È consolidato nei Trattati europei il principio di attribuzione delle competenze, e il Trattato sull’Unione Europea, quello di Lisbona, lo riprende all’articolo 5: «La delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione […] l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono state attribuite dagli Stati membri nei Trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei Trattati appartiene agli Stati membri». Ho voluto ricordare questo perché è ripresa, in occasione del Patto Fiscale, una polemica sulla cessione di sovranità e sul ruolo degli Stati nazionali. Non ho intenzione di riaprire la vecchia questione sollevata da Dieter Grimm se una costituzione per essere tale debba sia disciplinare l’organizzazione dei poteri, sia attribuire la competenza delle competenze, mentre l’UE continua a non esserne dotata. I Trattati, sostiene Grimm, sono espressione della ‘volontà’ degli Stati, che decidono di autolimitarsi trasferendo proprie competenze in campi definiti a un nuovo organo sovranazionale. L’UE non sarebbe sovrana perché non potrebbe auto-attribuirsele1.
Nei fatti avviene, però, Trattato dopo Trattato, un continua cessione di sovranità, in campi sempre più decisivi, come da ultimo in quello fiscale: pur senza esercitare la competenza delle competenze, quelle dell’UE si ampliano sempre di più, senza che parallelamente si istituiscano processi decisionali democratici di livello sovranazionale.
Non voglio neppure riaprire l’altra questione, sulla legittimità democratica dell’attribuzione di ‘poteri impliciti’, secondo cui l’UE può esercitare poteri non previsti dai Trattati se essi sono necessari per il raggiungimento degli scopi dell’Unione (art. 352 del TFUE).
Si sono scritti volumi per decifrare la natura delle Comunità europee, e ora dell’UE, rimanendo essa per lo più oscura perché si sono utilizzate categorie quali ‘sovranità nazionale’ e ‘ordinamento internazionale’, incapaci di dar conto di una ‘creazione sui generis’, come ebbe a sostenere Walter Hallstein che definì la Comunità Economica Europea come una ‘comunità di diritto’, sorta per un atto di diritto e fonte a sua volta di diritto. In questo modo Hallstein − esponente della CDU, negoziatore del Trattato di Parigi per conto di Konrad Adenauer e poi, dal 1958 al 1967, Presidente della Commissione CEE − assimilava i Trattati a una Costituzione, attribuendo alla Comunità una personalità giuridica nei rapporti con gli Stati membri e con i suoi cittadini, così come nei rapporti internazionali verso gli altri Stati. Hallstein, senza perdersi in disquisizioni metafisiche sull’essenza della cosa, descriveva questa ‘strana’ quanto reale creatura che era la Comunità come un organismo sopranazionale, costruita mediante una cessione di competenze sovrane da parte degli Stati membri, che però «trovano una compensazione della perdita nel fatto che prendono parte alla gestione comune di quanto hanno ceduto attraverso gli organi della Comunità». A più riprese, poi, Hallstein affermò la natura ‘politica’ della Comunità, chiamandola ‘zoon politikon’ perché essa è ‘un insieme di attività statali economiche e politico-sociali’. Con fine ironia disse: «Gli organi della Comunità non producono beni materiali […] Essi fanno politica, politica economica e sociale». E stabilì quale indice fondamentale per stabilire dove risieda la sovranità quello di individuare ‘who runs this country’ – ‘chi governa questo paese’. E non ebbe dubbi, già negli anni Sessanta del Novecento, a individuare nella Comunità un organo politico sovrano, in quanto sia pure in delimitati campi non soffriva limitazioni da parte degli Stati nazionali membri2.
