“Tasso di disoccupazione al top dal 1977, massimo storico per i giovani (tasso oltre il 40%). I dati dell’Istat sono la fotografia di un Paese in apnea. Nel primo trimestre del 2013 il tasso di disoccupazione è balzato al 12,8%. Considerando i confronti tendenziali è il livello più alto dal primo trimestre del 1977. Quando si parla di “tasso” si intende, come spesso bisogna ribadire in questi casi, della percentuale calcolata sulla popolazione “attiva”, cioè tra coloro che lavorano, hanno lavorato o comunque cercano lavoro. La disoccupazione ad aprile si è attestata al 12% (più 1,5% in un anno): si tratta di un massimo storico, il livello più alto sia dalle serie mensili (gennaio 2004) che da quelle trimestrali, avviate nel primo trimestre 1977, ben 36 anni fa. “Il tasso di disoccupazione, pressoché raddoppiato rispetto al 2007 e pari all’11,5% lo scorso marzo – dice il presidente della Banca d’Italia Ignazio Visco – si è avvicinato al 40% tra i più giovani, ha superato questa percentuale nel Mezzogiorno”. Visco ha ricordato che “la riduzione del numero di persone occupate è superiore al mezzo milione”.”
Inizia in questo modo un articolo del Fatto Quotidiano, datato 31 maggio 2013, ma sono tanti i giornali da cui avrei potuto riportare una citazione simile. Purtroppo ai dati Istat corrisponde come non mai una realtà silenziosa, spesso arresa, invischiata in meccanismi di vecchia data e che la crisi economica che il nostro Paese sta attraversando non ha fatto altro che acuire. Ma dietro questi numeri, queste percentuali, ci sono delle persone in carne ed ossa, ci sono dei volti: giovani laureati con curricula impeccabili che rimangono senza risposta; altri che svolgono lavori spesso sottopagati, ma indispensabili per potersi mantenere. Passioni che restano irrisolte, sospese per l’impossibilità di dedicarcisi, la mancanza di spazi, strumenti, perché sempre meno spazio è dato a cultura e arte, ampiamente sacrificabili per il bene dell’economia del Paese. Situazioni difficili in cui un lavoro distante dal proprio percorso di studi è spesso l’unica strada verso un’indipendenza economica sempre più difficile da conquistare e mantenere. I giovani sono così costretti a rivedersi, a ricostruire l’immagine di sé e del proprio futuro nebuloso, lontano, a reinventarsi, darsi un nuova identità, diversa da quelli che si erano figurati. E allora ci si ricicla, si cercano strade a cui un tempo non si avrebbe mai pensato, si accettano compromessi dolorosi e si tentano percorsi nuovi, che si spera rispondano meglio ai bisogni economici che si hanno, ma che spengono progressivamente le proprie e vere aspirazioni. Si respira l’impossibilità di riconoscere come un traguardo ciò che un tempo era rispettato come tale: la laurea, il conseguimento di un titolo, il compimento di un percorso formativo, artistico. Il riconoscimento dei propri passi verso una meta sognata, desiderata, per cui si sono spesi energie e coraggio, è qualcosa di indispensabile per la vita di qualunque persona: semplicemente, è ciò che permette di avere la forza di fare ogni giorno un passo in più, la motivazione necessaria a progredire. Lo smarrimento derivato dall’impossibilità concreta di arrivare a qualcosa di spendibile in termini del proprio futuro blocca il pensiero, il flusso di desideri e ambizioni che deve essere garantito ad ogni persona di qualsiasi età. Si perde la speranza perché si è privati di molto altro, della possibilità di sognare. Siamo diventati solo dei numeri, percentuali, un fastidioso dato di fatto che sentiamo quasi ogni giorno, come un ritornello di cui sembriamo non capire il senso e la gravità. Non abbiamo una nostra identità, un volto, non abbiamo un’esistenza, ambizioni, sogni: agli occhi dei più siamo solo una notizia scomoda.
