Menu

Forconi: il dibattito è aperto

Contropiano si è occupato molto e in maniera assai approfondita di ciò che in tutta Italia si sta muovendo in questi giorni e che solo per motivi di spazio e tempo – per comodità, insomma – possiamo chiamare ‘movimento dei forconi’. In realtà la fase dei forconi era quella precedente, risalente a parecchi mesi fa, quando a scendere in campo furono in particolare categorie sociali ben definite – soprattutto autotrasportatori, allevatori, agricoltori – per un moto di protesta legato a richieste specifiche di tipo sindacale-economico. All’interno di quella mobilitazione settoriale si infiltrarono numerose forze di estrema destra, particolarmente in Sicilia e nel resto del sud, a partire da Forza Nuova. Già all’epoca, alcune realtà della sinistra cercarono di “bagnarsi in quel mare”, nel tentativo di comprendere cosa si stesse muovendo in certi settori della società italiana colpiti dalla crisi e di orientarne rivendicazioni e immaginario, anche se con scarsissimi risultati.

Un anno dopo il fenomeno si ripresenta sotto altre forme. Meno ‘sindacali’, è evidente. Le manifestazioni, i blocchi, i presidi di questi giorni non vedono la presenza massiccia di autotrasportatori, allevatori, agricoltori, commercianti. I numeri sono nettamente inferiori a quelli della prima fase, perché molte organizzazioni di categoria o sono cinghie di trasmissione dei partiti di centrodestra e centrosinistra e quindi non sono disponibili al conflitto, oppure sono rimaste scottate dai beceri tentativi di strumentalizzazione da parte delle organizzazioni fasciste che hanno pensato di trovare spazio e agibilità, oltre che consensi elettorali, all’interno di categorie sociali che la crisi spinge verso rivendicazioni nazionalistiche e genericamente ‘anticasta’.

A partire dal 9 dicembre assistiamo ad una mobilitazione a macchia di leopardo, con caratteristiche diverse da città a città, con alterne fortune ma con tratti che abbiamo cercato in questi giorni di individuare e descrivere, anche in tendenza. Toltesi di mezzo la maggior parte delle organizzazioni di categoria, le mobilitazioni hanno perso molto del loro carattere sindacale e acquisito tratti soprattutto politici, per quanto generici, contraddittori e basati su un ‘tutti a casa’ che nasconde la difficoltà dei ceti medi in crisi di immaginare un programma politico alternativo e di rottura con l’esistente; un vuoto coperto ad arte dalle organizzazioni di estrema destra che forniscono l’infrastruttura della mobilitazione con parole d’ordine nazionaliste, “antipolitiche” e corporativistiche.

In questo senso affermare come alcuni fanno che i fascisti si stiano “infiltrando” in un movimento che rappresenta comunque un pezzo genuino di società che si scaglia contro il governo, la crisi e le contraddizioni del sistema ci sembra non corrispondere al vero. Altro è riconoscere che in alcuni territori si stiano muovendo alcune figure sociali – commercianti, ambulanti, ma anche disoccupati, esodati ecc – che prescindono molto spesso dalle caratteristiche e dalle identità delle realtà organizzatrici – Forza Nuova, Casapound, Life, organizzazioni agrarie o degli autotrasportatori di chiara matrice fascistoide – e che esprimono in forma disordinata e congiunturale la propria rabbia.

Ciò che ha diviso le diverse realtà della sinistra radicale e antagonista nel giudizio su quanto sta accadendo fa riferimento a due questioni fondamentali: l’analisi del fenomeno e quindi anche la strategia da adottare rispetto a ciò che si muove. Boicottare e denunciare le mobilitazioni oppure parteciparvi nel tentativo di entrare in contatto con figure sociali altrimenti egemonizzabili dalla destra estrema? Una contrapposizione schematica, questa, che in realtà prevede una serie infinita di atteggiamenti intermedi e di ragionamenti assai più complessi.