Si può affermare, seguendo l’interpretazione di Hallstein, che gli Stati nazionali con la costruzione europea operano un ‘trasferimento di sovranità’ con l’effetto di sottrarsi ai controlli dei parlamenti nazionali e all’ottemperanza delle norme costituzionali, visto che, sia pure nelle ‘competenze attribuite ed enumerate’, il diritto europeo si applica direttamente, gode della prevalenza e i giudici stessi sono chiamati ad applicarlo quand’anche in contrasto con il diritto nazionale. Che gli Stati nazionali siano i ‘signori dei Trattati’ sta a significare che essi esercitano un potere liberato dalla responsabilità e dai controlli democratici, e liberi di perseguire la costruzione dell’ordine giuridico di un mercato sovranazionale, così come stabilito nei Trattati che hanno posto come obiettivo prima il mercato comune, a Roma nel 1957, e poi il mercato unico, a Maastricht nel 1992 .
Anche in questi anni di crisi le élites dirigenti hanno teso sempre alla salvaguardia del mercato unico, ridisegnando a questo fine l’alleanza tra mercati e governi tramite le politiche dell’Unione Europea.
Who runs this country?
A questa domanda si può rispondere che negli Stati membri dell’UE a governare sono organi sovranazionali, composti dai poteri esecutivi e dalla tecnocrazia. Il Patto Fiscale è un altro pilastro della governance europea, sempre più isolata dai processi democratici e immunizzata da qualsiasi influenza delle rappresentanze parlamentari.
Con il Patto Fiscale, dopo che con il Trattato di Maastricht si sono gettate le fondamenta della BCE quale organo sovrano della moneta, si delegano all’UE i poteri fiscali attraverso il controllo delle politiche di bilancio.
Con il Patto Fiscale si completa la costruzione di un ‘centro di governo’, come lo ha chiamato C.A. Ciampi: «I responsabili politici che decisero la costituzione della moneta unica erano consapevoli che il sistema avrebbe potuto operare correttamente solo se integrato con la creazione di un centro di governo della politica economica dell’Eurozona, con compiti di supervisione delle politiche di bilancio degli Stati membri, al fine di assicurare il rispetto dell’equilibrio dei rispettivi conti pubblici, presupposto per la crescita economica dei singoli Stati dell’Eurozona nel suo complesso»3.
Con il Patto Fiscale il centro di governo ha trovato una più compiuta espressione perché ora in esso confluiscono sia le decisioni di politica monetaria sia quelle di politica fiscale. Questo centro di governo si articola in strutture formate da governi e da organi ‘tecnici’, come la BCE: un’oligarchia esercita il potere economico-fiscale nell’UE.
Con il Patto Fiscale, un trattato internazionale, si giunge a manomettere le stesse Costituzioni. Si afferma all’art. 3, comma 2, che le regole del pareggio di bilancio: «devono avere effetto nelle leggi nazionali delle Parti contraenti al massimo entro un anno dall’entrata in vigore del Trattato attraverso previsioni con forza vincolante e di carattere permanente, preferibilmente costituzionale».
La necessità di introdurre in costituzione il vincolo del pareggio di bilancio e di stabilire maggioranze qualificate nelle decisioni di spesa è stata, molti anni fa, riproposta da esponenti della scuola della public choice, da coloro cioè che esaltano senza infingimenti la superiorità del mercato di fronte ai ‘fallimenti’ della democrazia − fallimenti prodotti di una ‘democrazia in deficit’, come scrissero Buchanan e Wagner4.
Oltre al pareggio di bilancio Alan Peacock, altro esponente della scuola, giunse a proporre anche vincoli quantitativi al deficit e al debito pubblici, per quanto potessero risultare ‘rozzi’ e ‘approssimati’, in modo da stabilire comunque un limite certo all’intervento della ‘mano pubblica’. Il Trattato di Maastricht fissò il deficit al 3%, e il debito al 60% rispetto al PIL5.
Ora riprendendo la più radicale delle tradizioni liberiste, quella appunto della public choice, con un Trattato di carattere internazionale si interviene per modificare le Costituzioni così da legittimare nella legge fondamentale, la prima nella gerarchia delle fonti, il liberismo con le sue politiche dell’offerta tese all’espansione del mercato e dell’impresa privata. Il Parlamento italiano ha già votato la modifica dell’articolo 81 per imporre una camicia di forza alle politiche di bilancio. Sarà la Corte di Giustizia dell’UE a verificare l’avvenuto inserimento e a comminare eventuali sanzioni (art. 8): la Costituzione è resa vassalla delle esigenze di bilancio dettate dai mercati finanziari.
