Il contributo all’incontro “Il nemico e lo spettro”, tenutosi a Roma sabato 14 giugno allo Scup in preparazione della manifestazione del 28 giugno a Roma, di Torino e del controsemestre di lotta
La Spagna è uno dei paesi europei con la più alta percentuale di abitazioni di proprietà, pari al 83% , ben al di sopra della media UE che è del 65%. Ma questo dato viene ad esempio superato in molti paesi dell’Europa dell’Est come Romania (96%), Lituania e Slovacchia (89%), Ungheria (87%) e Lettonia (84%). L’Italia che pure è sempre stata fortemente sbilanciata sul fronte delle case di proprietà scende al 67,2% (dati Banca d’Italia) più o meno il livello degli Stati Uniti.
Al contrario in Germania, Austria, Danimarca, Francia, Olanda e Polonia, meno del 60% sono case di proprietà.
In Germania il 46% sono in affitto, in Olanda il 43% e in Danimarca il 42%, praticamente il doppio della media europea di case in affitto che è il 21%.
La dimensione fortemente privata della ricchezza immobiliare sembra dunque stridere con le condizioni sociali dei vari paesi: più è forte la dimensione privata, peggiori sono i salari e i sistemi di welfare state.
Alla fine degli anni Novanta un rapporto dell’Ocse indicava i bassi salari e la massima flessibilità del lavoro come orizzonte certo anche per il modello sociale europeo. I fatti ci dicono che il monte salari dei lavoratori si va abbassando, gli orari di lavoro si allungano, le filiere produttive continuano a distribuire la catena del valore in più aree.
Questa tendenza è forte anche nei paesi dell’Unione Europea ma non è omogenea e varia a secondo della collocazione dei vari paesi e delle varie risorse (industria, risorse naturali, servizi) nella ridefinizione della divisione del lavoro in Europa e nelle sue aree di influenza.
L’accelerazione del processo costitutivo dell’Unione Europea come polo imperialista, sta infatti producendo inevitabilmente effetti anche sulla composizione di classe dei lavoratori europei.
Se nei paesi Pigs appare evidente il drastico abbassamento dei salari, l’aumento della giornata lavorativa sociale e dello sfruttamento del lavoro, la disoccupazione crescente, secondo l’Istituto Bruegel (quello di Monti) nei paesi dell’Europa dell’Est assistiamo ad un tendenziale aumento degli standard sociali nei paesi già integrati rispetto al crollo dei primi anni Novanta (Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia, Ungheria e la Slovenia seppur arrivata dopo ) che li porteranno a ridosso dei paesi Pigs. Mentre nei paesi di nuova o prossima adesione (Romania, Bulgaria, Serbia), siamo in fase di peggioramento, tanto che in diversi di questi paesi si sta valutando la convenienza di aderire o meno all’Unione Europea. Anche in Germania, cioè nel cuore pulsante dove formalmente le condizioni dei lavoratori farebbero invidia a quelli degli altri paesi, il monte salari si è ridotto in relazione alla riduzione dell’orario di lavoro gestita però con la flessibilità totale da parte delle aziende. Dal 1995 in poi in Germania è stata perseguita una politica di blocco dei salari e blocco dell’inflazione. Non solo. Nel 27% delle imprese, quelle più piccole, la paga oraria è tra i 5 e gli 8 euro l’ora di salario, meno di quanto la Spd e Merkel hanno definito come il salario orario minimo: 8,50 euro.
I dati ufficiali ci dicono che le imprese manifatturiere tedesche hanno una media di 36 dipendenti, quelle britanniche 21, quelle francesi 14, quelle spagnole 12 e quelle italiane 9.
Se andiamo per settori vediamo che in quello meccanico una impresa tedesca ha in media 53 lavoratori e una italiana 14. Nella metallurgia si sale a 114 in Germania e a 38 in Italia. A confermare la divaricazione nella specializzazione produttiva, l’Italia rovescia il rapporto nel settore abbigliamento con 6,5 lavoratori per impresa, sopra la Francia con 5,2.
Investimenti, ricerca e orario di lavoro
Paese Spese in R&S su Pil Ore lavorate all’anno
Germania 2,53 1433
Danimarca 2,48 1573
Francia 2,04 1561
Gr. Bretagna 1,82 1670
Italia 1,18 1824
Dai dati emerge come la specializzazione produttiva e le spese in ricerca e sviluppo sono inversamente proporzionali alla lunghezza dell’orario di lavoro.
Questo ad esempio ha fatto si che fino a prima della crisi, la Germania e la Francia fossero quasi equivalenti nei prodotti ad alta tecnologia delle loro esportazioni (rispettivamente 23,4 e 24,8 nei beni intermedi; 32 e 32 nei beni di consumo, mentre sui beni capitali-strumentali la Francia balzava al 52,3 e la Germania si fermava al 39,7. Nessun raffronto è possibile con l’Italia che si ferma rispettivamente al 15,8 nei beni intermedi, al 14,8 nei beni di consumo e al 18,7 nei beni capitali-strumentali cioè per la produzione di mezzi di produzione.