Da molti viene rilanciato il giusto richiamo a non bollare tutta la protesta come fascista e quindi da boicottare. Viene spesso citata la necessità di ‘sporcarsi le mani’ nel tentativo di interloquire con i ceti medi in difficoltà per cercare di aprire con loro una prospettiva comune di opposizione alla logica dell’austerity e dello smantellamento dei diritti e delle garanzie. Il problema è che in alcuni casi l’invito sacrosanto a sporcarsi le mani non si traduce in indicazioni pratiche, in percorsi possibili e funzionali, e rischia quindi di rimanere uno slogan autoconsolatorio ma poco efficace. E pericoloso, perché foriero di ambiguità e fraintendimenti nel momento in cui si dà indicazione di gettarsi in una mischia che ha caratteristiche culturali e di classe niente affatto facili da maneggiare. Da questo punto di vista il tema non è tanto se sia o no necessario ‘sporcarsi le mani’ con settori sociali tendenzialmente reazionari, tritati dalla crisi e scaraventati verso il basso della scala sociale, ma di come un movimento di classe ancora poco più che abbozzato possa intervenire su questi settori producendo egemonia e sganciamento da pulsioni razziste e nazionaliste, che si rischia invece di alimentare.

La nostra posizione la potete leggere nei numerosi interventi che abbiamo pubblicato nell’ultima settimana. Qui di seguito riportiamo invece altri interventi che riteniamo interessanti sulla questione e che esprimono valutazioni diverse, a volte contrastanti. Altri ne seguiranno nei prossimi giorni. Buona lettura.

*****

I Forconi e qualcosa di più?

Di Connessioni Precarie

http://www.connessioniprecarie.org/2013/12/10/i-forconi-e-qualcosa-di-piu/

Blocchi, saracinesche abbassate e scontri di piazza. È stato questo il 9 dicembre dei Forconi? Si era detto che si trattava di fascisti e in molti hanno continuato a ripeterlo mentre Piazza Castello a Torino si popolava (ma neanche così tanto come i media hanno fatto credere) di bandiere italiane e saluti romani. Altri hanno preferito una lettura diversa dei fatti, affascinati dall’insorgenza spontanea o apparentemente tale, dalla presenza del (sotto)proletariato di periferia, dalle pietre che volavano libere verso il Palazzo della Regione. Metti insieme l’evocazione dei «provocatori fascisti», da un lato, e l’esplosione spontanea della rabbia, dall’altro, ci aggiungi l’ambientazione tra gli eleganti palazzi del centro di Torino ed ecco che scatta l’automatismo di movimento: ci siamo, dunque, anche la nostra generazione ha la sua piazza Statuto che non ha saputo prevedere. E che soprattutto non ha saputo ascoltare, alla ricerca di una classe esplosiva che non c’è perché sarebbe rintanata nelle periferie, dove si nutre di un odio di casta che alla lunga non potrà che rivelarsi produttivo. Ma siamo sicuri che il 9 dicembre in piazza Castello ci fosse la «razza pagana» del Terzo Millennio? La brama di meticciato può produrre spettri e sviste.

La composizione della giornata di ieri era più complessa di quella che si è vista a Torino, ma proprio la sua toponomastica può darcene un indizio. A separare «quella piazza» Statuto dall’«attuale piazza» Castello c’è via Garibaldi, la via del centro adibita allo shopping cheap, e non troppo distante c’è Porta Palazzo, storica sede del mercato torinese. In effetti, sembra che il grosso delle proteste sia stato portato avanti da commercianti, spesso piccoli, talvolta ambulanti, stanchi di pagare le tasse e desiderosi di sottrarsi alla morsa fiscale dell’Europa. Bisogna proprio essere di sinistra per pensare che esista una connessione necessaria tra Stato fiscale e Stato sociale. I due Stati invece possono seguire percorsi paralleli che non si incrociano mai. Sarebbe però bene tenere a mente che, come non tutti sono uguali davanti a Equitalia, nemmeno tutte le contestazioni a Equitalia sono uguali. La critica commerciante allo Stato fiscale esprime soprattutto l’immediata esigenza di non condividere con nessuno i propri profitti, che certo si sono ridotti ma sussistono come profitti estorti al lavoro vivo.