Per spingere gli Stati a ratificare questo Trattato si afferma, in un ‘considerando’, che il sostegno finanziario previsto dal Meccanismo europeo di Stabilità (noto con la sigla inglese ESM) scatterà solo se sarà approvato dai rispettivi Parlamenti.
L’articolo 4 impone l’abbattimento del debito pubblico, per la quota che eccede il 60% del PIL, un ventesimo all’anno. Per l’Italia ciò significa un abbattimento di circa 47 miliardi l’anno, quasi il 3% del PIL!
L’articolo 5 prevede l’attuazione, in partnership con l’UE, di un programma relativo sia al bilancio sia alla politica economica che ‘includa una descrizione dettagliata di riforme strutturali’. Intendendo con ‘riforme strutturali’ quelle del mercato del lavoro, dei servizi pubblici, della previdenza. È il programma che sta realizzando il governo Monti: prima il taglio alla previdenza con l’allungamento della stessa età pensionabile, poi le liberalizzazioni e privatizzazione dei servizi a partire da quelli a rete, poi il mercato del lavoro, per facilitare ancor di più licenziamenti e flessibilità.
L’articolo 6 stabilisce che la stessa programmazione della collocazione dei titoli di debito pubblico deve essere comunicata ex ante all’UE per coordinarla a livello europeo. Inutile ricordare che l’emissione dei titoli è una delle ‘prerogative’ più incisive dei ministeri del Tesoro, che ora di fatto viene spostata a Bruxelles.
Il Patto Fiscale usa come meccanismi operativi quelli messi a punto con il Semestre Europeo, il Patto Euro Plus e il Six Pack, strutturati da quattro Regolamenti emanati nel novembre 2011. Le procedure di governance, previste dal Titolo V del Trattato, sono la razionalizzazione di tutto questo insieme di disposizioni. Queste consentono una più stretta sorveglianza economica per garantire la stabilità dell’area dell’euro e più in generale dell’intera UE. La governance economica si snoda secondo un agenda annuale per cui:
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a gennaio, la Commissione pubblica il ‘quadro della crescita annuale’, in cui stabilisce le priorità economiche;
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a marzo, il Consiglio Europeo, formato dai Capi di Stato e di governo, definisce le linee-guida delle politiche nazionali;
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ad aprile, gli Stati membri sottopongono all’esame europeo i propri piani per le finanze pubbliche con il Programmi di Stabilità e Convergenza, e quelli per le riforme con il Piano di Riforma Nazionale;
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in giugno, la Commissione valuta questi documenti ed emana le sue Raccomandazioni, rafforzate dai giudizi dell’ECOFIN e del Consiglio Europeo;
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in luglio, il Consiglio adotta le Raccomandazioni che vengono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale dell’UE;
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in autunno, sulla base di queste Raccomandazioni, gli Stati membri varano le leggi di bilancio.
I governi e la tecnocrazia dell’Unione Europea
I governi e la tecnocrazia dell’UE. Il loro ruolo sarà inoltre rafforzato, perché la Commissione, con il proposito di vararli il prossimo giugno, ha predisposto altri due Regolamenti – denominati per questo ‘Two Pack’ – per rendere più stringente la sorveglianza economica nell’area dell’euro. Il primo Regolamento si indirizza agli Stati sottoposti alla Procedura di Deficit Eccessivo, il secondo a quei paesi che soffrono di instabilità finanziaria.
