legate a doppio filo al ricatto del permesso di soggiorno, inserite nella piccola manifattura e nei servizi dequalificati. Mentre dunque gli investimenti in ricerca e formazione subiscono drastici tagli perché non rispondenti alle necessità del capitale italiano oggi, e poiché sotto i vincoli imposti dalla Troika tale spesa viene cancellata dalle voci del bilancio pubblico, quel che ne resterà sarà sempre più delegato nelle mani degli interessi privati, che senz’altro non perseguono gli obiettivi di eguaglianza e mobilità sociale garantiti dal controllo pubblico fintanto che i rapporti di forza sono stati adeguati al confronto.

Come rispondere quindi al padronato, che stando a Squinzi trova la situazione “agghiacciante”, rendendo loro indietro una “patata bollente”, ricordandoci che in assenza di una controproposta da parte dei lavoratori l’unica via possibile è quella già imboccata da tempo, che vede capaci di salvarsi i grandi agenti economici con legami internazionali a scapito di quella fetta di borghesia schiacciata dalla concorrenza globale e dei diritti dei lavoratori calpestati in nome della flessibilità? L’attuale piano internazionale su cui giocano oggi i pochi grandi gruppi industriali italiani è quello della competizione nel libero mercato europeo, che già da tempo la Rdc ha individuato come polo imperialista in emersione dopo la caduta del comune nemico occidentale sovietico e la stipulazione degli accordi di Maastricht. Nel medio periodo sarà quindi possibile immaginare un’altra rotta solo rompendo questi legami, all’interno dei quali è impensabile una svolta di classe per la loro stessa natura congenita, prefigurando obiettivi intermedi che rafforzino l’organizzazione e la rappresentazione del lavoro sugli scenari politici nazionali dei paesi accomunati come noi dallo stesso destino: è questa la proposta dell’Alba mediterranea. In questa diversa struttura internazionale sarebbe finalmente possibile immaginare un reale utilizzo delle forze produttive disponibili e in chiave solidale, assegnando all’università italiana un compito fondamentale in base al patrimonio che potrebbe mettere a disposizione e a servizio della solidarietà internazionalista non in termini ideali ma assolutamente concreti.

Università e mondo della formazione

Il mondo della formazione e universitario meritano un ragionamento più approfondito. Verifichiamo “in tendenza” lo sviluppo di politiche universitarie di classe ed escludenti, che prevedono atenei frequentati da pochi, e poli di eccellenza per pochissimi.

È questa la diretta conseguenza di decisioni prese in anni neanche troppo vicini e che con la crisi hanno subito un’enorme accelerazione (interessante il dato apparente del crollo degli investimenti del Miur nello scambio di seggio tra Gelmini e Profumo, a confermare come la crisi non sia solo un semplice passaggio, bensì l’instaurazione di nuovo scenario stabile nella definizione del nuovo assetto europeo intra- e inter-classista). Ma il recente rapporto del CUN ci pone di fronte a diversi nodi che dovremo affrontare: sostanzialmente, come ricaduta pratica di quanto detto appena sopra, riconosciamo sì la tendenziale difficoltà per interi segmenti di classe ad affrontare la spesa (in termini economici ma anche temporali) che comporta la frequentazione di almeno tre anni universitari, a maggior ragione di fronte alla svalutazione del titolo di studio e alla scarsa ricaduta che lo stesso ha nel definire i margini di una professione conseguente, eppure ad oggi i dati empirici ci dicono che ancora molti sono i giovani figli di lavoratori che intraprendono questa strada, magari abbandonando gli studi prima della loro ultimazione o andando ad ingrossare le ampie fila dei fuoricorso. Ciò ci indica che non possiamo aprioristicamente abbandonare l’intervento diretto nel comparto universitario, ma che anzi proprio ora che diventa più acuta la lunga fase di smantellamento di quella che fu l’università di massa dobbiamo essere capaci di farne emergere le contraddizioni intrinseche.

 Non ci illudiamo di poter in qualche modo influire su processi ormai inevitabili, ma sottolineiamo proprio l’impossibilità che le aspettative di molti si traducano in realtà e che la formazione abbia un valore effettivo se non rompendo con l’attuale paradigma sociale e proponendo un’alternativa credibile, cercando quindi di avanzare schemi di lettura che inseriscano l’università e in generale il mondo della formazione all’interno del più ampio contesto lavorativo, sociale e storico che stiamo vivendo, realizzando quindi una sintesi politica che vada infine a coincidere con quella più ampia e organica della Rdc (alleanza mediterranea, ripudio del debito, rottura con l’UE, riferimenti ideali ai paesi dell’America Latina, costruzione del socialismo nel e per il XXI secolo). Ci imponiamo dunque di essere fedeli a uno stile e a un approccio che hanno caratterizzato i momenti più alti delle lotte del movimento operaio e grazie ai quali la stessa Rdc ha potuto garantirsi negli anni i risultati ottenuti: forti di una posizione generale ampia e di prospettiva, dovremo saper calare nello specifico un intervento mirato che possa rispondere allo scenario attuale.

 Tutto questo va ribadito costantemente nel confronto con gli altri soggetti politici che attraversano i nostri atenei, rimarcando il dato per cui non si debba mettere l’accento su un problema di “governance” ma di funzione delle formazione e della ricerca, poiché in quello attuale la formazione assume un ruolo al momento del tutto funzionale. Le parole d’ordine saranno dunque per noi più fondi e più investimenti programmatici per università e ricerca. L’irrealizzabilità delle nostre richieste nel contesto attuale farà da sponda alla proposta generale sul Mediterraneo.