D’altronde, l’inno di Mameli e gli slogan nazionalistici intonati ripetutamente non sono solo un canto di corteggiamento verso le forze dell’ordine, che ieri come non mai sembravano in vena di effusioni. Sono l’espressione di un’idea di sovranità territoriale e monetaria che appartiene a un popolo indistinto, che proprio per questo le distinzioni le sa fare quando si tratta di migranti. Qualche resoconto ha parlato di una presenza di migranti, approfittando anche della confusione con il presidio dei rifugiati per ottenere la residenza dal comune, che prosegue da settimane. La piazza però è sembrata un po’ troppo «biancuccia», per dirla con un compagno senegalese. Nulla di cui stupirsi, così come non ci stupiamo che la difesa dell’italianità si traduca in slogan contro migranti, che nella fantasia malata di costoro sarebbero i «privilegiati» della spesa sociale. E poi, in fondo, cosa dovremmo farcene noi di un popolo indistinto di cui sarebbero portavoce i commercianti, i camionisti e i padroncini? Basta l’incipiente (ma quanto incipiente?) proletarizzazione a fargli «saltare il fosso», a produrre dinamiche ricompositive di cui si avverte un’ansia che spesso produce delle inquietanti sconnessioni con il reale? Non c’è dubbio che esista una componente proletaria che condivide con questi personaggi uno stesso odio verso la casta. E certo neanche noi non pensiamo che Forza Nuova o altre organizzazioni fasciste dispongano di un potenziale di mobilitazione così alto tra queste fasce sociali. E bastano i Drughi, componente storica e di estrema destra della tifoseria juventina, a spiegare la presenza di proletari in piazza? Forse no e certo per questo quella presenza ci obbliga a delle domande. Domande su una certa fascinazione verso un cognitariato di facciata, in realtà taylorizzato e parcellizzato come tutti gli altri settori lavorativi.Domande sulla seduzione per un sociale indistinto, di cui a volta si azzarda l’accostamento allo sciopero, per provare da un lato a uscire dalla dimensione del lavoro troppo complessa da aggredire e, dall’altro, per provare a saltare le contraddizioni del sindacato senza affrontarle di petto. Ancora una volta l’ambivalenza ingoia la contraddizione, risolve il problema in partenza, libera dalla necessità di distinguere, vieta di fare domande, perché, si sa, solo quei pantofolai degli intellettuali in poltrona si fanno domande quando la lotta infuria. Domande, magari, su cosa abbiamo da offrire a quei soggetti in cui qualcuno ha visto una scintilla rivoluzionaria: se cioè reddito e casa possano costituire percorsi di soggettivazione reale, oppure siano la via più breve per concludere i cicli di lotta in salotto. Domande, infine, su come sostituire la narrazione della casta con quella della classe, perché in fondo quella presenza ci inchioda ai nostri limiti nel pensare la classe come qualcosa di dato e non da costruire quotidianamente. Domande, niente di più.

 *****

Cosa Evocano i forconi

Di Dinamo Press

http://www.dinamopress.it/news/cosa-evocano-i-forconi

La pietra filosofale della composizione sociale perfetta non esiste. La radicalità della crisi ci espone quotidianamente a situazioni confuse, poco etichettabili, difficili da catalogare a prescindere. Accadrà sempre più di frequente. Ci aspettano tempi caotici e pieni di ambivalenze. Tempi confusi, che è bene affrontare con la barra dritta. Abbiamo bisogno di strumenti d’analisi elastici ma non deboli.[..] C’è il rischio di abbandonarsi al relativismo, di mettersi da un lato e stare a vedere cosa succede senza riuscire a dire e fare nulla di significativo ma illudendosi di navigare sull’onda dell’indignazione diffusa.

Una banalità necessaria: la protesta dei cosiddetti “forconi” coinvolge anche molte persone colpite realmente dalla crisi economica. È un’affermazione quasi scontata ma anche una premessa importante. Alla quale deve seguire un’altra domanda. Qual è il contenitore che ha dato forma e parole a questa protesta? Da settimane se ne sono accorti tutti i siti di movimento: non è un mistero che i blocchi e le piazze dei forconi siano gestiti da piccole organizzazioni corporative e da minuscoli apparati in cerca di ruolo e visibilità. Al loro fianco, accanto al codazzo complottardo e qualunquista che si mobilita nei social network (fatevi un giro sull’account Facebook “Attivismo”, per capire la cultura profonda di questa gente), si vanno disponendo alcune formazioni di estrema destra. C’è sicuramente Forza Nuova, a Roma e al sud sono comparsi CasaPound e persino i malati illusi dalla propaganda del “metodo Stamina”.

Lo spazio in cui si agita la protesta dei forconi è lo spazio italiano, definito dalla crisi istituzionale e dalla decomposizione del quadro politico parlamentare. Alla decadenza di Berlusconi fa eco la Corte Costituzionale affermando l’illegittimità dell’intero quadro parlamentare. Anche per questo non sorprende che emergano lotte e conflitti segnate da rivendicazioni nazionaliste o reazionarie – come definire altrimenti punti programmatici come il ritorno alla lira, il protezionismo, l’invocazione di un “governo di polizia” contro la Casta dei politici – che trovano consenso proprio in quella base sociale di piccoli imprenditori, commercianti, artigiani che costituiscono una parte importante dell’attuale base sociale delle destre, in Italia come in Europa.