Bologna è per definizione una città universitaria, sede del polo universitario più antico di Europa e da sempre luogo di scambio, crocevia di saperi, arti, culture e ragazzi che raggiungono la città da tutta Italia e Europa. Ed è proprio dalla famosa università di Bologna, ma non solo, che provengono le storie dei giovani italiani ritratti. Vissuti diversi, ma che hanno tutti un’origine comune: il naturale desiderio di crearsi un futuro conforme alle proprie ambizioni, ai propri saperi e le personali passioni. Una piccola serie, brevi storie, ma che rispecchiano di buon grado una situazione ben più ampia e che ci coinvolge tutti. C’è chi non lavora da tempo, c’è chi ha un paio di lauree conseguite col massimo dei voti, ma è costretto a chiedere i soldi per una birra ai genitori; chi sa già che il suo futuro è all’estero o lontano dal percorso di studi che ha compiuto; chi gli studi li deve interrompere perché hanno perso di credibilità o per trovare un lavoro per pagarseli. Nessuno è indipendente economicamente quanto basta da poter vivere per conto proprio senza l’aiuto dei propri genitori, una risorsa che diventa fondamentali per le vite di chi ha un futuro precario come il nostro. Ogni giorno, però, questa dipendenza è più pesante e si manifesta nel bisogno naturale sempre più acuto di doversi distaccare, di crearsi un percorso proprio e nuovo. Nessuno riflette su cosa voglia dire non avere controllo sul proprio futuro, essere immobilizzati in una rete di compromessi, accettazioni che fanno male, soprattutto rinunce che diventano quotidiane. E nonostante questo i giovani continuano ad essere umiliati da un linguaggio mediatico e politico che questi compromessi, queste rinunce, queste vite non le vede nemmeno: siamo quelli choosy, quelli fannulloni, quelli di cui non ci si preoccupa se non a parole, e con i fatti che stanno a zero. Ci si è dimenticati delle persone, delle loro esistenze, dei loro sogni. Sui nostri futuri si può speculare, si può rischiare, si può perdere tutto. La crisi la stiamo pagando noi quando pensiamo alle nostre ambizioni e siamo consapevoli del fatto che non ci sono dati gli strumenti per costruirle e coltivarle. Immersi nella precarietà che circonda le nostre prospettive future e nell’inattuabilità di qualcosa che naturalmente si crea nell’individuo – per definizione incline a progredire, a costruire, a pensare e guardare avanti, sognando – ci rinchiudiamo nella nostra stanza, fatta di ciò che ci ha dato una forma e ci ha anche modificato nel tempo, in qualche modo cresciuto, sperando che prima o poi le cose migliorino. E che a cambiare non saremo costretti a farlo soltanto noi.
Potete leggere il reportage completo in http://simonahassan.com/disoccupazionegiovanile/
“Tasso di disoccupazione al top dal 1977, massimo storico per i giovani (tasso oltre il 40%). I dati dell’Istat sono la fotografia di un Paese in apnea. Nel primo trimestre del 2013 il tasso di disoccupazione è balzato al 12,8%. Considerando i confronti tendenziali è il livello più alto dal primo trimestre del 1977. Quando si parla di “tasso” si intende, come spesso bisogna ribadire in questi casi, della percentuale calcolata sulla popolazione “attiva”, cioè tra coloro che lavorano, hanno lavorato o comunque cercano lavoro. La disoccupazione ad aprile si è attestata al 12% (più 1,5% in un anno): si tratta di un massimo storico, il livello più alto sia dalle serie mensili (gennaio 2004) che da quelle trimestrali, avviate nel primo trimestre 1977, ben 36 anni fa. “Il tasso di disoccupazione, pressoché raddoppiato rispetto al 2007 e pari all’11,5% lo scorso marzo – dice il presidente della Banca d’Italia Ignazio Visco – si è avvicinato al 40% tra i più giovani, ha superato questa percentuale nel Mezzogiorno”. Visco ha ricordato che “la riduzione del numero di persone occupate è superiore al mezzo milione”.”
