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Ruanda: dal Manifesto Bahutu al genocidio del 1994

Vent’anni fa si consumava il “genocidio” in Ruanda. Esso non è stato un “moto di pazzia improvvisa” ma il tragico epilogo di una politica razzista sorta all’interno del paese grazie alle autorità coloniali belghe prima, e al sostegno francese al regime all’indomani dell’ indipendenza.

Si è parlato molto del genocidio ruandese, sarebbe meglio chiamarlo genocidio del 1994 visto che, come andremo a vedere, fu il secondo in ordine di tempo. Tra le altre cose, se ne è sempre parlato con una visione “occidentale” presentandolo, attraverso i media, quasi come un esplosione di violenza che ha turbato una “pacifica” convivenza.

Molto poco si è detto invece sull’ossatura ideologica di un regime di stampo razzista che diede il via ai massacri come ultimo atto  al fine di mantenere il proprio potere.

Hutu Power: il Manifesto Bahutu del 1957

Il 24 marzo del 1957 viene pubblicato in Ruanda un documento di 12 pagine intitolato: “Note sull’aspetto sociale del problema razziale indigeno nel Rwanda”, redatto da nove intellettuali hutu che si definiscono “cristiani impegnati”. I loro nomi sono: Maximilien Niyonzima, Grégoire Kayibanda, Claver Ndahayo, Isidore Nzeyimana, Calliope Mulindaha, Godefroy Sentama, Sylvestre Munyambonera, Joseph Sibomana e Jouvenal Habyarimana.

Alcuni studiano presso il seminario di Kigali, Kayibanda e Niyonzima sono i redattori del giornale ufficiale della chiesa cattolica Ruandese: “Kinyamateca”, che è l’unico organo di stampa locale permesso dalle autorità coloniali belghe, Milidadabi è il segretario al vescovato di Kabgayi ltre che direttore dell’ Azione Cattolica in Ruanda.

Un ruolo fondamentale nella redazione e nella diffusione del Manifesto Bahutu lo ebbe la congregazione missionaria belga dei “Padri Bianchi” mascherando l’appoggio al Manifesto con “la promozione di un’era di maggior giustizia e democrazia nella societa’ ruandese”.

Il Manifesto si basa sulla teoria “storico-etnica” inventata dal colonialismo belga che individua i tutsi come una popolazione nilotica proveniente da Etiopia e Egitto che colonizzò il Ruanda schiavizzando la popolazione locale Hutu. Questa è la teoria dalla cui partenza il Manifesto Bahutu rivendica un “processo democratico” nel paese capace di metter fine alla secolare supremazia dei tutsi e al “servilismo feudale” cui gli hutu erano costretti.

Anche se,in apparenza,il Manifesto Bahutu contiene rivendicazioni progressiste quali la riforma agraria, la soluzione del problema indigeno in Ruanda ecc…; esso è il testo di base per la supremazia razziale Hutu e il regime razzial-nazista instaurato da Jouvenal Habyarimana all’indomeni dell’indipendenza, citando un passo del manifesto: “Qualcuno si domanda se esiste veramente un conflitto sociale o se è un conflitto razziale. Noi pensiamo che queste riflessioni siano semplice letteratura. Nella realtà e nel pensiero del popolo il problema non è sociale. Il problema risiede nel monopolio politico che i tutsi dispongono. Un monopolio politico che, esaminando le attuali strutture esistenti, si trasforma in un monopolio economico e sociale dei tutsi che, con grande disperazione per gli hutu, condanna la maggioranza della popolazione a restare eternamente della mano d’opera subalterna”.  Possiamo notare come gli autori del documento, attraverso un abile falsificazione storica, identificano gli hutu come vittime del “colonialismo tutsi”. La tesi è sviluppata grazie alla teoria del “colonialismo a due fasi” che individua come “prima fase” il colonialismo dei tutsi sugli hutu e come “seconda fase” il colonialismo belga in Ruanda.

Sempre citando un atro passo: “Senza gli Europei noi saremmo stati condannati ad uno sfruttamento disumano e, tra i due mali bisogna scegliere il minore”  (il colonialismo europeo),“un colonialismo progressista e buono rispetto alla supremazia razziale dei nilotici” vediamo,quindi,come si attui una distinzione della popolazione ruandese come i dominati (hutu) e i dominatori (tutsi) vengano raffigurati come due popolazioni ben distinte in questo “documento” redatto da “intellettuali cristiani”, “intellettuali” che,volutamente,non si soffermano a riflettere sul fatto che entrambe le “etnie” parlino la stessa lingua (il Kinyaruanda, una lingua bantu) ,abbiano gli stessi usi e costumi e vivano negli stessi villaggi e nelle stesse città.

Il manifesto Bahutu è quindi in realtà un manifesto razziale, che si basa sulla distinzione di due blocchi etnici incitando una parte della popolazione (gli hutu) a ribellarsi contro i tutsti anziché parlare di popolazione ruandese nel suo insieme e individuare nel colonialismo belga il vero male del paese.