D’altronde anche il segno distintivo della comunicazione politica gira attorno a due elementi: da una parte il richiamo ossessivo alla “nazione”, come luogo omogeneo di ricostruzione identitaria e “comunitaria” che deve difendersi dal “complotto mondialista”; dall’altra, l’individuazione del nemico principale nella rappresentanza politica e sociale (partiti e sindacati) e nel sistema fiscale, senza mai toccare i veri protagonisti della crisi: i grandi poteri economici, industriali e finanziari. Le contrapposizioni di interessi e “di classe” devono lasciare il posto alla dicotomia “italiani onesti/classe politica corrotta”.

Ma bisogna anche chiarire che non c’è stata nessuna rivolta che ha bloccato il paese! C’è stata qualche manifestazione e pochi blocchi, nella maggior parte di casi si parla di poche decine o centinaia di persone organizzate da piccole organizzazioni. Non abbiamo visto una insubordinazione spontanea dei ceti medi impoveriti o di settori di lavoratori, nessun mare in cui nuotare, in cui aprire contraddizioni o costruire alleanze sociali come accadde nel caso delle esplosioni dei cicli di lotta studenteschi degli anni 2000, quando sapevamo di stare in piazze complesse e contraddittorie eppure non ci siamo mai sognati di mettere da parte la pregiudiziale antifascista.

Allo scoccare della protesta dei “forconi”, ha cominciato a diffondersi in rete la scena che aleggia da tempo nell’inconscio collettivo. È una scena che da mesi viene evocata (malgré Pasolini) per depotenziare le future ribellioni, disinnescare ogni conflitto e inverare il frame della comunità interclassista e postideologica che si costituisce in una massa rancorosa ma immobile. Si è svolta a Torino, probabilmente solo a margine di uno dei blocchi: le forze dell’ordine si tolgono i caschi tra gli applausi di qualche decina di manifestanti che urlano “Siete come noi” rivolti agli uomini in divisa. Come sempre più spesso capita all’epoca della tecnopolitica, quella scena ha assunto un significato che prescinde dal reale contesto in cui si è svolta. Sono solo pochi secondi, ma le immagini viaggiano più veloci delle parole e con maggiore potenza. Quelle immagini si staccano dalla scena sociale e materiale e si spalmano nella sfera digitale. È inutile nasconderselo: quei fotogrammi agli occhi di chi di chi la diffondono alludono alla richiesta di un blocco d’ordine in mezzo al caos. Si tratta di un immaginario che punta a costruire una gerarchia della legittimità del conflitto sociale: da comprendere e sostenere se riferito a quelle “categorie produttive” abbandonate nella competizione globale (artigiani, piccole imprese, reti del commercio e dei servizi); da reprimere senza tanti complimenti se riguarda giovani, studenti, precari e migranti, soggetti esterni al “patto produttivo” nazionale e generazionale.

Soldati e poliziotti diventano, nell’inconscio profondo del paese che condivide slogan e filmati nei social network, l’alleato indispensabile contro “La Casta” che affama “gli italiani”.

È un motivo per sperare che i cittadini in buona fede se ne tornino a casa e rimettano nel cassetto le maschere di V per Vendetta? Certamente no. Da mesi ormai andiamo spiegando che uno dei limiti principali del grillismo è quello di tenere vuote le piazze, intese non solo come spazio di protesta ma anche come luogo di incontro e organizzazione dal basso. Per questo non saremo noi a lamentarci di un qualche sommovimento, seppure confuso e persino se vagamente nazionalista. Tuttavia, il più relativista dei relativisti non potrà fare a meno di notare che in politica il contenitore e il contenuto sono in relazione stretta e biunivoca. Si è parlato giustamente di “ambivalenza”, parola che fa capolino di frequente nei nostri discorsi e che ci aiuta a non essere manichei. Da quando esistono i conflitti di classe essi non si danno mai in termini netti, emergono sempre in termini spuri, complessi, mai fino in fondo definiti. Al tempo stesso, però, assumere l’ambivalenza delle lotte non può farci abbandonare l’attenzione verso la direzione politica che prendono i processi sociali, specialmente quando essi assumono natura nazionalista, corporativa, reazionaria.

