Non sono d’accordo con chi dice che Renzi è solo un “pallonaro”, che è puro chiacchiericcio e fanfaronate. Parole in libertà e via dicendo. Sottolineo il “solo”. E’ soprattutto, se vogliamo dare priorità, un prosecutore con altri mezzi e forme di quel che ci viene imposto da vent’anni a questa parte (ad avere memoria corta). Da Berlusconi a Letta, a Monti. Mettendo in pratica quel vademecum che ci accompagna fin dalla fine degli anni ’70 che è il programma “democratico” della buonanima di Gelli. La soluzione politica alla finanriazizzazione del capitale.
Sì, Pelù ha visto giusto!
Non si hanno le prove provate, ma certo i sospetti delle sue radici (quelle di Renzi) non mancano. Renzi è amicone di Verdini, e i rapporti fra questi e la loggia massonica P2 non certo mancano. Il padre di Renzi (anche se da lui smentito; ma ne trovate uno della P2 che conferma?) era un massone noto negli ambienti fiorentini. Ma quel che conta è quel che fa, sta facendo, ha intenzione di fare nel campo delle “riforme” istituzionali, nel campo del diritto dei lavoratori, sul fronte del sindacalismo (o di quel che ne rimane), ecc ecc . Al di la di quel che si dice, contano i fatti e le analogie fra questi e quel programma in cui era già scritto quel che era necessario fare.
Il fare è lo stesso, ma è le forme e il dire che identifica il personaggio.
Prendo ad esempio una interviste, delle mille che il Premier rilascia. Quella a Cazzullo sul Corriere (http://adf.ly/ljhR5).
Voglio solo far notare come a delle domande con dei contenuti concreti si risponde sempre con frasi roboanti, con immagini accattivanti, affermazioni ideologiche ma che non hanno nessun rapporto con la domanda.
Infatti ad ogni domanda il refrain è il medesimo. Si naviga su lidi e sponde che toccano la fantasia, l’immaginario collettivo accattivante e rassicurante. Pieno di incognite, di sacrifici, sì, ma alla fine il bene vincerà sul male.
“l’Italia ha tutte le carte in regola per essere un leader nel mondo e il leader in Europa; ma per farlo deve cambiare. Non basta cambiare il Senato o le Province o i poteri delle Regioni; ma se ci riusciamo, se la politica dimostra che può riformare se stessa, allora abbiamo l’autorevolezza morale per cambiare gli intoccabili»
Afferma cioè che cambiare le istituzioni non serve in concreto, ma solo per consentire di cambiare il concreto, il reale, ma in un secondo tempo. Infatti il risultato delle riforme consente di diminuire il numero e rendere docili i rimanenti referenti e presunti tali all’interno delle istituzioni ormai democratici solo come aggettivo determinativo e non certo qualificativo.
“Non dico che dobbiamo cambiare tutto, ma che dobbiamo cambiare tutti. Sono qui per cambiare il Palazzo; non accetteremo che il Palazzo cambi noi. Non diventeremo “buoni” al punto da modificare il nostro dna».
Non dichiara apertamente come, la qualità del cambiamento, ma solo annuncia il cambiamento. E in questo da spago e cibo all’ondata populistica dell’antipolitica, ma condita in salsa reazionaria con un pizzico di decisionismo da “macho”. Il don Chisciotte che sfida il mostro.
“In America il Jobs Act di Obama ha portato la disoccupazione sotto il 7%; noi siamo al 13, e tra i giovani al 42. Dobbiamo fare di tutto per consentire a chi vuole creare lavoro di farlo. Le resistenza del sindacato sono rispettabili, non comprensibili”.
Qui si ha uno sillogismo da manuale del populismo. Si associa fuori da ogni contesto, fuori da ogni riferimento storico, economico e politico un nome evocativo Jobs Act come se questo da solo possa portare a quei numeri da miracolo economico (senza scendere nei dettagli di quei numeri, della reale portata e consistenza. Numeri che non sono lontanamente paragonabili visto i criteri di misurazione lontane mille miglia). Per poi affondare il colpo mortale. Qui numeri non sono raggiungibili per colpa dei sindacati (o di quella parte di sindacato che resiste, ma solo a parole. Il sindacalismo come metafora per indicare tutto ciò che resiste al cambiamento. Una spolverata di grillismo tanto per accattivare anche le simpatie di qualche “scontento” di quel movimento).