La situazione attuale

In un paese che si vorrebbe sempre più marginalizzato in ottica europea, sempre più costretto a sottostare a dettami imposti da entità sovrannazionali a cui pare nessuno, a livello istituzionale, abbia la forza né la volontà di opporsi, è interessante osservare in quale modo si cerchi di mettere a frutto uno di quelli che dovrebbero e potrebbero essere settori produttivi – non soltanto in senso economico – di spicco nel panorama italiano: il sistema della formazione.

Assistiamo negli ultimi anni a un processo di aziendalizzazione, soprattutto a livello universitario, il cui risultato non è tuttavia quello di creare materiale dinamico né all’interno del mercato del lavoro né in quello del sapere.

 Prima di un’analisi eziologica, occorre porre la lente su alcuni dati basilari,  innanzitutto riguardanti la situazione lavorativa dei neo-laureati.

Se, per esempio, da un lato si registra una crescita del livello di occupazione, dal 47,8% relativo a un anno dopo la laurea – comunque molto basso – all’ 81,8% relativo a cinque anni di distanza dal conseguimento del titolo di studio, appare sensibile un altro dato, relativo alla percezione che il proprio lavoro sia effettivamente corrispondente al percorso di studi intrapreso. Nello stesso arco temporale il dato positivo in questo senso sale soltanto dal 45,4% degli occupati al 62.8%.

Sintomatico dunque del fatto che il percorso universitario non accompagni più verso il conseguimento di una propria “realizzazione”, o al contrario che sul mercato del lavoro una laurea perda di valore.

 Inoltre, questo dato sintetizza tutti i diversi titoli di studio accademico – primo ciclo, secondo ciclo, ciclo unico – volendo separare i quali avremmo un’ ulteriore differenza nel dato occupazionale tra, ad esempio, una laureato in triennale e uno in specialistica.

Questo assunto sarebbe tutto sommato nella norma, ma altri problemi subentrano in questo senso: il costo dell’università.

 In tempo di misure anti-crisi di tipo austeritario permettersi di affrontare spese, dirette e indirette – costo dei testi, affitto… – legate all’università sta diventando sempre più un lusso, dunque non è detto che l’iscrizione ad un ulteriore ciclo di laurea, master o dottorato sia automatico. Tanto più perché anche le borse di studio si rivelano sempre meno sufficienti a coprire le spese di uno studente medio.

Aumento della pressione fiscale e diminuzione della spesa pubblica sono alla base di questi veri e propri scogli che condizionano il percorso formativo di uno studente, ma anche di un’altra peculiarità che contraddistingue il mondo del lavoro italiano, e che disincentiva, in apparente controtendenza con la necessità di un percorso di studi approfondito e completo per la buona riuscita in termini lavorativi, all’iscrizione a corsi di studio avanzati.

L’elevato numero di laureati disoccupati è imputabile infatti anche alle caratteristiche delle imprese italiane. Mediamente di piccole dimensioni, poco innovative e di scarso impatto nella concorrenza internazionale, esprimono domanda di lavoro poco qualificato, elemento acuito dall’applicazione di politiche fiscali restrittive.

L’aumento della tassazione, generando diminuzione dei consumi, ha ridotto i mercati di sbocco per le imprese italiane che operano nel mercato interno traducendosi in fallimenti o licenziamenti di massa, dato che è sotto gli occhi di tutti. Fioriscono dunque imprese di dimensioni sempre più ridotte, caratterizzate da compressione dei salari, scarsissimi fondi per l’innovazione e precarietà dei lavoratori, il cui peso contrattuale vediamo ridursi di giorno in giorno.

Restrizione del credito, imputabile alle cattive acque in cui navigano le banche in prospettiva di rimborso del debito pubblico, e riduzione della domanda ascrivibile agli effetti delle politiche di austerità, che ha ridotto profitti correnti e attesi, generano una contrazione degli investimenti fissi (5% solo nella seconda metà del 2012) e osteggiano ulteriormente i finanziamenti per l’innovazione.

 Le imprese dunque hanno sempre più la tendenza ad  assumere lavoratori poco scolarizzati, con salari normalmente più bassi di quelli che dovrebbero pagare a individui più qualificati.

Di pari passo si registra una diminuzione sempre più cospicua dell’investimento pubblico – anzi, dell’investimento in generale – sull’università, che vive una parabola in parte simile a quella appena descritta.  Dati OCSE aggiornati al 2009 mostrano, nel caso italiano, un finanziamento pari all’1% rispetto al PIL, contro l’1.5% di media nell’Unione Europea e l’1,6% di media della totalità dei paesi presi in considerazione nell’analisi. Differenziando componente pubblica e privata di questo 1% abbiamo lo 0,8% per la prima e 0,2% per la seconda.

 Negli ultimi tre anni la situazione non è cambiata in meglio, come testimoniato dai dati relativi al FFO (fondo di finanziamento ordinario), che registrano un calo complessivo dei finanziamenti più o meno pari al 20% proprio dal 2009 a oggi, con un andamento regolare del 5% annuo.

Anche tenendo conto della riduzione degli stipendi e delle borse di studio rimane un dato negativo, anzi le risorse a disposizione sono, ad oggi, minori delle spese fisse degli atenei.

In un momento di crisi economica si fa per giunta più difficile per gli atenei ottenere finanziamenti esterni, dunque non ci stupiamo troppo del processo di aziendalizzazione, elemento che è stato posto alla base di molte delle proteste nel settore degli ultimi anni, e non ci stupiamo che questo avvenga tutto sommato in pochi atenei, saggiamente individuati per divenire le “scuole d’eccellenza” per i pochi che se le potranno permettere.