Oggi più di ieri la comunicazione non è un orpello sovrastrutturale. La comunicazione contamina il fine e i mezzi. Le parole d’ordine vaghe e il linguaggio generico dei Forconi non rivelano ingenuo spontaneismo ma – ancora una volta – nascondono l’impossibilità degli organizzatori di prendere posizione, di essere realmente partigiani e di riversare questa capacità di essere “di parte” nelle proposta di redistribuire la ricchezza, nella rivendicazione di diritti e nell’individuazione dell’avversario di fronte alle drammatiche urgenze della crisi.

 *****

Rivolte tossiche o contraddizioni in seno al popolo?

Di Militant http://www.militant-blog.org/?p=9991

La presunta “rivolta” di questa parodia di movimento denominatasi “forconi” avrebbe tranquillamente attraversato le nostre vite senza lasciare traccia. Troppi gli indizi e i fatti che la descrivevano come ultima propaggine di un leghismo sociale senza più rappresentanza. Piccoli imprenditori, partite iva, negozianti, camionisti; e, politicamente, organizzata da un insieme di persone equivoche, tutte fedelmente schierate nel centrodestra, molti dei quali candidati in questi anni proprio del PDL. A chiudere il cerchio, il tentativo di Forza Nuova e Casapound di allacciare rapporti con questa protesta, entrarci in incognito, appoggiarla direttamente nei propri canali. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, e se il neofascismo legge questa protesta come terreno favorevole alle proprie aspirazioni, inevitabilmente questa non può che essere contraria alle nostre. Scopriamo però che non tutti la pensano così. Ad esempio Infoaut, che attraverso una lettura “marxista” prova a ragionare non tanto su ciò che la protesta è oggi, ma sulle proprie potenzialità. Cogliere cioè tali mobilitazioni come uno spunto acerbo, una possibile eccedenza che ha bisogno solo di un suo percorso di liberazione da sovrastrutture politiche sedimentate negli anni. Insomma, per tagliare con l’accetta: se chi ha organizzato ora questa protesta è di “destra”, la composizione sociale della stessa è invece un terreno nel quale dovremmo sporcarci le mani, senza inutili preclusioni verso una composizione di classe simile alla nostra, o quantomeno disponibile a spostarsi verso parole d’ordine progressive tali da poter allacciare possibili percorsi. In sintesi, la teoria di Infoaut è che nel corso del tempo la composizione di classe sarà sempre più spuria, sempre meno omogenea, e questo produrrà degli istinti di classe apparentemente sempre meno comprensibili e non immediatamente fecondi. Sta a noi, col nostro lavoro militante quotidiano e sporcandoci le mani, trasformare quegli istinti in vera coscienza, lavorando su quegli strati della protesta potenzialmente vicini ai nostri percorsi.

L’analisi di Infoaut ha il merito di problematizzare il problema in maniera intelligente, e nel farlo di utilizzare una dialettica di classe in questi anni sempre meno utilizzata. Oltretutto, pone un problema a tutti coloro che in questi anni hanno paventato la presenza di una possibile “eccedenza” popolare ancora distante dai nostri percorsi ma potenzialmente integrata nella nuova composizione di classe del nuovo proletariato. E l’appunto è validissimo: voi che parlate tanto di eccedenza, non crederete mica che questa si presenti nelle forme novecentesche già inquadrate, omogenee, istintivamente progressiste, un terreno già rassodato sul quale noi facilmente dovremmo solo portare avanti un’opera di organizzazione. L’eccedenza è molte cose: comprende l’immigrato precario e sottopagato, ma anche il piccolo imprenditore “proletarizzato”, la partita iva impoverita, il padroncino che lavora dieci ore al giorno per non arrivare a mille euro. Rispetto a tutta questa fascia sociale in via di impoverimento, come dovrebbe porsi il movimento di classe? Rifiutare in blocco una composizione aliena alla nostra storia o aprire dei canali di dialogo, andare a vedere cosa succede e poi semmai valutarne le potenzialità?

Se queste sono le domande esplicite e implicite dell’analisi di Infoaut, sono domande sacrosante. La nuova composizione di classe ci mette di fronte problemi nuovi e difficili, che non possono essere affrontati con canoni storici legati a una composizione sempre più marginale, almeno in Italia e negli stati dell’Europa occidentale. La domanda di fondo è quella del titolo: queste proteste rappresentano una forma tossica di manifestazione politica, sostanzialmente avversa ai nostri interessi e ai nostri obiettivi, o rappresentano una “contraddizione in seno al popolo”, una forma politica confusa, delle parole d’ordine sbagliate, per una composizione che in realtà appartiene alla classe che vorremmo organizzare?