Possiamo dire che nell’Unione Europea agisce una disuguaglianza nelle disuguaglianze sociali. Da un lato agisce un fortissimo processo di polarizzazione sociale/proletarizzazione di lavoratori e ceti medi nei paesi Pigs, un dato questo ormai verificabile e – in Grecia, Spagna e Portogallo – ancora più pesante che in Italia dove il livello di ricchezza privata fa si che in qualche misura c’è ancora un corpo sociale centrale che ha ancora riserve e risorse che gli impediscono di precipitare in basso: parliamo di ricchezza immobiliare, risparmio investito e redditi spurii che affiancano quelli legali.
I settori popolari e una parte delle classi medie sono state trascinate verso il basso (non solo materialmente ma anche come percezione di sé, come risulta da recenti inchieste), mentre la borghesia più ricca è schizzata verso l’alto trascinando con sé qualche milionario in più.
Dall’altra nei paesi del nucleo nord europeo (Germania, Olanda, paesi scandinavi etc.) l’esistenza di un surplus (rispettivamente i surplus più alti nel 2013 sono Germania, Olanda, Svezia) e di un sistema di welfare state, ha consentito di mantenere una struttura sociale più simile a quella tradizionale dei “due/terzi”, con un terzo della società (disoccupati, immigrati, fasce povere) in basso, un ampio ceto medio composto anche da lavoratori salariati, e una consistente borghesia.
Nel 2013 il saldo commerciale attivo tedesco con l’estero è stato complessivamente di 199 miliardi di euro, ma esso è stato generato per 155 miliardi da scambi con i Paesi extra-Ue e solo per per meno di un terzo (44 miliardi) dagli scambi all’interno dell’Unione Europea.
La Germania ha ridotto il suo tasso di disoccupazione introducendo la sottoccupazione (i famosi mini jobs). Ai 2.837mila disoccupati, si aggiungono 3.819mila sottoccupati. Entrambi presentano tassi quasi doppi nei lander della ex Germania Est rispetto a quelli della Germania ovest. Ma anche i bassi redditi derivati dai mini jobs, in presenza di un sistema di protezione sociale ancora solido (asili, scuole, sanità, etc.) permettono spesso di cumularli dentro il reddito familiare evitando l’infarto sociale ormai visibile – con maggiore o minore intensità – nei paesi Pigs dove dilaga invece la disoccupazione di massa e in alcuni casi una vera e propria pauperizzazione.
A dicembre del 2013 gli occupati in Germania che godono di sicurezza sociale sono 42 milioni e di questa trenta milioni versano i contributi sociali. Tutto questo in paese di 80 milioni di abitanti con circa 12 milioni di immigrati stranieri. Anche a occhio nudo è una situazione sociale non paragonabile a quella dei paesi Pigs
Gli strumenti di mantenimento della coesione sociale nel nucleo duro dell’Unione Europea, sono diversi.
Alla BMW di Leipzig, ad esempio, un terzo dei lavoratori sono direttamente assunti dalla BMW, un terzo sono contratti a tempo determinato, un terzo lavorano per oltre venti ditte di subcontractors. Quanto questa situazione impatti il doppio livello della contrattazione dei salari e della condizione di lavoro lo dimostra la difficoltà di tradurre in termini di piattaforme e di mobilitazioni unitarie le differenze che attraversano la composizione di classe. Ma se la quota di subcontractors venisse sostituita dalle imprese italiane, questo consentirebbe margini per negoziare il consenso interno dei lavoratori.
Quindi una nuova divisione internazionale del lavoro che integri il “lavoro debole” della filiera tedesca in Europa (e nei Pigs saccheggiati e a bassi salari sopratutto) può rivelarsi un fattore di stabilizzazione sociale interna in Germania.
Non solo. Secondo i dati elaborati dal ministero del Lavoro tedesco, a partire dal 2030 più di un terzo dei pensionati tedeschi dovranno cavarsela con 688 euro lordi al mese, una cifra costringerebbe i lavoratori pensionati “a chiedere il sussidio statale di povertà“. E, paradossalmente, questo non riguarderebbe solo i lavoratori che hanno svolto un part time o lavorato con discontinuità, ma anche lavoratori a tempo pieno che per 35 anni hanno percepito un salario lordo di 2.500 euro. La colpa è della riduzione della percentuale di calcolo della pensione rispetto allo stipendio, che nel 2030 sarà del 43% del salario netto, contro l’attuale 51%.
Secondo l’Ufficio statistico federale, più di un terzo degli occupati tedeschi a tempo pieno guadagna meno di 2.500 euro lordi al mese. Già oggi in Germania, dove dal 1998 è stato più volte riformato il sistema previdenziale, si va in pensione a 65 anni (per poi salire progressivamente a 67) e il costo del sistema previdenziale è pari al 10,5% del prodotto interno lordo, contro il 14,1% fatto registrare dall’Italia.
