E’ quantomeno singolare: dopo cento anni, una repubblica parlamentare che ha tra le sue travi portanti il ripudio della guerra, ha scelto di celebrare un conflitto universalmente noto come “inutile strage”; una guerra in cui un sovrano criminale cacciò il Paese a tradimento con un trattato segreto, firmato all’insaputa del Parlamento. Le parole non sono neutre e pesano come pietre, per cui non c’è forse segnale più chiaro dello stato comatoso in cui versano le Istituzioni, che la parola scelta in aperta contraddizione col dettato costituzionale. Celebrare vuol dire esaltare, glorificare o, quantomeno, ricordare festosamente; una parola, quindi, che porta con sé un moto d’orgoglio, un vanto, una lezione positiva da impartire alle giovani generazioni. Ma cosa c’è da celebrare cent’anni dopo la “Grande Guerra”? L’indecoroso voltafaccia nei confronti di antichi alleati? La lezione di violenza? Il Parlamento posto di fronte al fatto compiuto e poi praticamente messo in mora? Cosa celebreremo? La democrazia sospesa o le decimazioni? I giovani senza elmetto mandati al macello coi berretti di feltro o l’insipienza dei generali alla Cadorna? Chi sceglieremo di ricordare? I socialisti e gli anarchici spediti là dove più certa era la morte? I ragazzi uccisi dai carabinieri pronti a sparare ai soldati terrorizzati? No. Non ricorderemo nulla di tutto questo e taceremo sui centomila nostri prigionieri morti per fame e per freddo nei campi di prigionia perché considerati disertori e abbandonati al loro destino, in mano a un nemico che stentava ad alimentare i suoi uomini al fronte. Decideremo forse di raccontare ai nostri giovani l’inaudita ferocia delle nostre classi dirigenti?
Non sarebbe difficile farlo, ma è un lavoro incompatibile con la parola “celebrare”. Se a uno studente preparato fai i nomi di Mauthaushen e Theresienstandt, inevitabilmente ti parlerà degli eccidi nazisti. Non sarà il Comitato “celebrativo” che comprende l’imprescindibile Marcello Veneziani, a spiegargli ciò che vent’anni fa, in un libro oggi ignorato che meriterebbe di essere sussidio indispensabile nello studio dell’Italia nel primo conflitto mondiale, Giovanna Procacci dimostrò senza ombra di smentite: in quei luoghi furono ammassati 600.000 nostri soldati caduti in mano al nemico e considerati traditori dai nostri governanti. Una inconfutabile documentazione d’archivio e le lettere dei nostri uomini sequestrate dalla censura raccontano a chi vuole ascoltare il massacro di massa realizzato in nome dell’amor patrio. Centomila uomini morirono di fame e di freddo perché nessuno volle aiutarli*. E i Governi sapevano:
“È un affare molto serio”, scriveva da Berna un ufficiale; “bisogna, anzitutto premettere che i tedeschi, non avendo ormai più niente da mangiare, non possono dare maggiormente ai prigionieri. Questi disgraziati, se non sono ufficiali, sono costretti ad un lavoro di 12-14 ore al giorno, sono condannati ad una morte molto più certa che quando erano sul fronte. Creda che questa non è esagerazione. Ne ho visto e ne ho interrogato. So di un sergente il quale ha dato le sue scarpe nuovissime per qualche biscotto. Quello lì aveva potuto conservarsi le scarpe. Quasi tutti gli italiani sono stati spogliati ed hanno dovuto passare l’inverno senza scarpe e talvolta senza cappotto. Il numero dei disgraziati, i quali non vedranno mai più il sole di Italia sarà enorme. Bisogna dunque che la Patria assista i suoi prigionieri, […] che l’Italia faccia in ogni campo dove saranno internati sudditi italiani, degli invii collettivi di biscotti e altri viveri che vengono poi distribuiti dal Comitato scelto nei prigionieri, il quale deve essere costituito in ogni campo. Questo è l’unico rimedio perché: 1°) non si otterrà mai che la Germania dia da mangiare ai prigionieri poiché i tedeschi stessi crepano di fame. 2°) le autorità quando non favoriscono il furto, chiuderanno sempre gli occhi sulla disparizione dei pacchi postali individuali”.