 Alla luce di quanto appena descritto, e non sono che poche pennellate in un quadro vasto e complesso, comprendiamo perché studiare, quantomeno immaginando un futuro in Italia, sia sempre più costoso e sempre meno conveniente. L’Italia, infatti, è uno dei paesi europei con la minore quota di occupazione qualificata, con uno scarto nei confronti della media UE di 6,9 punti percentuali.

 Tornando ora ai primi dati citati, possiamo sottoporli ad un secondo livello di analisi: da un lato è bene tener conto anche del fatto che le percentuali espresse non fanno differenza tra occupati in Italia e occupati all’estero, dall’altro occorre inserirli in un contesto cronologico.

Il fenomeno dei “cervelli in fuga” è ormai questione ben nota, soprattutto per quanto riguarda le materie scientifiche. La preparazione italiana è di ottimo livello e concentrata più sulla teoria che sulla pratica. Quello che per qualcuno è un problema si rivela invece profondamente utile per lo studente che, completato il percorso di studi, emigra all’estero, sostiene un corso applicato a un basso prezzo e intraprende una carriera forte delle salde basi teoriche ottenute in Italia – verrebbe da dire “a carico dello stato italiano” ma di fronte ai dati già citati questa retorica impallidisce –, oppure riceve una borsa di ricerca degna della funzione a cui deve assolvere. L’Italia dunque come serbatoio di capitale umano a servizio delle potenze che fanno di formazione e ricerca il punto forte del loro ciclo produttivo.

Questo elemento offre uno spunto di riflessione anche sulla dicotomia tra lauree umanistiche e scientifiche: se la vulgata infatti vuole che ci siano “più avvocati che dottori” o “più insegnanti che ingegneri” non si tiene conto proprio del fatto che la netta maggioranza dei “migranti intellettuali” appartenga alla seconda categoria. Questo non è l’unico fattore che fa si che si guardi con sempre più diffidenza, o sufficienza, a un laureato in filosofia, lettere, storia, scienze della formazione, perché sono le “facoltà parcheggio”, quelle che non hanno test d’ingresso ultraselettivi (quando non pilotati), ma è una suggestione.

 Per quanto riguarda invece la progressione di questi dati nel tempo vengono in nostro aiuto i dati ISTAT che certificano una crescita del tasso di disoccupazione, a un anno dalla laurea, da valori intorno al 10% relativi al 2007 a valori intorno al 20% relativi al 2011. Il doppio. Precisamente +12% per i laureati di primo livello e a ciclo unico, +10% per quanto riguarda le lauree specialistiche. Circa in egual misura, va da sé, si registra un calo del tasso di occupazione, all’interno del quale va registrata un’altra tendenza: la contrazione del dato relativo alla stabilità lavorativa – di 3 punti percentuali per i laureati a ciclo unico, 6 per i laureati in specialistica e 10 nel primo ciclo – a fronte di una crescita sensibile del lavoro senza contratto.

Troppo facile sarebbe gridare al lavoro nero flagello del paese, occorre impugnare di nuovo la panoramica sull’impresa italiana per ricordare che la preferenza di lavoratori a bassa scolarizzazione, la precarietà, il rischio concreto e continuo di licenziamento e la diminuzione del peso contrattuale, oltre all’abbassamento dei salari, conducono inevitabilmente a intraprendere soluzioni “di comodo” non solo per una delle parti. E’ troppo facile denunciare il lavoro nero senza rendersi conto della situazione che lo genera.

 Anche per quanto riguardi i salari il conto è in rosso rispetto agli ultimi anni. Sempre mantenendo gli stessi parametri, ovvero arco temporale 2007-2011, a un anno dalla laurea gli occupati percepiscono un calo di stipendio vicino ai 200 euro di media, arrivando a una cifra vicina ai 1000 euro al mese. Nel 2013, invece, la media pare essere 871 euro mensili, un ulteriore calo drastico.

Di fronte a questa situazione, molti giovani preferiscono non laurearsi, o non ne hanno la possibilità, la percentuale di laureati rispetto alla popolazione è bassissima, per quanto riguarda la larga fascia d’età tra i 25 e i 64 anni si inscrive intorno al 16-17%, con un picco intorno al 24% per i giovani (25-34) e un dato che lambisce appena il 10% tra i 55 e i 64 anni.

Questo ci mostra come la tendenza ad una bassa scolarizzazione sia interpretabile come un circolo vizioso, da un lato è bassa la tradizione a laurearsi, dall’altro gli elementi di disincentivo sempre maggiori in questi tempi ostacolano la produzione di un’inversione di tendenza nelle nuove generazioni.

 Il dato relativo alle lauree è poi sempre più un dato “di classe”, quasi ereditario: si laurea soprattutto chi può permetterselo con agio, senza imporsi grandi sacrifici, e in generale si laurea soprattutto chi ha laureati in famiglia. Un trend ben difficile da invertire se laurearsi è sempre più gravoso per il portafogli e sempre più una scommessa. Le borse di studio legate al reddito, infatti, sono sempre meno cospicue – gli studenti aventi diritto che hanno potuto usufruirne sono calati dal 2009 al 2011 dall’84% al 75% – e le borse di merito sempre più esclusive. Dunque, per una famiglia non abbiente iscrivere un figlio è un salto nel vuoto, con la sola speranza di una media altissima nel rispetto dei tempi, cosa che non si può assolutamente dare per scontato a priori, quindi la possibilità di non iscrizione diventa sempre più allettante.