Sogno un sindacato che, nel momento in cui cerchiamo di semplificare le regole, dia una mano e non metta i bastoni tra le ruote. Non vogliamo fare tutto da soli, sulla riforma della pubblica amministrazione aspettiamo anche le loro idee; ma vogliamo che a un certo punto si decida, altrimenti non è politica, è chiacchiericcio. Non vorrei che la polemica derivasse dal fatto che si dimezza il monte ore dei permessi sindacali e che i sindacati saranno obbligati a mettere on line ogni centesimo di spesa. Non i bilanci, che spesso sono illeggibili; ogni centesimo.
Il riferimento al mantra dei democrat al sogno americano o a quello di Martin Luter King è evidente. Non si accetta o meglio non si pone la possibilità di una visione alternativa. O il cambiamento (quello da lui proposto) o morte. E anche qui la tecnica del piazzista è messa in pratica in tutta la sua potenza. Ebbe a dire una volta Berlusconi (suo padre putativo e di merende) che quando si invita una bella donna ad uscire non si pone la richiesta sotto forma di domanda, si esclude la possibilità di scelta . Questa è relegata solo al quando, non al se. Non si lascia la possibilità di scelta (accettare o non accettare, ma solo quando se alle 20 o alle 21) Qui è lo stesso. Non si pone nemmeno la possibilità che vi possa essere un modo di cambiare diverso da quello che lui propone, ma solo se accettare il suo cambiamento oppure si vuole la status quo.
Diciamo anche, che sul fronte sindacale ha gioco facile. Sa di giocare facile, di avere di fronte un avversario debole e sfiancato, e con molti cadaveri nell’armadio e quindi gli affondi toccano un terreno fragile e debole. Questo d’altra parte lo ha capito anche il grillismo. Attaccare il ceto dirigente del sindacato (chi avrebbe il coraggio di difenderli? Quali argomenti portare a loro difesa?) associandolo al sindacalismo tout court è gioco facile. Colpendo gli uni si affonda il concetto stesso di sindacato. E la vittoria è assicurata.
Ma il massimo, la perla si raggiunge quando fa riferimento a Grillo e alla sua scampagnata a Piombino.
È andato (riferendosi a Grillo) in un’azienda che sta morendo, dove hanno appena spento l’altoforno, a strumentalizzare un dramma con il solo obiettivo di prendere voti e attaccare i sindacati. Ma le persone che vogliono bene ai lavoratori non si comportano così; cercano di salvare i posti di lavoro. Noi abbiamo messo su Piombino più di 200 milioni, riconoscendo come interlocutore unico il presidente della Toscana, che in passato su di me aveva espresso opinioni non particolarmente esaltanti. Non ho attaccato i sindacati su Piombino: li ho coinvolti.
Al di la del caso specifico, qui riprende un pensiero dominante fin dai tempi della Fornero e di Sacconi, ma anche prima con Treu, Biagi ecc ecc. Quando si rifanno non ai lavoratori, ma al lavoro. Non si salvano i lavoratori, persone in carne ed ossa, ma i posti di lavoro, l’impresa, la roba. Infatti Renzi non parla, nel suo provvedimento, di Work, ma di Job. Non di una attività lavorativa che produce reddito, specifica, individuata, che accompagna la persona e che lo aiuta a vivere la sua vita e quella della sua famiglia. Ma un lavoro qualunque esso sia, quantunque duri, di qualunque qualità esso sia, precario, spot. La vita delle persone deve essere fondata nella strenua ricerca di un lavoro, la sua massima attività si incarna nella spasmodica ricerca di una fonte di reddito, qualunque esso, sia. Cultura, tempo libero, svago, ozio, tempo per la riproduzione, non sono più a dimensione uomo, ma che dico, nemmeno hanno una dimensione, perché sopraffatte e tutto dedicato alla ricerca del lavoro.
E la fraseologia, la fenomenologia, quello che appare nel personaggio Renzi, è il contenuto che sottende.
* dalla maillist Marx_Oggi
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