Il contesto storico

Il potere coloniale belga comincia a sgretolarsi con la fine della Seconda Guerra Mondiale sotto la spinta dei primi movimenti politici africani, nel 1952 il Belgio annuncia la preparazione di un piano decennale di sviluppo nel Ruanda e nel Burundi con l’obbiettivo di “preparare” le due colonie africane all’indipendenza.

L’opposizione più radicale nel paese contro il colonialismo belga era promossa dalla borghesia tutsi attraverso un progetto di indipendenza basato non sull’etnicità ma sul nazionalismo, attraverso il concetto secondo il quale ogni ruandese (indipendentemente dalla sua provenienza etnica) aveva il diritto di gestire il proprio paese senza interferenze esterne, soprattutto se provenienti dalla ex potenza coloniale. L’indipendenza dal Belgio era un diritto per i ruandesi e non una gentile concessione da parte della potenza coloniale europea.

Visto il precipitare degli eventi il colonialismo belga sostenne la creazione di forze politiche di chiara matrice etnica affidando il compito di creare una “intellighenzia” politica hutu alla chiesa cattolica, “intellighenzia” che aveva il compito di incanalare il risentimento della popolazione (dopo decenni di imposizioni e repressioni da parte del colonialismo belga) verso i tutsi, grazie al sostegno finanziario del movimento internazionale democristiano, la Chiesa e il Belgio favorirono la creazione di partiti “hutu” da contrapporre a tutti quei partiti che avevano sposato una causa anticoloniale basata sul nazionalismo e non sull’etnicismo.

Il Manifesto Bahutu, nacque per dare a tutti questi partiti “hutu” uno spessore ideologico pseudo rivoluzionario capace di confondere la loro politica basata sulla supremazia razziale attraverso una maschera democratica e progressista.

Con queste premesse si arriva,nel 1962, all’indipendenza accompagnata nel frattempo dallo sterminio di 100mila ruandesi di etnia tutsi seguita dalla fuga di numerosi sopravvissuti in Uganda e in Burundi. Nel 1973 in Ruanda, il generale Juvénal Habyarimana prende il potere attraverso un colpo di Stato instaurando un regime razzial-nazista basato sulla supremazia hutu, attraverso la teoria dell “hutu power” che trova il suo fondamento ideologico nel Manifesto Bahutu, concretizzatasi attraverso il piano di “soluzione finale” ideato e attuato negli anni ’90.

L’Hutu Power e il regime razzista di Habyrimana

Dal 1973 fino al 1994 il regime di Habyrimana giocò la carta etnica per isolare le popolazioni del centro e del sud del paese poco sensibili al nuovo regime razzista instaurato nel paese. Le “origini etniche” furono registrate sui documenti di identità, come al tempo del colonialismo belga, e servivano per determinare l’accesso ai servizi pubblici attraverso un sistema di “quote razziali”. Tuttavia grazie alla copertura mediatica di Belgio, Francia e Vaticano, il regime di Habyrimana appariva “democratico” giocando sull’ambiguità della gestione del paese, a favore della maggioranza (durante il periodo del partito unico) e successivamente aprendosi al multipartitismo, giocando così sull’ambiguità della volontà elettorale della maggioranza. “Gestione del paese a favore della maggioranza” significava gestione del potere a favore dell’elite dominante hutu, ossia a favore del famelico clan presidenziale aggrappato allo sfruttamento delle risorse del paese, grazie alla ex potenza coloniale, oltre che alla Francia e al Vaticano facendo così conoscere al popolo ruandese una dittatura trentennale a connotazione razziale.

1994: il genocidio

L’11 gennaio del 1994 il generale canadese Dellaire, al comando dei caschi blu dell’ ONU giunti in Ruanda per far rispettare l’accordo di Arusha del 1993, spedisce un fax al quartier generale di New York dove informa i massimi esponenti delle Nazioni Unite della preparazione, da parte del regime, dell’avvio delle operazioni di “pulizia etnica” da parti delle locali milizie Interahamwe, ben 4 mesi prima dell’inizio ufficiale delle “operazioni” con la connivenza del palazzo di vetro, che già sapeva dei preparativi in corso. L’ufficio dell’ONU fu capace di lavorare a pieni ranghi solo dopo il termine del genocidio, e questo ritardo costò alle Nazioni Unite una quantità di accuse che le portarono nel marzo 1996 a ritirare i propri contingenti.