 Inoltre, come già detto il mercato del lavoro in Italia è peculiare per la quantità di lavoratori a basso titolo di studio, per avere un po’ di dati il 46,6% degli occupati ha conseguito il diploma superiore, il 35,8% è fermo alla scuola dell’obbligo e solo il 17,6% è laureato. Se rispetto alla media europea il primo dato è tutto sommato omologato, il secondo è nettamente superiore (22% media UE) e il terzo decisamente inferiore (29,1%). Fermo restando tuttavia che la laurea è effettivamente un titolo di studio su cui investire, attribuisce maggior peso contrattuale e garantisce un lavoro più qualificato, ma non particolarmente in Italia. Tra i lavoratori con posizione manageriale infatti si amplia il divario tra i laureati (15%) e chi ha concluso soltanto la scuola dell’obbligo (37%). Il mito delself-made mane dell’esperienza che vince sulla pratica non bastano a giustificare la bassa scolarizzazione della classe dirigente.

 L’università, quindi, non è più, per quanto si dica, una carta vincente per la produzione del paese, sono sempre meno gli studenti che vi si iscrivono e sempre più coloro che prolungano una permanenza disillusa e rassegnata al suo interno. Nell’anno accademico 2010-2011 il 33,6% degli iscritti è fuori corso, e addirittura il 17% totalmente inattivo – nessun esame dato in un anno – sintomatico da un lato della reticenza ad entrare in un mondo del lavoro sempre più ostile, dall’altro di come i calci assestati alle reni di questo sistema in termini di tagli e riforme stiano cominciando a influire anche sulla qualità e sui servizi offerti.

 Sempre maggiore è anche il numero di coloro che non ci provano nemmeno, dal 2003 gli iscritti sono scesi da 338.482 a 280.144 nel 2011-2012, dato compensato in minima parte, tuttavia, dall’aumento costante di iscrizione di studenti stranieri, da 8.252 a 11.510 nello stesso periodo.

Altro dato preoccupante è la rimarcazione del divario tra sud e centro-nord, non tanto per quanto riguarda iscrizioni e numero di laureati, ma soprattutto per l’accesso al mondo del lavoro, con una differenza occupazionale post-laurea pari a 17 punti percentuali, similmente a quella relativa ai salari. Non soltanto per la minore offerta di lavoro presente nel mezzogiorno, ma anche perché gli atenei d’elite, professionalizzanti e titolati sono sempre più quelli del centro-nord, tanto che la mobilità lavorativa da sud a nord è spesso preceduta dalla mobilità per motivi di studio.

Per arrivare ad una conclusione, ci troviamo di fronte a una situazione contraddittoria nel mondo della formazione, si parla sempre più di meritocrazia ma scopriamo che la maggioranza dei lavoratori non possiede nemmeno una laurea di prima ciclo, e allo stesso tempo l’iscrizione all’università è sempre più esclusiva. La formazione è ancora di alto livello – tanto che assistiamo all’incremento di afflusso dall’estero – ma il mercato interno è cieco ai prodotti che essa crea, i quali conseguono ottimi risultati, e generano profitti, all’estero.

 In sintesi, è invertito il senso stesso delle politiche formative, non è più l’istruzione a generare crescita, ma la crescita economica – eventualmente – consente e giustifica finanziamenti all’istruzione i quali, letti in questo modo, sono poco più che puri costi per lo stato.

 Alternative credibili

Quello che occorre fare dunque è invertire la rotta, che nel modo in cui è avviata porta a naufragio sicuro, e tornare a interpretare la formazione come fonte di crescita economica, di produzione. E appare possibile in un’ottica di rottura dell’ Unione Europea e di nuova intesa internazionalista, basata sullo scambio e sulla solidarietà tra i popoli, mettendo quindi a frutto un sistema di formazione che per quanto stia andando a perdere in competizione con i sistemi egemoni e “pigliatutto” del panorama europeo può rivelarsi all’avanguardia nel contesto mediterraneo.

Libero da vincoli di bilancio onerosi e assassini lo stato italiano potrebbe e dovrebbe investire su una formazione pubblica interpretata come polo di formazione non di prodotti di cui paesi esteri possano godere senza spendere un marco, dollaro o sterlina per coltivarli, ma di veri e propri frutti condivisibili, socializzabili nella nuova unione che auspichiamo. La classe dirigente della nuova unione. Per fare questo occorre investire, per far sì che la nostra università, la nostra scuola e implicitamente il nostra stato si faccia attraversare da un’ondata di nuovi studenti ai quali offrire i mezzi per costruire un sistema innovativo, i cui risultati portino nuova linfa e stabilità a tutti i paesi che vi prendono parte. In questo senso la funzione di crescita economica anche interna attribuita alla formazione pubblica.

 E’ necessario che l’università si faccia carico di un portato multietnico e multiculturale che ribalti i saperi in laboratorio futuribile, forgiando e malleando le materie in funzione del nuovo sistema economico, politico e culturale. Creare benessere condiviso può e deve partire dalla formazione, abbattendo le barriere d’accesso economiche e sociali in virtù della stessa apertura alla base della creazione di un’immaginata ALBA mediterranea, contrapposta alla chiusura individualista e competitivista dell’ Unione Europea.

Creare classe dirigente del futuro non vuol dire soltanto creare classe politica, vuol dire trasformare ogni facoltà in un motore di propulsione per l’innovazione necessaria in tutte le materie, dall’economia al diritto, dall’ingegneria all’architettura, le basi teoriche del nuovo sistema tanto quanto la sua scienza applicabile. Tutto il corpus necessario per rendere l’alternativa credibile un’alternativa praticabile, e ancora di più, un esempio studiabile e possibile da replicare.

