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L’Europa dei lavoratori poveri

In Europa ci sono sempre più lavoratori poveri. In Italia lo è un lavoratore su dieci. È un fenomeno drammatico ma poco evidente nelle statistiche ufficiali. Le percentuali peggiorano anche nelle nazioni ‘modello’ come Germania e Inghilterra. Su questi paesi si è concentrata l’analisi di Lucia Pradella, ricercatrice post-doc e docente di Economia del Welfare a Ca’ Foscari, premiata per il miglior paper scritto da un giovane ricercatore da due importanti network di ricerca.
Il premio è stato assegnato da EU integration and Global Political Economy e Comparative European Politics, parte del Council for European Studies della statunitense Columbia University. “Pone domande profonde sul vero proposito dell’integrazione europea, non da ultimo in relazione al suo impegno per un Modello sociale europeo basato sul lavoro”, ha motivato la giuria composta da studiosi delle università di Copenhagen, Sciences-Po Parigi, Bielefield e Liverpool Business School, annunciando il premio a Washington durante la 21a Conferenza Internazionale degli Europeisti. L’articolo premiato è “The Working Poor in Western Europe: A Global Political Economy Perspective“, risultato di una ricerca finanziata dal Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali e dal Master sull’immigrazione nell’anno accademico 2012/13.

Cosa significa essere un lavoratore povero?
«In Europa la definizione si basa sulla soglia di povertà, fissata dal reddito medio nazionale. Chi lavora per almeno sette mesi l’anno e fa parte di un nucleo famigliare il cui reddito è inferiore alla mediana nazionale è un lavoratore povero. Essendo una misura relativa, presenta aspetti problematici. Quando il reddito medio nel paese cala, come sembra stia avvenendo in questo periodo in Italia, un effetto può essere la riduzione, statistica, del tasso di lavoratori poveri. A causa dello stesso effetto, sembrava che i lavoratori poveri greci fossero diminuiti nel 2011, invece l’anno seguente balzarono dall’11 al 15% del totale dei lavoratori. Aumentavano i lavoratori che stavano al di sotto della soglia di povertà, nonostante questa soglia continuasse a ridursi».

Dunque carenza di dati ed effetti come quello che ha descritto pongono il rischio che una parte dei lavoratori poveri sia esclusa dalle statistiche e dalle politiche di sostegno?

«Certo, ma va aggiunta al ragionamento un’altra questione importante: quella delle diseguaglianze di reddito tra i paesi dell’Unione Europea. Diseguaglianza acuita con l’allargamento ad Est. Se guardiamo al reddito medio mensile, ad esempio, notiamo come si passi dai 1.500 euro del Lussemburgo ai 78 della Bulgaria. Questa relatività crea naturalmente dei problemi per la comprensione della reale portata del problema. La Commissione ha proposto di sopperire aggiungendo altri due criteri: deprivazione materiale e intensità del lavoro. La prima viene misurata sulla base di un paniere di beni socialmente desiderabili, come la lavatrice, l’auto eccetera. Rimangono approcci relativi, ma mettendo insieme i vari criteri si ha una visione senz’altro più vicina alla realtà. Prendendo in esame la deprivazione materiale, vediamo come in Romania e Bulgaria metà della popolazione sia da considerare ‘povera’. Inoltre, secondo molti studi il numero di lavoratori poveri sarebbe sottostimato perché non comprende chi non lavora almeno sette mesi l’anno. Molti precari sono quindi ignorati dalle statistiche. Infine, un problema riguarda le donne: misurando la soglia di povertà in base al reddito delle famiglie si trascura la povertà delle lavoratrici. Guardando agli individui, infatti, scopriamo che le lavoratrici povere in Inghilterra sono il triplo degli uomini».

Nel dibattito pubblico paiono pervasive le politiche contro la disoccupazione, meno le storie di chi è povero pur lavorando. Colpa della statistica o della politica?
«Credo che il tema sia poco investigato perché l’idea che un lavoratore possa essere povero mette in discussione il modello sociale proposto, secondo cui il lavoro proteggerebbe dalla povertà, indipendentemente dalla qualità dell’occupazione e dalle condizioni di vita della persona. In realtà, vediamo come le politiche che favoriscono il lavoro precario e sottopagato finiscono con l’aumentare la povertà. Certo, incide anche la carenza di dati, basti pensare che manca una statistica unica sui livelli salariali nell’Unione Europea».

Perché ha scelto di studiare Italia, Germania e Inghilterra?
«Volevo concentrarmi sulla parte ricca dell’Europa, su paesi che oggi vengono considerati modelli di sviluppo, com’è appunto la Germania, uno dei paesi che attorno agli anni Novanta ha visto una crescita delle diseguaglianze tra le più rilevanti tra tutti i paesi occidentali. Oggi, metà dei lavoratori tedeschi ha un salario inferiore alla media nazionale. Il che non significa che siano poveri, perché godono di sussidi statali. Il modello che generalmente riteniamo positivo, però, non è detto che lo sia. La Germania è passata da politiche di sostegno ai disoccupati a politiche cosiddette di ‘attivazione‘, legando il sussidio allo svolgimento di attività lavorative. I disoccupati continuano a ricevere il sussidio ma devono sottoporsi a qualsiasi tipo di lavoro, anche non pagati e senza considerazioni per qualifiche e aspirazioni personali. Sono quindi esplosi lavori a 1 euro l’ora o ‘mini-job‘ pagati 400 euro al mese. Queste politiche hanno una spinta depressiva. Lo vediamo in Inghilterra, dove questi processi sono iniziati molto prima e oggi i lavoratori poveri sono più numerosi dei poveri senza lavoro. In Italia sembra si stia imboccando questa strada».

Che differenze ha notato tra questi paesi?
«Finora la percentuale di lavoratori a basso salario in Italia è stata più bassa che negli altri paesi. Nel 2009 era di circa l’8% secondo i dati OCSE, contro il 20,6% in Inghilterra e il 20,2% in Germania. Tuttavia, se passiamo ai dati sulla povertà dei lavoratori, vediamo che negli altri paesi si scende a circa l’8%, mentre in Italia siamo attorno al 10%. In Italia è scarso l’intervento dello stato in termini di politiche sociali a sostegno dei lavoratori a basso salario».

da http://www.unive.it/

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