Nel sistema previdenziale tedesco esistono per questo anche un secondo e un terzo pilastro rispetto alla previdenza pubblica, rispettivamente i fondi aziendali e i fondi pensionistici volontari. I fondi aziendali sono molto diffusi e danno un contributo decisivo al totale della pensione dei lavoratori.
L’abbattimento della previdenza pubblica, sta costringendo i lavoratori a sottoscrivere una pensione aggiuntiva privata finanziata totalmente da loro stessi attraverso i fondi pensioni che fanno crescere la rendita investendo sui “mercati finanziari” e i titoli di stato di vari paesi.
Una struttura sociale di questo tipo e la cooptazione dei lavoratori nei risultati degli investimenti finanziari dei fondi pensione, non solo riduce al minimo i fattori di conflitto sociale ma crea anche consenso intorno alle scelte della borghesia dominante nella spoliazione dei paesi europei più deboli.
La concentrazione economica, industriale, tecnologica e finanziaria in Europa, sta ridisegnando completamente la divisione del lavoro tra i paesi aderenti all’Unione Europea e in modo particolare quelli aderenti all’Eurozona.
Nei paesi Pigs più deboli come Grecia e Portogallo abbiamo assistito ad una vera e propria spoliazione quasi di tipo coloniale, mentre in Spagna e in Italia dove c’era una struttura industriale e finanziaria più solida, il processo si sta dando attraverso una selezione e integrazione parziale delle imprese con possibilità competitive, una crescente deindustrializzazione e la “cannibalizzazione” dei gioielli produttivi. In Italia questo processo è molto più evidente.
Le produzioni di nicchia che nei decenni scorsi hanno reso noto competitivo il made in Italy, vengono acquisite da investitori stranieri, alcuni con vocazioni cannibalesche sui marchi, le loro quote di mercato o la qualità della subfornitura; altri – come gli sceicchi del Golfo o i fondi pensione statunitensi– con vocazioni più meramente speculative.
In pratica i paesi Pigs si stanno trasformando in un vasto esercito e mercato industriale di riserva in funzione dell’export tedesco e della sua competizione nel mercato globale. Le privatizzazioni realizzate o in cantiere renderanno questa situazione ancora più pesante perchè consegneranno ai gruppi capitalisti privati – soprattutto i monopoli e le multinazionali europee – anche le rimanenti industrie e i servizi pubblici (da Finmeccanica alle Poste alle municipalizzate).
Il futuro per l’Italia?
L’Italia è asimmetrica. Sola una parte del paese (Nord ed Emilia) è integrabile nel ciclo espansivo del modello produttivo europeo guidato dal mercantilismo tedesco. E qui ad esempio che sta avvenendo la rilocalizzazione di un settore ad alta intensità di lavoro come il calzaturiero, ovviamente per le esportazioni sui mercati esteri e non per il mercato interno.
Il Meridione mantiene e acutizza tutti gli elementi di criticità. Certo adesso che nel calcolo del Pil entrano anche attività extralegali come traffico di droga, contrabbando e prostituzione, può essere che qualche parametro possa dare risultati diversi.
Un paese frantumato tra una parte agganciata al modello mercantilista (esportazioni e attrazione di investimenti esteri); una parte sussidiata dall’economia extralegale “legalizzata” e una parte fondata sul dominio della sussidiarietà al contrario: il terziario sociale. Lo speciale del Corriere della Sera sull’Italia che ce la fa, parla esplicitamente di turismo e terziario sociale (legato al risparmio privato e dunque allo smantellamento delwelfare) come volani della specializzazione economica dell’Italia nel contesto europeo.
Allora, la rottura dove è possibile oggi? Sicuramente lì dove quantità e qualità delle contraddizioni e delle forze soggettive è maggiore, dunque nei Pigs che sono gli anelli deboli del polo imperialista europeo. Ma l’Italia ad esempio ha dimostrato di non essere un Pigs come negli altri, mentre la Francia ha dimostrato di non essere un paese centrale come gli altri se non per la dote militare e nucleare che può mettere sul piatto della bilancia. l’Italia e la Francia si percepiscono più come gli ultimi dei primi che come primi tra gli ultimi. Ma l’andamento della crisi potrebbe portare a bruschi risvegli, soprattutto in Italia.
Il problema dunque non è quello di una contrapposizione geopolitica tra i proletari dei Pigs e quelli del nucleo centrale dell’Unione Europea. Il problema è capire e lavorare affinchè la rottura si produca lì dove può prodursi e trascini con se tutti gli altri. Nessuno vuole tenere fuori i lavoratori o i disoccupati tedeschi, olandesi, danesi, ma neanche è possibile aspettarsi una rottura storica lì dove più difficilmente può avvenire. Insomma qualcuno aspetta la classe operaia tedesca dal novembre del 1917 e purtroppo all’appuntamento si sono presentati solo contadini cinesi nel ’49 e contadini cubani nel ’59.
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