Questa dunque la seconda funzione per il sistema di formazione italiano, oltre allo stato di elemento di punta nello scambio internazionale, considerata l’attrattività che ancora mantiene soprattutto verso studenti provenienti dai paesi “poveri” dell’Europa e del Mediterraneo, dai Balcani e dall’Est Europa più che da Francia e Germania, fanalini di coda che possono invece diventare interlocutori primari nel processo di affrancamento dalle potenze centrali. La fondazione del terreno di dialogo tra realtà in relazione positiva.

 E questo ci porta ad un altro elemento non trascurabile. Se infatti a introdurre nuova linfa economica e motivazionale è l’investimento di capitale, economico e umano, nella scrittura del futuro, nel coinvolgimento in un progetto destinato a cambiare le sorti dei paesi sottomessi e colpiti duramente dal sistema capitalista globale, non è da sottovalutare la necessità di produzione di cultura.

 Non si parla di una cultura fine a sé stessa, né tantomeno di riempire il vago assunto ricorrente secondo cui “le democrazie hanno bisogno di saperi”, ma di rileggere il passato e il presente in una nuova ottica. Non si tratta di mistificazione, bensì di ritrovare radici comuni, di spodestare la tradizione culturale liberista e neoliberista dal suo trono egemone, che relega movimenti rivoluzionari a utopie o eresie da operetta, di ritrovare la tradizione antirazzista e antifascista. Si tratta di rifondare culture di sostenibilità, di equo e corretto sfruttamento delle risorse, di solidarietà anziché di competizione estrema, di guardare in faccia il vero volto della storia, della scienza, della filosofia, della letteratura, senza farsi accecare dall’egocentrismo o dall’etnocentrismo, amalgamando saperi in una costruzione “meticcia”, che difenda le origini ma promuova la condivisione dinamica.

 Una cultura, insomma, che divenga davvero fondamento etico del comportamento, non nel senso retorico e tendenzialmente mistico-religioso che conosciamo ma nel riscontro pratico e socializzabile, che risvegli l’interesse sopito da anni di stagnante ottusità e retorica. Che serva a operare scelte e riconoscere dove stia il vero utile e dove stia il vero avversario.

Tuttavia, queste sono solo parole fino a che si manterrà lo status quo. Per quanto la lotta politica della Rete dei Comunisti sia in fase di emersione vediamo ancora lontani i risultati sperati, dunque vale la pena immaginare il settore della formazione, per come è tuttora, come un nodo centrale d’intervento.

 Dove, altrimenti, intervenire per proporre, condividere, costruire insieme con le generazioni del futuro il progetto rivoluzionario?

Inoltre, come possiamo pensare di cambiare il sistema dell’istruzione e l’intero assetto culturale senza prendere voce in capitolo, porre adesso domande stringenti e generare urgente consapevolezza?

 Una proposta “eretica” deve far breccia innanzitutto nei luoghi in cui il sapere è impartito, in cui si trasmette e si contribuisce a rigenerare costantemente quel sistema con il quale intendiamo rompere. Che è tuttavia anche il luogo in cui resistono focolai di condivisione, di elaborazione e produzione intellettuale, un possibile luogo di conflitto nel quale manca tuttavia una proposta innovativa, per ridare vita a quel movimento che con la fine – apparente – del berlusconismo si è assuefatto nella mancanza di parole d’ordine forti e di controproposte. Nel momento in cui la politica nazionale si è fatta meno mediatica ma la contingenza assai più stringente è mancata la capacità di tenere vivo quel che è apparso come un movimento di grandi numeri ma scarsa controproposta a lungo termine e ampio spettro, che ha risposto punto per punto più che costruire piattaforme unitarie. Che forse ha tardato troppo a riconoscere che le dimensioni del problema da fronteggiare tracimavano i confini italiani, o che forse ha latitato nel momento di condividere questa consapevolezza fino a quando non è stata sotto gli occhi di tutti, troppo tardi.

Per questo è necessario un intervento della Rete nel comparto formativo, nella realtà giovanile, per generare dibattito con studenti, ricercatori, docenti, per proporre ciò che ai più ancora sembra impensabile, per rinforzare la credibilità e se possibile l’attuabilità di tale proposta e dare un punto di riferimento, una voce chiara, un paio di gambe fresche a chi aspetta il momento di muoversi, a chi ha bisogno di sbloccare la propria coscienza nel confronto con chi assume la responsabilità di affermazioni forti ma, forse, sempre più condivise nel profondo.

 E non di secondaria importanza, per arruolare compagni e compagne pronti a prendere parte a un progetto rivoluzionario di alternativa credibile, di lotta ai soprusi dell’egemonia capitalista.

Un mondo che la forza della cultura, dell’innovazione, dello sviluppo e della solidarietà, insieme al alla rabbia di nuove generazioni a cui si cerca di negare la fiducia in un futuro diverso,  possono contraddire, contestare e  forse perfino spazzare via.

GIOVANI E MONDO DEL LAVORO: DISOCCUPAZIONE E PRECARIATO

Partendo dalla questione della disoccupazione e prendendo in considerazione i dati Istat relativi all’ultimo trimestre del 2012, emerge un quadro drammatico: il tasso di disoccupazione

giovanile (15-24 anni) ha raggiunto il 39,0% (6,4 punti percentuali in più nel raffronto tendenziale con i dati dell’ultimo trimestre del 2011),con un picco del 56,1% per quanto riguarda le giovani donne del Mezzogiorno. I dati (ricordiamo che si tratta di percentuali “ufficiali”, cui bisogna aggiungere sempre almeno 5-6 punti) che arrivano dagli altri paesi Piigs (in Grecia e in Spagna la disoccupazione giovanile sfiora il 60 %) ci mettono di fronte agli esiti di quelle stesse politiche che vengono portate avanti qui in Italia: dove già non è così, la crisi economica si va trasformando rapidamente in crisi sociale.