Inizia in questo modo un articolo del Fatto Quotidiano, datato 31 maggio 2013, ma sono tanti i giornali da cui avrei potuto riportare una citazione simile. Purtroppo ai dati Istat corrisponde come non mai una realtà silenziosa, spesso arresa, invischiata in meccanismi di vecchia data e che la crisi economica che il nostro Paese sta attraversando non ha fatto altro che acuire. Ma dietro questi numeri, queste percentuali, ci sono delle persone in carne ed ossa, ci sono dei volti: giovani laureati con curricula impeccabili che rimangono senza risposta; altri che svolgono lavori spesso sottopagati, ma indispensabili per potersi mantenere. Passioni che restano irrisolte, sospese per l’impossibilità di dedicarcisi, la mancanza di spazi, strumenti, perché sempre meno spazio è dato a cultura e arte, ampiamente sacrificabili per il bene dell’economia del Paese. Situazioni difficili in cui un lavoro distante dal proprio percorso di studi è spesso l’unica strada verso un’indipendenza economica sempre più difficile da conquistare e mantenere. I giovani sono così costretti a rivedersi, a ricostruire l’immagine di sé e del proprio futuro nebuloso, lontano, a reinventarsi, darsi un nuova identità, diversa da quelli che si erano figurati. E allora ci si ricicla, si cercano strade a cui un tempo non si avrebbe mai pensato, si accettano compromessi dolorosi e si tentano percorsi nuovi, che si spera rispondano meglio ai bisogni economici che si hanno, ma che spengono progressivamente le proprie e vere aspirazioni. Si respira l’impossibilità di riconoscere come un traguardo ciò che un tempo era rispettato come tale: la laurea, il conseguimento di un titolo, il compimento di un percorso formativo, artistico. Il riconoscimento dei propri passi verso una meta sognata, desiderata, per cui si sono spesi energie e coraggio, è qualcosa di indispensabile per la vita di qualunque persona: semplicemente, è ciò che permette di avere la forza di fare ogni giorno un passo in più, la motivazione necessaria a progredire. Lo smarrimento derivato dall’impossibilità concreta di arrivare a qualcosa di spendibile in termini del proprio futuro blocca il pensiero, il flusso di desideri e ambizioni che deve essere garantito ad ogni persona di qualsiasi età. Si perde la speranza perché si è privati di molto altro, della possibilità di sognare. Siamo diventati solo dei numeri, percentuali, un fastidioso dato di fatto che sentiamo quasi ogni giorno, come un ritornello di cui sembriamo non capire il senso e la gravità. Non abbiamo una nostra identità, un volto, non abbiamo un’esistenza, ambizioni, sogni: agli occhi dei più siamo solo una notizia scomoda.
Bologna è per definizione una città universitaria, sede del polo universitario più antico di Europa e da sempre luogo di scambio, crocevia di saperi, arti, culture e ragazzi che raggiungono la città da tutta Italia e Europa. Ed è proprio dalla famosa università di Bologna, ma non solo, che provengono le storie dei giovani italiani ritratti. Vissuti diversi, ma che hanno tutti un’origine comune: il naturale desiderio di crearsi un futuro conforme alle proprie ambizioni, ai propri saperi e le personali passioni. Una piccola serie, brevi storie, ma che rispecchiano di buon grado una situazione ben più ampia e che ci coinvolge tutti. C’è chi non lavora da tempo, c’è chi ha un paio di lauree conseguite col massimo dei voti, ma è costretto a chiedere i soldi per una birra ai genitori; chi sa già che il suo futuro è all’estero o lontano dal percorso di studi che ha compiuto; chi gli studi li deve interrompere perché hanno perso di credibilità o per trovare un lavoro per pagarseli. Nessuno è indipendente economicamente quanto basta da poter vivere per conto proprio senza l’aiuto dei propri genitori, una risorsa che diventa fondamentali per le vite di chi ha un futuro precario come il nostro. Ogni giorno, però, questa dipendenza è più pesante e si manifesta nel bisogno naturale sempre più acuto di doversi distaccare, di crearsi un percorso proprio e nuovo. Nessuno riflette su cosa voglia dire non avere controllo sul proprio futuro, essere immobilizzati in una rete di compromessi, accettazioni che fanno male, soprattutto rinunce che diventano quotidiane. E nonostante questo i giovani continuano ad essere umiliati da un linguaggio mediatico e politico che questi compromessi, queste rinunce, queste vite non le vede nemmeno: siamo quelli choosy, quelli fannulloni, quelli di cui non ci si preoccupa se non a parole, e con i fatti che stanno a zero. Ci si è dimenticati delle persone, delle loro esistenze, dei loro sogni. Sui nostri futuri si può speculare, si può rischiare, si può perdere tutto. La crisi la stiamo pagando noi quando pensiamo alle nostre ambizioni e siamo consapevoli del fatto che non ci sono dati gli strumenti per costruirle e coltivarle. Immersi nella precarietà che circonda le nostre prospettive future e nell’inattuabilità di qualcosa che naturalmente si crea nell’individuo – per definizione incline a progredire, a costruire, a pensare e guardare avanti, sognando – ci rinchiudiamo nella nostra stanza, fatta di ciò che ci ha dato una forma e ci ha anche modificato nel tempo, in qualche modo cresciuto, sperando che prima o poi le cose migliorino. E che a cambiare non saremo costretti a farlo soltanto noi.
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