Il 6 aprile del 1994 alle 20.30, l’aereo presidenziale con a bordo Juvenal Habyarimana, presidente del Ruanda, si sta preparando all’atterraggio. A bordo c’è anche il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira, più una piccola folla di accompagnatori. Il gruppo è di ritorno da una riunione di emergenza dei capi di stato africani durante la quale Habyarimana ha promesso di installare un governo di transizione nazionale a partire dall’8 aprile. Da mesi il governo tergiversa sull’attuazione degli accordi di Arusha, firmati rispettivamente il 30 ottobre del 1992 e il 9 gennaio del 1993 ,i quali stabiliscono una tregua alla guerra civile che dhe dal 1990 vede il governo razzista di Kigali contrapporsi ai ribelli del Front Patriotique Rwandais  (FPR), guidati da Paul Kagame  (attuale presidente del paese). Gli accordi avrebbero comportato non solo il passaggio a un governo di transizione a base allargata ma anche l’interruzione da parte francese, del supporto politico, militare ed economico al regime di Habyarimana.

Mentre l’aereo si prepara all’atterragio viene colpito da due missili terra-aria ed esplode in volo, poche ore dopo nelle strade è già l’inferno. Accusando i ribelli dell’ FPR dell’attentato, il governo da l’avvio a un massacro sistematico, e pianificato già da alcuni anni, attraverso l’addestramento delle tristemente note milizie Interahamwe e l’uso propagandistico della tv e della radio di stato (Radio Télévision Libre des Mille Collines).

Il Ruanda contava all’epoca circa 7 milioni di abitanti e in 100 giorni vengono eliminate dall’esercito (dalle milizie Interahamwe e dalla guardia presidenziale) circa 800.000 persone. In una corsa contro il tempo l’FPR riuscirà a entrare a Kigali e porre fine al massacro.
Inizierà un esodo che vedrà un milione di persone di etnia hutu, tra cui i principali esecutori dei massacri, riversarsi nell’allora Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) inseguiti dalle truppe del nuovo governo insediatosi a Kigali che coglierà la palla al balzo per occupare le principali zone diamantifere congolesi e iniziare quel processo di furto delle risorse che continua tutt’ora e che è parte importante dell’economia ruandese.

In questa storia l’implicazione della Francia ha un sapore coloniale: Parigi sostenne il regime razzista di Habyiarimana in ragione di una lettura dell’ avanzata dei ribelli dell’ FPR come un’espansione del fronte di influenza anglo-americano nella zona. Addestrati e formati in Uganda (con il supporto USA e britannico), i membri dell’ FPR erano ritenuti da François Miterrand una minaccia per la tutela degli interessi francesi nella regione.

Quando nel luglio del 1994 l’FPR prende il controllo del paese, i rapporti tra Francia e Ruanda diventano tesi. Poco tempo prima il governo francese, avendo capito che la capitolazione del regime era inevitabile, cercò attraverso le vie ufficiali delle Nazioni Unite di organizzare una “missione umanitaria” per portare in salvo gli ideatori principali del genocidio; nel 2000 Jean-Christophe Mitterrand, figlio di François Mitterrand, sarà arrestato dalle autorità francesi per traffico di armi verso il Ruanda.

Nel novembre 1994 è stato istituito il Tribunale penale internazionale per il Rwanda (Tpir, con sede ad Arusha, in Tanzania), incaricato di processare i responsabili di atti di genocidio e di altre gravi violazioni dei diritti umani in Ruanda o da cittadini ruandesi in paesi vicini tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 1994. Le inchieste del Tpir si sono concluse nel 2010 e le decisioni in appello dovranno essere comunicate entro la fine del 2015. Uno dei processi storici è stato quello a carico di Jean Kambanda, primo ministro del cosiddetto governo ad interim costituito il 9 aprile 1994, condannato all’ergastolo nel settembre 1998. E’ durato sette anni il processo ai “media dell’odio”, tra il 2000 e il 2007. Ferdinand Nahimana, uno dei fondatori della Radio Television Libre des Mille Collines (Rtlm), è stato condannato a 30 anni di carcere. In tutto il Tpir ha emesso 47 condanne e ha prosciolto 12 persone.

Nel 2009,  Protasi Zigiranyairazo, noto come ‘Mister Z’, l’ex prefetto di Ruhengeri e cognato del presidente Habyarimana nonché uno dei principali responsabili del genocidio del 1994, venne prosciolto da ogni accusa. I suoi legali hanno basato la loro difesa sul fatto che non c’era alcuna prova del suo coinvolgimento nella pianificazione del genocidio. D’altra parte nove pianificatori del genocidio sono tutt’ora latitanti, tra cui uno dei principali finanziatori dei massacri, l’uomo d’affari Felicien Kabuga, visto per l’ultima volta in Kenya 20 anni fa.

Se da un lato numerosi esecutori e responsabili dei massacri avvenuti in Ruanda vent’anni addietro sono stati giudicati e condannati, sia in Tanzania attraverso il Tpir sia in Ruanda attraverso le “gacaca” (corti comunitarie), restano a piede libero i banchieri e i trafficanti di armi che finanziarono e armarono il governo razzista di Habyarimana.

da Infoaut

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