 Per quanto riguarda invece i dati relativi all’aumento esponenziale del precariato, in base ad un’indagine condotta dal centro studi Datagiovani nel 2012, che analizza

l’andamento del precariato giovanile negli ultimi otto anni, nel 2009 è avvenuto il sorpasso tra percentuale di occupati adulti rispetto ai giovani, con un divario che nel primo trimestre del 2012 si attesta intorno ai 5 punti percentuali. L’incidenza del precariato sotto i 35 anni è raddoppiata in otto anni, passando dal 20% del 2004 al 39 del 2011, nel primo trimestre 2012 si è sfondato il muro del 40%: un giovane su due con meno di 24 anni è precario, circa il 23% tra i 25 e i 34 anni, contro percentuali pressoché dimezzate per le classi d’età più mature. Si tratta di un fenomeno che è più evidente tra le donne, dove la crescita, negli ultimi otto anni, è quasi doppia rispetto agli uomini.

Si assiste ad un impressionante livellamento verso il basso delle condizioni di lavoro, per cui, ad esempio, la probabilità di precarizzazione per chi si è diplomato in un istituto tecnico non è distante da quella di un medico o di un ingegnere, aggirandosi la prima intorno al 13 % e la seconda intorno al 10%.

 D’altronde, le stesse Università aziendalizzate si dotano di strumenti, come il job placement, che, operando in sinergia con enti privati, svolgono la funzione di cinghia di trasmissione con il mondo del precariato, consegnando migliaia di giovani studenti e neolaureati al tritacarne dei tirocini e degli stages gratuiti/sottopagati o direttamente al lavoro precario in aziende sempre più integrate con il mondo universitario.

 Nell’ultimo bollettino della Bce di Marzo troviamo scritto che “è particolarmente importante far fronte alla disoccupazione giovanile e di lunga durata attualmente elevata. A questo scopo sono necessarie altre riforme dei mercati del lavoro e dei beni e servizi per creare nuove opportunità di

occupazione, promuovendo un contesto economico dinamico, flessibile e concorrenziale”. Eppure, sappiamo bene che in realtà quello della disoccupazione di massa non sia che il risultato delle politiche economiche e sociali perpetrate dalla classe dirigente  per  tentare di riequilibrare il mercato del lavoro a fronte della caduta dei profitti; così come sappiamo che la ristrutturazione neoliberista della divisione del lavoro a livello europeo, iniziata negli anni ’80 e in fase di accelerazione, assegna ai Paesi euromediterranea il ruolo di paesi importatori, con un mercato del lavoro terziarizzato, iperprecarizzato e soggetto ad un attacco crescente al costo del lavoro.

Giovani e sindacati

 Il dato politico uscito dalle ultime elezioni testimonia il riversarsi della frammentazione sociale del Paese nel voto, con l’exploit del Movimento 5 stelle che raccoglie la rabbia e il rigetto per l’attuale classe politica di decine di migliaia di giovani studenti, neolaureati e precari: questo rigetto

investe ormai da tempo anche l’ambito sindacale. La sfiducia nelle forme di rappresentanza tradizionale dei sindacati concertativi, la percezione sempre più diffusa della loro sostanziale complicità nelle politiche di austerity e di distruzione dei diritti del mondo del lavoro, si traducono però raramente in disponibilità a lottare e ad organizzarsi nel sindacalismo di classe e conflittuale.

D’altro canto, i tentativi di organizzazione del mondo del precariato all’interno di esperienze (come ad esempio quella di “Sciopero precario”durante le ondate di protesta partite dal mondo della scuola negli ultimi anni, si sono scontrate con l’incapacità di comprendere l’attuale fase politica nazionale ed  europea, legandosi spesso a partiti o sindacati collaterali o subalterni al “centrosinistra”.

 A partire dalla totale autonomia rispetto ai sindacati concertativi, e da una posizione chiara riguardo alla necessità di rifiutare il ricatto del debito e le politiche di austerity imposte dai patti europei, è possibile intercettare pezzi di mondo giovanile soggetti a condizioni materiali sempre più disastrose: lo dimostrano esperienze come le sperimentazioni di sindacalismo metropolitano, che ggregano forze, studenti, precari, migranti, conducendo lotte che rivendicano i diritti al reddito e all’abitare.

 Centri e periferie

Lo sviluppo di politiche di esclusione dalla partecipazione alla spartizione del plusprodotto porta inevitabilmente con sé l’avanzamento della costituzione di aree a cui vengono affidati ruoli e “status” diversi. Ciò vale tanto sul piano della divisione internazionale del lavoro, e della conseguente divisione dell’Europa e del bacino mediterraneo in due macro aree distinte, tanto all’interno degli Stati e dello loro stesse città, e porta quindi alcune conseguenze nella nostra analisi e nelle nostre pratiche.

