Nei drammatici avvenimenti e scenari di guerra in Ucraiana e non solo, la cosiddetta “questione Kosovo” attraversa analisi, riferimenti, raffronti, alle volte in modo consono, altre volte strumentale. Chi semina vento raccoglie tempeste, si potrebbe sintetizzare, riferendosi alle strategie e scelte delle leadership occidentali e statunitensi in primis. Un aspetto sicuramente emerge come dato di fatto, grazie all’ ”operazione Kosovo”, gestita dalla NATO, lo stravolgimento e annichilimento del Diritto Internazionale, cominciato con il processo di distruzione della Jugoslavia e approdato alla rapina della provincia alla Serbia, ha aperto scenari di destabilizzazione e conflittualità dilaganti e a macchia d’olio in ogni angolo del mondo. Ma il Kosovo resta un modello solo per quelle realtà filo occidentali e vogliose di vendere la propria indipendenza e sovranità ai grandi poteri finanziari e militari occidentali. Al contrario per paesi e popoli alla ricerca di autonomi ed indipendenti processi di sviluppo e soluzione dei propri problemi, il Kosovo non può essere un modello; semplicemente perché il Kosovo è una soluzione imposta con una guerra della NATO, estraneo a qualsiasi processo di emancipazione, liberazione o indipendenza di un popolo. Il Kosovo è semplicemente un entità che esiste e sopravvive solo grazie alla presenza di forze militari straniere che impongono lo status quo, per propri interessi geostrategici e per una scelta geopolitica, estranea agli stessi interessi della popolazione onesta albanese. Senza di queste in pochi giorni tornerebbe ad essere ciò che è sempre stato, una provincia serba in cui hanno da sempre convissuto, quattordici minoranze paritariamente, e non ciò che è oggi: un narcostato nel cuore dell’Europa, teatro di pulizie etniche, violenze, terrore e criminalità, imposte da una dirigenza criminale e terrorista alla popolazione civile, occupato militarmente da migliaia di soldati stranieri ( occidentali) e dalla più grande base statunitense dai tempi del Vietnam. Così come è stato calpestato il principio che fu stabilito agli inizi della crisi jugoslava negli anni novanta, dalla stessa “comunità internazionale” con l’avallo dell’ONU, della intangibilità delle frontiere del 1945.
Il Kosovo non è la Crimea, semplicemente perché il referendum per l’indipendenza è avvenuto dopo una guerra di aggressione della NATO contro un paese sovrano, una pulizia etnica di tutte le minoranze, una campagna di terrore e violenze sistematiche, contro tutto ciò che non era interno ad una logica “etnica”, distruggendo anche quasi 200 chiese, monasteri o luoghi sacri della cultura ortodossa. Un po’ diversa come situazione, dalla realtà di quei popoli che stanno cercando l’affrancamento e una propria sovranità ed indipendenza reale. Ed ancora oggi vige la protervia delle politiche delle potenze occidentali, continuando a negare un vero confronto su proposte, idee, progetti per una soluzione nella regione, che non sia fondata su ricatti o minacce, che riguardi le minoranze kosovare, dai serbi, ai rom, ai gorani, alle altre minoranze; negando alla attuale minoranza serba per esempio il diritto a scegliere un processo di autodeterminazione, anche solo territoriale o di autonomia regionale. Per essi, ciò che è stato permesso e sostenuto alla minoranza albanese secessionista, è negato e proibito violentemente.
Con un retroterra di questo tipo, ci si stupisce se divampa la legge della giungla?
Mentre l’Unione Europea predica il superamento delle divisioni etniche e nazionaliste all’interno dei suoi membri, nel caso del Kosovo e di altre regioni si comporta nella maniera opposta.
Per qualsiasi caso ci si approcci, l’ipocrisia dell’Unione Europea e degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali è messa in luce dal riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo; viene stracciato il diritto internazionale mediante un mucchio di falsità per giustificare i propri interessi, e non certo per principi di sostegno nei confronti di “diritti” del popolo kosovaro. Questo è dimostrato dalla posizione per esempio tenuta rispetto alle situazioni storiche nella ricerca di indipendenza e dei Baschi o dei Catalani, o dei Corsi, o la tragica situazione dei Palestinesi o Curdi. Vi sono poi realtà storicamente, culturalmente e legittimamente rappresentative come quella della Pridnestrovie/Transnistria, dell’Abkhazia, dell’Ossezia del sud, del Nagorno Karabakh. Oggi dopo il golpe effettuato a Kiev, dilagano aspirazioni di indipendenza, affrancamenti da assoggettamenti non voluti e di autodeterminazione, di sempre più realtà e popoli, come un domino internazionale; sicuramente colme di contraddizioni e complessità, ma nessuna di queste pur essendo fondata su forti caratteri identitari, nega il rispetto di minoranze, diversità, differenze politiche o religiose. Quindi la domanda da farsi è come mai queste realtà, fondate tutte su spinte popolari e con forti identità nazionali e di indipendenza, non godono dell’appoggio ne’ degli Stati Uniti ne’ dell’Unione Europea, a differenza del Kosovo, ma al contrario vengono sottoposte a minacce, ostilità, sanzioni e usualmente criminalizzate? Cosa hanno di diverso dal Kosovo?
Forse la risposta è che nessuna di queste realtà pur profondamente diverse tra loro, aspira a farsi colonizzare economicamente, politicamente, militarmente e culturalmente. Forse dopo anni di bagni di sangue e di cumuli di menzogne in giro per il mondo, per questi popoli i governi degli Stati Uniti, di Germania, Francia, Gran Bretagna, il modello Unione Europea non sono più credibili. Ma c’è un aspetto estremamente interessante, soprattutto in una prospettiva futura di emancipazione dei popoli, che emerge da queste realtà, ed in modo preponderante in queste settimane nelle Repubbliche autodefinitesi “popolari” dell’Ucraina orientale: ed è quello del protagonismo in prima persona di blocchi popolari e sociali che sulla base di interessi generali collettivi unitari, pur differenti tra loro ma cementati su radici storiche legate alla memoria storica della lotta contro il nazifascismo, come valore storico, etico e morale di liberazione, indiscutibile, prendono in mano la loro situazione da protagonisti. Questo è un dato nuovo all’interno degli ultimi decenni nel contesto europeo, vissuti dai popoli sulla difensiva, se non nelle sconfitte. E riaccende fiammelle di speranze in tempi meno cupi e foschi per i popoli, seppur difficili da affrontare.
* Enrico Vigna, Forum Belgrado Italia
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