Il nucleo delle disposizioni completa anche temporalmente le scadenze del Semestre Europeo, perché si predispone che gli Stati membri in autunno sottopongano un draft del loro bilancio alla Commissione che verifica se le sue ‘poste’ corrispondono alle Raccomandazioni pubblicate a luglio nella Gazzetta Ufficiale. Questo consente l’intervento dell’Eurogruppo, che può così avanzare proposte di modifica e operare il coordinamento tra i bilanci dell’intera area dell’euro.
Le disposizioni del secondo Regolamento mirano a rafforzare la sorveglianza dei paesi che presentano un’instabilità finanziaria, consentendo alla Commissione di intervenire in qualsiasi momento e su qualsiasi misura fiscale: un commissariamento permanente come sta sperimentando la Grecia.
La Commissione, formalmente non può cambiare il bilancio, può nondimeno esercitare le pressioni e comminare le sanzioni previste dalle procedure dei deficit eccessivi, del Patto Euro Plus e del Six Pack. Le politiche di bilancio e quelle macroeconomiche degli Stati membri sono finalizzate a garantire, al pari della politica monetaria, la stabilità dell’euro e il consolidamento fiscale. La ‘crescita’ è affidata alle libere determinazioni delle forze del mercato.
Il mercato? E’ politica
L’attribuzione di competenze sovrane in campo fiscale segna una nuova tappa nella costruzione di una governance europea oligarchica, che esautora gli stessi parlamenti, nazionali ed europeo. Alla rappresentanza politica viene sottratto il potere sulle entrate e le spese, stretto com’è tra i vincoli del pareggio di bilancio e le decisioni degli organi dell’UE. Si afferma, lo ha fatto Carlo Bastasin, che questa governance sarebbe un potere di natura tecnica, neutrale politicamente perché non portatrice di interessi di parte, mentre la verità effettuale delle cose è che, in nome del rientro del debito e del consolidamento fiscale, si impongono politiche di austerità, riforme di struttura come quelle della previdenza e del mercato del lavoro (a vantaggio delle imprese), e interventi pubblici di sostegno delle banche6.
L’affermazione di Angela Merkel – serve più Unione politica ‘per avere i mezzi necessari a realizzare l’Unione economica’7 − potrebbe apparire in contraddizione con l’ispirazione dei ‘padri fondatori’ secondo cui dall’integrazione economica sarebbe scaturita l’Unione politica. In realtà la pluridecennale costruzione europea è la creazione dell’ordine giuridico del mercato: ‘ordine giuridico’ perché senza istituzioni pubbliche e diritto dei contratti il mercato non può né esistere né funzionare; ‘del mercato’ perché essi sono organizzate con il fine specifico di creare il mercato unico europeo come regolatore dell’insieme della vita sociale. La libera circolazione dei beni, delle persone, dei servizi e dei capitali è da sempre lo scopo della costruzione europea, e ad essa sono state adattate tutte le scelte politico-istituzionali – dall’organizzazione delle istituzioni e delle loro procedure decisionali al diritto del lavoro. Oggi l’integrazione politica serve a far funzionare il mercato unico nell’era della globalizzazione capitalistica. Il mercato è il supremo ordinatore dell’Unione. Non a caso esso è posto in cima all’agenda dei governi. Alla formulazione di questa agenda ha contribuito il governo Monti sia con la ‘lettera dei 12’ sia con l’incontro con Angela Merkel il 13 marzo. Alla sua conclusione ha detto Monti: «Servizi, innovazione, mobilità del lavoro e industrie di reti: su questi settori intendiamo cooperare strettamente» con la Germania. Mercato, dunque, anche in tutti quegli ambiti in cui non è ancora libero di operare. Il mercato, come ben sapeva Hallstein, non è economia, è politica.
In parallelo al processo di ratifica del Patto Fiscale, si pensa di nuovo a un progetto di Costituzione europea patrocinato dal ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle. A favore di questa prospettiva si sono pronunciate molte personalità europee con un Appello − primi firmatari Giuliano Amato, Ulrick Beck ed Emma Bonino – in cui si chiede la convocazione di una Convenzione costituente per un progetto che affianchi al rigore fiscale la crescita a livello europeo, per perseguire lo sviluppo sostenibile con un nuovo mix di fonti energetiche, una politica aperta all’immigrazione, misure per la disoccupazione giovanile, la lotta alla povertà, e una più incisiva politica internazionale. Si propone, per attuare tali propositi, più ampi trasferimenti di sovranità con un potenziamento della democrazia dell’UE8.