 Sul piano urbanistico vediamo in Italia ancora un prospettiva di tendenza nella creazione di grandi aree periferiche nei centri urbani, e non una già completamente realizzata situazione di questo tipo. Sia perché pochi sono i grandi agglomerati urbani, ma grande è la diffusione dei piccoli abitati (conseguentemente alla capillare dispersione della piccola impresa), sia perché laddove gli spazi fossero escludenti è intervenuta finora l’istituzione scolastica a fungere da ottimo fattore di integrazione tra settori sociali differenti, pur perpetuando da una generazione all’altra le differenze sociali come ai tempi di don Milani. Il problema si ha e si avrà però sempre più laddove comunità di destino differenti non si incontrano neppure negli stessi istituti scolastici, creando veri bacini di contrapposizione sociale. In tale scenario va collocata la questione dell’immigrazione. L’ultimo censimento ci parla di un aumento degli immigrati su suolo italiano triplicato nel corso degli ultimi dieci anni, raggiungendo quota 4 milioni, tale da permettere autonomamente una crescita demografica nazionale del 4%, e da andare a sostituire l’immigrazione interna dal meridione al nord del Paese per il soddisfacimento delle necessità del nostro sistema produttivo. È un fenomeno con alcune peculiarità: concentrazione nelle regioni del Centro-Nord, varietà di provenienze, scarsa concentrazione etnica, dispersione territoriale. Sono questi fattori, diremo qui in breve, che ci sembrano portare tutti all’affermazione di un modello di convivenza per assimilazione, dove tendenzialmente le persone provenienti da luoghi diversi assumono le caratteristiche distintive della società di arrivo, perdendo rapidamente i tratti culturali del loro luogo di provenienza.

Torniamo quindi a quanto dicevamo più sopra: in Italia è talvolta assente o comunque lento il processo di creazione di periferie sul modello francese, tedesco, inglese o americano. Questo comporta da parte nostra un’attenzione particolare negli interventi sui territori poiché non possiamo assumere direttamente gli esempi di altre esperienze dall’estero e delle loro banlieu. Eppure dovremo capire come affrontare il fenomeno immigratorio che porta e porterà con sé sempre più manifestazioni di disagio. I giovani immigrati, percentuale sempre maggiore sul totale della popolazione studentesca, vivono situazioni di dispersione scolastica, di rallentamento nel percorso di studi obbligatori rispetto ai coetanei italiani, frequentano corsi superiori professionalizzanti che portano a lavori dal reddito medio corrispondente al 72% di quello delle persone meglio istruite (lavori infatti perlopiù evitati dagli italiani). Se di questi tempi è impensabile immaginare investimenti strutturali nel mondo dell’istruzione che permettano agli studenti immigrati di colmare il gap coi coetanei e allo stesso tempo i figli degli stranieri non riusciranno a conquistare una posizione sociale migliore rispetto a quelle dei loro genitori, allora si dovranno affrontare situazioni di forte disagio sociale. Una volta ancora leggiamo la necessità di intervenire con una proposta politica sul mondo della formazione, provando a costruire ponti tra l’immaginario dei giovani immigrati e i loro connazionali in rivolta nei Paesi di origine.

 Questo ci porta a considerare la totale immanenza della questione internazionalista oggi. Dando per sottintesa l’analisi che ha portato la Rdc a considerare possibile uno sguardo tra le due sponde del Mediterraneo, vogliamo in questa sede solo problematizzare ulteriormente la faccenda all’attenzione dei compagni: se la nostra proposta politica ha oggi valore solo qualora trovi consensi e appoggio strategico nel resto dell’area mediterranea, come immaginare nel futuro il senso ampio di un nostro intervento politico in un Paese alla periferia produttiva europea ma non ancora in fibrillazione, dove il tasso di indebitamentoprivato più basso dell’eurozona e i risparmi delle famiglie permetteranno ancora per un po’ di ammortizzare gli effetti della crisi? Come intervenire quindi, in assenza di un’organizzazione politica internazionale comune, a sostegno e in risposta alle rivolte che si producono in altri territori? Più generalmente, come rispondere in termini organizzativi all’enorme ampliamento degli spazi di vita possibili oggi per i giovani di modo che i loro studi all’estero in cerca di un ruolo qualificato all’interno della classe dirigente  o la scelta di emigrare in cerca di lavoro possano trovare una sintesi di bisogni e prospettive sul piano politico nazionale? L’organizzazione deve saper diventare adeguata a una gioventù che per precarietà e mobilità diffusa viaggia sul piano internazionale, evitando che l’apporto politico dei giovani si riduca alla condivisione di informazioni in rete, ma facendo semmai di questa pratica un propulsore per scopi più alti. Nella costruzione reale di una risposta a questi interrogativi, sembra nuovamente confermarsi la necessità di un nostro investimento nel mondo della formazione perché si costruisca la classe dirigente rivoluzionaria di domani, che sappia aiutarci a dare risposte teoriche e tecniche a questi e ai più generali temi della nostra azione politica.