Se tutte queste domande sono giuste e condivisibili, la curiosità verso qualcosa di sconosciuto non può però relegarci a tifosi della protesta “purchessia”. Ad un’analisi di classe va risposto con una dialettica di classe. Il terreno posto da Infoaut è quello giusto, le domande sacrosante, ma le risposte che noi intravediamo confermano più che smentire il primo, istintivo, rifiuto della protesta dei “forconi”. Anzitutto, la composizione sociale: questa non è altro che la vecchia base “di massa” su cui si era appoggiato il “forzaleghismo” in questo ventennio. Un insieme, anche eterogeneo al suo interno, di un mondo della produzione caratterizzato però da un dato di fatto costante: nessuno di questi “forconi” è un lavoratore dipendente. Certo, all’interno di una mobilitazione che ha assunto in alcuni luoghi carattere di massa, questa si sarà portata dentro un po’ di tutto, anche dei lavoratori salariati; certo, in alcuni singoli contesti quote di lavoratori salariati saranno stati presenti anche in maniera rilevante; ma il dato di fondo rimane la distanza di classe tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. L’impossibile convergenza è determinata dagli obiettivi che questa protesta porta con se. Aumentare le garanzie per i lavoratori produrrebbe un peggioramento delle condizioni di produzione dei padroncini. Il vero e unico obiettivo politico di questa protesta (attorno al quale ruotano tutti gli altri obiettivi intermedi o marginali), è la diminuzione della tassazione statale alle imprese. La retorica sulla quale poggia la protesta è l’impossibilità di continuare a produrre efficientemente e in maniera economica quando lo Stato si riprende una parte di questa produzione con una tassazione sempre più alta. Bene, un problema sicuramente rilevante, ma un problema dei padroni, piccoli o grandi che siano. Non è un caso che queste parole d’ordine convergano con quelle di tutto il mondo politico di centrodestra, proprio perché gli interessi di classe sono identici, e tutti volti a risolvere il problema del miglioramento delle condizioni di vita dal lato della produzione economica e non da quello del lavoro, e anzi dove possibile diminuendo notevolmente le conquiste di classe fino ad ora mantenute.

La visione generale da cui dovremmo liberarci è quella politicista per cui una rappresentanza politica di destra ha condotto verso di se una serie di necessità popolari che altrimenti si sarebbero espresse in altro modo; ed oggi, messa in crisi quella rappresentanza politica, potrebbero dirigersi altrove, magari anche a sinistra. E’ questa la narrazione tossica da cui dovremmo liberarci. Quel mondo lì esprime posizioni politiche di destra, al di là e a prescindere dalla rappresentanza politica che si da o nella quale confluisce, perché sono posizioni che implicitamente si pongono in contraddizione col mondo del lavoro dipendente.

Certo stiamo parlando di un mondo della piccola borghesia incapace di avere una posizione storicamente determinata. Se fosse presente in Italia una forza proletaria egemone, un pezzo anche importante di quella piccola borghesia potrebbe gravitare attorno alle nostre rivendicazioni, esserne egemonizzata, esattamente come il PCI egemonizzava un insieme sociale a volte contraddittorio (pensiamo ai tassisti romani, o a un certo mondo aristocratico in via di disfacimento). Ma questa forza oggi in Italia non è presente, e il rischio che notiamo è che una parte di movimento, nel tentativo di relazionarsi con queste proteste, invece di esercitare egemonia su queste venga all’opposto “egemonizzato” da alcune prole d’ordine delle proteste stesse. Ad esempio, sul discorso delle tasse, l’unica posizione forte che in fondo esprimono le mobilitazioni dei forconi. Senza un chiaro indirizzo politico, il rischio sarebbe quello di portare una parte di movimento a fare campagna politica sulle tasse troppo alte, non capendo che l’obiettivo ultimo di questa parola d’ordine è quello di ridurre il peso dello Stato nell’economia per aumentarne quello del settore privato, che poi è quello sceso in piazza in questi giorni.

Detto tutto questo, il problema sollevato da Infoaut è assolutamente attuale e decisivo. Sporcarsi le mani non vuol dire solo lavorare nell’ombra di una militanza quotidiana nelle contraddizioni sociali che si presentano, ma uscire dalle proprie comodità intellettuali, dai propri riferimenti storici, andare là dove questa eccedenza di trova e là dove questa eccedenza potrebbe essere organizzata. Non ci sembra questo il caso, ma ci sembra, quello proposto da Infoaut, il metodo da seguire per chi abbia ancora intenzione di ricomporre parzialmente la classe disgregata.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *