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“Anni Spezzati”? Solo uno scandaloso “rovescismo storico”…

Il tentativo di rovesciare la storia recente del nostro paese attraverso gli sceneggiati televisivi non è la prima, non sarà l’ultima. I “rovescisti”, come li chiamerebbe il prof. D’Orsi, sono la pattuglia più esagitata dei revisionisti storici, da sempre all’opera per ricostruire un senso comune del paese che ripudi ogni riferimento al conflitto di classe e alla lotta come fattore progressivo per lo sviluppo di ogni società. Lo sceneggiato della Rai sugli “Anni spezzati” – con la santificazione del Commissario Calabresi, del giudice Sossi e dei dirigenti della Fiat – è l’operazione di manipolazione di massa e rovescista più carogna degli ultimi tempi.

Negare o ridicolizzare il contesto nel quale sono maturati gli eventi che stiamo vedendo o vedremo nella fiction di Rai 1, intende gettare cemento e sangue sulla storia, riscrivere con una sorta di neolingua orwelliana i suoi personaggi e ripulire completamente le responsabilità degli apparati dello Stato in quello che è accaduto dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi.

La guerra di bassa intensità combattuta in Italia dagli anni sessanta a oggi contro la sinistra e i movimenti dei lavoratori e studenteschi, ha avuto fasi diverse di maggiore o minore brutalità. Oggi sono in molti – con una convergenza apertamente bipartizan – a voler mettere sotto il tappeto la spazzatura, i morti, i feriti, gli orrori e gli errori di questo conflitto. Ma questo conflitto resta aperto e riemerge qua e là sotto forma di rovescismo giornalistico e storico, di allarme politico, di occultamento della verità a fini politici. Sono molti infatti coloro che considerano quella guerra non ancora conclusa (vedi il dott. Caselli) e sono altrettanti quelli che lo hanno dichiarato apertamente, rifiutandosi ripetutamente di varare – ad esempio – un provvedimento di amnistia per i reati politici commessi durante la guerra di quegli anni che sancisse in qualche modo la fine del conflitto. Questo processo di “pacificazione”, è avvenuto in tutti i paesi dove c’è stato un sanguinoso conflitto interno: dalla Francia all’Uruguay, dall’Argentina all’Irlanda del Nord. Nel nostro paese no, al contrario, l’armamentario politico, ideologico, legislativo, poliziesco protagonista della “guerra di bassa intensità” è tuttora vigente contro i nuovi movimenti del conflitto sociale di oggi. Appare emblematico come l’unico paese europeo compagno di strada di questa logica di continuità della guerra sia proprio la Spagna, dove le eredità del franchismo sono ancora forti e l’ingegneria repressiva estremamente florida . Ciò spiega perché venga tuttora negata e annebbiata la verità sulle Stragi di stato, sul ruolo delle organizzazioni neofasciste, sulla regia dei servizi segreti militari statunitensi, israeliani, NATO nella guerra di bassa intensità combattutasi in Italia. Dopo più di quaranta anni di inchieste giudiziarie, processi, sentenze, commissioni d’inchiesta le stragi non hanno colpevoli…. e incredibilmente non succede niente sul piano politico.

Il depistaggio nelle inchieste sulla strage di Piazza Fontana e sulle stragi di Stato, non è solo giudiziario, è stato un aperto depistaggio politico che è servito a depotenziare i movimenti antagonisti al sistema ed a stroncarli con “ogni mezzo necessario” da parte degli apparati dello stato e della classe dominante.

Dalla Guerra Fredda alla Guerra sul “fronte interno”. Un cambio di passo

Il Partito Atlantico – composto da partiti politici e poteri forti legati agli USA – che ha sempre agito trasversalmente nella situazione politica italiana, scatenò nel nostro paese una nuova guerra negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale.

Il suo obiettivo era inizialmente impedire che l’Italia mettesse in discussione gli equilibri di Yalta e che l’Italia rimanesse a tutti i costi nella sfera di influenza USA/NATO. Ma via via che la storia sociale del paese progrediva, questa guerra non dichiarata è uscita dai canoni della guerra fredda tra est e ovest, per assumere i canoni di una guerra di bassa intensità concepita e gestita soprattutto sul “fronte interno” sulla base dell’odio di classe, lo stesso che ispira il blocco sociale reazionario oggi dominante. Sta qui il cambio di passo e la rilevante differenza qualitativa tra la “guerra dei quaranta anni” combattuta in Italia e invece la rapida normalizzazione politica del ’68 in altri paesi europei come Francia e Germania. In Italia le classi dominanti hanno impiegato almeno dieci anni per normalizzare la rottura sociale apertasi parzialmente nel’68 studentesco, potenziatasi con le lotte operaie nell’Autunno Caldo del ’69 (contro cui venne scatenata la strage di Piazza Fontana), radicalizzatasi con il movimento del ’77 fino alla normalizzazione violenta dei primi anni Ottanta e alla normalizzazione politica in corso dagli anni Novanta a oggi.

Il 1969 vide mobilitarsi circa 7,5 milioni di lavoratori che produssero 302 milioni di ore di sciopero e di conflitto sociale aperto nel paese. In quello stesso anno, prima della strage di Piazza Fontana, esplosero circa 145 bombe. Ad agosto del 1969, quattro mesi prima della strage del 12 dicembre a Piazza Fontana, i fascisti fecero esplodere 10 bombe sui treni (2 non esplosero) provocando decine di feriti. Una parte dell’esplosivo glielo fornirono i comandi militari USA e NATO delle basi del Triveneto (Verona, Vicenza ed altre).

Il Partito Atlantico – imperniato intorno alla DC ma non solo ad essa – ha dunque scatenato e combattuto una guerra sporca nel nostro paese. Si è servito di uomini politici, dei servizi segreti italiani e stranieri (e non solo di quelli USA), dei carabinieri, dei gruppi neofascisti e in alcuni casi anche delle organizzazioni criminali. Si è servito degli apparati di intelligence del regime fascista e della Repubblica di Salò tutelando, assoldando e arruolando criminali fascisti che sarebbero dovuti finire davanti al plotone d’esecuzione. Ha creato diverse reti di “Uomini neri” disponibili a mettere bombe nelle banche, sui treni, in piazze e stazioni affollate, a uccidere senza scrupoli, a far sparire persone e documenti compromettenti. Ha riempito di soldi, armi e coperture i gruppi neofascisti nati come funghi già negli anni Cinquanta. In sostanza ha organizzato e gestito quella che gli strateghi militari statunitensi hanno definito “Guerra di bassa intensità”, una guerra in cui l’elemento propriamente militare è ridotto, in cui prevale la commistione civile-militare e il target sono individui o organizzazioni sociali più che forze armate avversarie.

In Italia, il ricorso all’uso della violenza politica da parte di settori della sinistra extraparlamentare e del movimento operaio negli anni Settanta, va dunque contestualizzata ad uno scenario in cui la violenza statale e quella dei fascisti contro la sinistra era sistematica, ripetuta, pianificata e impunita. Per molti aspetti fu una sorta di autodifesa collettiva giustificata dalle circostanze e non pianificata: Solo successivamente – e drammaticamente per tutti – divenne un progetto politico fondato sulla militarizzazione dei movimenti sfociato talvolta in terrorismo.

Ricostruire le reti che il Partito Atlantico ha usato in questa guerra a bassa intensità, è stato difficilissimo per tutti. Ad esempio l’inchiesta milanese del giudice Salvini – quella che è andata più in profondità – schematizza efficacemente in “Cinque Entità” queste reti, ma si è dovuta arenare davanti al fatto che un procedimento giudiziario ha bisogno di prove certe (ad esempio testimoni in vita e non deceduti) e davanti agli ostacoli che dentro e fuori la stessa magistratura sono stati opposti alle sue investigazioni. Anche Salvini ha denunciato i depistaggi che hanno cercato di complicare la sua inchiesta, ma quella dei depistaggi rischia di diventare una clausola auto-consolatoria se non se coglie la sua dimensione politica e non giudiziaria. Le audizioni del giudice Salvini davanti alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla stragi sono un preciso atto di accusa alla “politica”. Salvini dice esplicitamente ai parlamentari della Commissione che lui con le sue indagini è arrivato fino al punto massimo al quale si poteva arrivare attraverso gli strumenti giudiziari. Le conclusioni storiche e politiche di quella inchiesta non potevano essere tirate da un magistrato ma solo dalla politica, e questo non è accaduto. E’ su questo che si apre la piaga delle corresponsabilità anche nella storia e nel presente della sinistra italiana.