Poiché, per fortuna, sono ormai rare le posizioni ‘sovraniste’, non è certo da temere lo slittamento dei poteri sovrani verso sedi sovranazionali, ma verso quali sedi? Se con il Patto Fiscale si impedisce qualsiasi intervento pubblico per stimolare l’economia anche se in recessione, come si potranno attuare ‘misure per la crescita’? La risposta dell’UE e dei governi è che la crescita deve essere affidata alle politiche dell’offerta e alle ‘riforme di struttura’, volte a rendere più flessibili i fattori produttivi e ad aumentare la produttività. Come si contrastano le forze di mercato? Questa la domanda se si vuole intraprendere la via di un’altra economia.
Per quanto riguarda specificamente la questione della democrazia: gli organismi e le procedure decisionali dell’UE sono conformati secondo la logica del ‘dittatore benevolo’− non le istituzioni democratiche, viziate dai compromessi tra gruppi sociali e lobbies (la ‘democrazia in deficit’ di Buchanan e Wagner), ma solo i governi se immunizzati dall’influenza delle rappresentanze e delle forze sociali, e ancor di più gli ‘esperti’ possono rispondere agli interessi di lungo periodo della società. Il ‘dittatore benevole’ dell’UE è costituito da Consiglio Europeo, Commissione, ECOFIN, BCE9. Sono poteri opachi e irresponsabili nei confronti dei cittadini, chiamati a rispondere solo ai mercati. Altrimenti come potrebbe il banchiere dei banchieri, Mario Draghi, dichiarare morto il modello sociale europeo e chiedere rigore economico e disciplina fiscale ai governi, che immediatamente obbediscono? Accettare i Trattati, e da ultimo, il Patto Fiscale, chiedendone addirittura una rapida ratifica (come fanno i firmatari dell’Appello), significa riconoscere come sovrano il mercato, e legittimare un’oligarchia politica che si fa garante del suo funzionamento.
NOTE
1. Die Zeit, 16 aprile 2003;
2. Walter Hallstein, Europäische Reden, Stuttgart 1979; in particolare v. i discorsi: Europäische Integration als Verfassungsproblem, 29 luglio 1958; Die EWG − Eine Rechtsgemeinschaft, 12 marzo 1962; Die EGW – ein Element einer Weltordnung, 22 luglio 1962;
3. Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2012;
4. J. M. Buchanan and R. E. Wagner, Democracy in Deficit: The Political Legacy of Lord Keynes, London 1977;
5. Alan Peacock, Public Choice Analysis in Historical Perspective, Raffaele Mattioli Lectures, Cambridge, 1992, pp.106-07, e p. 110;
6. Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2012;
7. Conferenza stampa, Roma 13 marzo 2012;
8. Corriere della Sera, 10 marzo 2012.
9. Non in maniera troppo dissimile Michele Prospero ha parlato di plutocrazia: «Si realizza un immenso blocco sociale, che comprende istituzioni della proprietà, grandi dirigenti di impresa, esponenti dell’alta finanza, strati della classe politica, gestori dei media, che oltre al monopolio del denaro vanta anche il monopolio della narrazione e racconta che in questi tempi alla politica non tocca che assumere le vesti dimesse di una tecnica che incentiva la concorrenza, riduce il debito, spezza le sacche del conservatorismo (ossia taglio dei diritti e prestazioni sociali)» (Filosofia del diritto di proprietà, Milano 2009, vol. II, pp. 665-66).
* Attivista di Ross@. L’articolo qui pubblicato è comparso anche su “Alternative per il socialismo” nr.21
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