L’Italia non si mosse e si capisce bene il perché: più affamati e disperati erano i prigionieri, più si poteva scoraggiare la diserzione e condurre al macello i combattenti. Paralizzata la Croce Rossa, tutto si ridusse a una propaganda nazionalista così battente e ben orchestrata, da accecare persino i padri e le madri dei nostri infelici soldati.
Prigioniero a Theresienstadt in Boemia, così il 5 agosto 1916 un soldato scriveva al padre: “Non mi degno più chiamarvi caro padre avendo ricevuto la vostra lettera oggi dove lessi che era meglio fossi morto in guerra, e che ho disonorato voi e tutta la famiglia. Tutti parlano male di me. Perché capisco che non sentite più l’amor filiale, non sentite altro che l’amor patrio e pel vostro Re. Perciò d’ora in poi sarò il vostro più grande nemico, e non più il vostro Domenico. Vi ringrazio di tutto cuore, ma non mandatemi più nulla. Addio. Sapete che a scrivere non so tanto; ma sono mie parole lo stesso”.
Di lì a qualche mese, da Mauthausen, un altro prigioniero si rivolgeva alla mamma: “Mia cara madre, Ho ricevuto la vostra […] Il contenuto di essa, riguardante la mia disgrazia mi ha recato dolore ed anche pianto. Mamma, io sono innocente, ve lo confesso con ampia sicurezza, perché la mia coscienza me lo dice e me lo rafferma. Sono libero da ogni rimorso […], ho gran fede in Iddio perché lui riconoscerà la mia innocenza e mi aiuterà nella lotta che sosterrò al mio ritorno. Si, al mio ritorno, dico, perché io verrò, verrò a giustificare la mia ingiusta accusa. Anziché rinunciare la mia patria desidero anche ingiustamente soffrire la condanna. […] State tranquilla mamma perché vostro figlio non vi ha disonorato”.
In discussione, per gli sventurati proletari prigionieri, non c’erano solo la dignità e la vita, ma atroci sensi di colpa e la consapevolezza che la resa al nemico, per inevitabile che fosse stata, era ricaduta pesantemente sulle famiglie, private del sostegno delle loro braccia: “ti hanno levato il sussidio”, scriveva al padre un contadino pugliese il 16 febbraio del 1918. “Sono grandi vigliacchi perché io quando fui fatto prigioniero fu colpa del mio tenente e non è colpa mia, e poi noi fummo fatti prigionieri in 32 soldati e caporali e 2 sottotenenti come fanno a dire che io sono disertore?”.
Lettere mai giunte e gelosamente conservate in archivio. Lo sanno tutti: celebrare la guerra non è mai impresa nobile. Celebrare questa guerra, con 100.000 omicidi di Stato su 600.000 caduti è una infinita vergogna.
* Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Editori Riuniti, Roma, 1993.
Segnalato da http://giuseppearagno.wordpress.com
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Marta
Sebbene sia d’accordo sulla drammaticità e la cruenza inutile della Grande Guerra, tuttavia non sono completamente d’accordo sull’inadeguatezza del verbo “celebrare”. Trovandomi alle prese con l’organizzazione di un evento intorno alla prima guerra mondiale, io stessa mi sono domandato quale termine utilizzare?
Celebrare, non ha solo un’accezione positiva nella lingua italiana, non è come festeggiare. Infatti si celebrano processi, messe, anniversari, quindi ha più a che vedere con la messa in atto di un rituale pubblico di fronte a dei testimoni. In questo forse il verbo celebrare è più adatto di “ricordare”, che in sé potrebbe andare meglio, ma ha un tratto più intimo, più individuale e meno sociale. Questa è stata la mia riflessione attraverso la quale sono arrivata ad affermare che si può celebrare il centenario dello scoppio della prima guerra mondiale, attraverso un’azione di memoria e di approfondimento svolta pubblicamente di fronte a testimoni.