La tesi del “Doppio Stato”: un aspetto del depistaggio

Il depistaggio, non possiamo negare che sia una responsabilità che porta con se anche il più grande partito comunista europeo dell’epoca: il PCI. Il gruppo dirigente del PCI, pur conoscendo molto di come stavano le cose sin da prima della strage di Piazza Fontana del ‘69, preferì mettere i freni alle conseguenze di quello che sapeva (e che in gran parte sapevano tutti come afferma Pasolini). Lo fece per timore del colpo di stato? E’ una tesi resa plausibile per il contesto storico di quegli anni. Nell’Europa degli anni Settanta, l’Italia- ritenuta l’anello debole del sistema NATO – è stata circondata da ben tre dittature militari (Spagna, Grecia, Portogallo) che in alcuni casi durarono fino al 1978 e questa minaccia fu resa ancora più incombente dalla lettura che venne fatta dal PCI sul colpo di stato in Cile nel ’73.

Il PCI depistò perché in nome della governabilità del paese doveva salvaguardare i rapporti con una parte della classe dominante collusa con gli apparati della guerra di bassa intensità? E’ una tesi estremamente plausibile. Lo fece perché doveva dare l’idea di uno Stato positivo che affondava le radici nel patto costituzionale dentro e contro cui agiva uno Stato parallelo eversivo? E’ la tesi che ha prodotto l’idea del “Doppio Stato” che alla luce dei fatti appare consolatoria e giustificazionista a posteriori.

E’ diventato così più facile dis/orientare l’attenzione pubblica sulla Loggia P2, sulla banda della Magliana, sulla mafia che, seppur coinvolti in questa guerra, erano parte dell’apparato ma non la cabina di regia.

Il PCI, i suoi giornalisti e i suoi uomini nello Stato, hanno dunque alimentato anch’essi il depistaggio politico dando spazio a mille ipotesi, a mille piste, a mille suggestioni dentro cui si perdeva e si confondeva la pista giusta. L’accettazione della NATO e dell’alleanza subalterna agli USA da parte del PCI, è stata decisiva per impedire che si giungesse a conclusioni ovvie ma scomode e piene di conseguenze. Allo stesso modo l’interlocuzione con la DC andreottiana, tesa raggiungere prima il compromesso storico con la Democrazia Cristiana e poi il governo di solidarietà nazionale, hanno bloccato qualsiasi seria conclusione sulle responsabilità politiche nella guerra dei quaranta anni scatenata in Italia dal Partito Atlantico.

Non solo. Già nella prima metà degli anni Settanta, il PCI incalzato dalla crescita di influenza politica della sinistra rivoluzionaria, si prestò a collaborare con gli apparati dello Stato (come ammette l’ex ministro degli interni Taviani) non solo contro le organizzazioni neofasciste, ma anche contro le organizzazioni della sinistra extraparlamentare. La tesi del “Doppio Stato” serve così agli eredi politici e agli orfani del PCI per giustificare una lealtà e una collaborazione inaccettabile con gli apparati statali e contro i movimenti antagonisti. Secondo la tesi del “Doppio Stato”, c’era uno “Stato legittimo” erede del Patto Costituzionale con il quale bisognava collaborare contro le trame eversive e c’era uno “Stato parallelo” che invece era il protagonista delle medesime strategie eversive. I fatti ci hanno dimostrato che così non era, tant’è che le stragi sono rimaste senza colpevoli e che lo Stato – se non in settori minoritari e via via marginalizzati – non ha mai dichiarato conclusa la guerra di bassa intensità contro le forze della sinistra e i lavoratori.

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