Antifascismo oggi

Il populismo è sempre terreno fertile per risposte reazionarie. L’atteggiamento dei grillini sul tema dell’immigrazione lancia delle fotografie sulla pancia di consistenti fasce di popolazione che non vanno sottovalutate. Se già la guardia dovesse essere mantenuta alta nei decenni scorsi con l’avvio del percorso leghista, oggi questa attenzione deve essere più alta che mai. L’elevazione dell’immigrazione a fenomeno ormai non secondario, lo scontento di fasce intere di popolazione che non vedono realizzate le proprie aspettative e una risposta organizzativa inadeguata delle forze della sinistra possono essere la combinazione esplosiva perché i fascisti, vecchi o nuovi che si definiscano, possano trovare spazio nei vuoti sociali e politici delle periferie, delle scuole di provincia, nell’emarginazione. Da un lato quindi il rischio di un rifiorire del fascismo come alternativa credibile per i soggetti esclusi, dall’altro quello di una stretta autoritaria da parte dello Stato e del suo sistema repressivo, di cui già abbiamo visto alcuni fenomeni, sebbene al momento non sembra che l’alternativa puramente reazionaria rientri tra le strade ipotizzate dalla borghesia transnazionale europea come risposta di gestione della pace sociale nella crisi. I primi fuochi delle rivolte hanno inoltre riacceso in Europa l’invocazione alla salvaguardia dei valori: del patrimonio, dell’occidente, della laicità liberale. È l’ideologia che domina in tutti i paesi che si presentano come civilizzati. Un’ideologia che demarca una separazione tra l’individuo medio e il diverso che risiede nel precario, nel giovane e nell’immigrato che, sia mai, si ribellassero. Sono diversi i sintomi che dimostrano che, nei nostri vecchi Stati imperialisti, ci stiamo avvicinando a passi lenti ma decisi a tentazioni discriminatorie di questo tipo. Con giustizia oggi bisogna intendere anche, addirittura prima di tutto, l’eliminazione delle parole separatrici. Si tratta di affermare il carattere generico, universale e mai identitario della verità che aspiriamo di comprendere tramite strumenti scientifici. Si tratta di far sparire, grazie alle scelte reali, la finzione dell’oggetto identitario, dell’oggetto medio di Stato. All’interno di un rigoroso confronto con l’oppressione di Stato, questo punto vuole avvalorare uno politica fedele alla rivolta.

 Aldilà dei meri richiami istituzionali alla democrazia formale che puntano il dito contro le nefandezze del ventennio come argomento per i libri di storia, ultimamente abbiamo assistito a momenti di lotta che hanno saputo coniugare al meglio parole d’ordine dell’antifascismo con le rivendicazioni dei movimenti e delle realtà che si battono per la liberazione di spazi, contro la repressione e la connivenza tra apparati statali e gruppi di estrema destra, contro il razzismo di stato, per il diritto all’abitare, per un’aggregazione culturale e giovanile diversamente intesa. La liberazione non come mito ma come pratica politica, l’antifascismo come istanza che dia collante alle lotte delle nuove generazioni che si stanno affacciando su una realtà i cui contorni stanno mutando velocemente.

Il nostro ruolo

Di fronte ad uno scenario come quello che abbiamo descritto nei paragrafi precedenti, riteniamo che l’attuale compito del Coordinamento giovani della Rdc non risiede  solo nel mantenere accesa la lampadina dell’alternativa comunista nel confronto con le altre realtà politiche antagoniste, ma che, nel declino di queste, l’organizzazione si deve assumere in prima persona la responsabilità di proporre delle vie d’uscita praticabili e credibili non solo dalle organizzazioni della sinistra ma direttamente da tutti quegli studenti, giovani e precari che subiscono gli effetti della crisi e delle politiche di macelleria di futuro imposte dalla UE.

Diviene fondamentale quindi ampliare enormemente  l’opera di arruolamento tra i giovani .In altre parole si tratta, non solo di mantenere e diffondere la nostra posizione politica, ma dicostruire organizzazione politicacapace di intervenire  efficacemente nello scenario politico attuale.

Di fronte alla fine delle esperienze che anno avuto l’egemonia teorica all’interno del movimento studentesco, universitario e giovanile nelle ultime ondate di mobilitazione,  come le letture post negriane sul capitalismo cognitivo, e l’affermazione di parole d’ordine che non parlano più di specificità ma di bisogno di soluzioni generali, si apre per noi un’enorme possibilità. Affermare e declinare sul terreno studentesco la proposta di rottura della Ue significa comprendere tutti quei meccanismi sovrastrutturali che hanno nel tempo trasformato e modellato sulle esigenze europee il mondo della formazione italiano. Comprendere per sovvertire e proporre controproposte che siano elemento di conflittualità nel qui ed ora.

Questo però non può essere scollegato da un’opera di riorganizzazione del tessuto politico e militante giovanile che parta immediatamente quantomeno nelle città in cui siamo presenti. La ritirata politica della sinistra nell’ultimo anno ha avuto infatti nel movimento studentesco un peso davvero rilevante. Ciò ci obbliga ad essere noi i primi attori della riorganizzazione per evitare di parlare nel deserto. Sviluppare e rafforzare  la nostra attività all’interno degli atenei e dei luoghi di aggregazione giovanile in cui siamo presenti, ci permette di dare forma a una serie di nodi che devono divenire, in quanto aventi peso politico reale nel contesto di riferimento, punto di riferimento per tutte le varie realtà sparse nel territorio.

Avere quindi un’idea di riorganizzazione che sia frutto di una iniziativa diretta dei compagni della RDC sul settore giovanile e studentesco, ci spinge ad aprire una confronto costante con tutti i compagni dell’organizzazione. Questo percorso deve essere infatti sentito proprio da tutta l’organizzazione che si deve dotare a tutti i livelli di quegli elementi di attenzione politica che permettano ai compagni specificatamente impegnati in questo settore di svolgere al meglio il proprio compito.

Nei prossimi mesi sono già state calendarizzati una serie di appuntamenti che vanno da una presenza costante del coordinamento sulla pagina di Contropiano all’organizzazione di un seminario sull’antifascismo alla preparazione di un momento di lancio per l’autunno. Non entriamo qui più nello specifico di un progetto che sta prendendo forma e che sarà mano a mano portato all’attenzione di tutti i compagni dell’organizzazione.

Coordinamento Giovani della Rete dei Comunisti

    

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