I pesanti confronti che sono iniziati in Turchia in solidarietà con i combattenti a difesa di Kobane potrebbero diventare il germe di una nuova fase di insurrezione contro il regime autoritario del partito di governo AKP.
Il Serhildan è ovunque. (http://en.wikipedia.org/wiki/Serhildan) E’ iniziata in Turchia l’insurrezione dei kurdi che supportati dalla sinistra turca scendono in strada a migliaia, usando pietre, molotov e armi da fuoco per difendersi contro tutte le misure che lo stato turco mette in atto per reprimerli. E non è poco. Sterminati schieramenti di polizia, parecchi soldati, in alcune città è stato decretato lo stato d’emergenza e vige un coprifuoco. Si spara piombo, secondo molti comunicati i morti sono già da 12 a 15 (oggi 11.10.14 se ne contano più di 30, con oltre 1000 arresti e decine di desaparecidos, ndt).
Dalla rivolta di Gezi ad oggi sono stati registrati molti casi di aggressioni contro curdi e membri della sinistra da parte di squadre di fascisti “in borghese”. Ora questi attacchi sono aumentati di frequenza per mano delle bande dei “Lupi Grigi”, dei turchi islamisti Hizbullah (da non confondere con il gruppo sciita libanese Hezbollah), dai sostenitori del partito fascista MHP e del partito islamista HÜD-PAR e naturalmente del partito di governo AKP, che, armati di coltelli, bastoni e fucili, scendono in strada per picchiare, seviziare ed ammazzare, senza che glielo sia impedito dalla polizia. Al contrario ci sono video che mostrano chiaramente come gli sbirri agiscano a fianco dei simpatizzanti “in borghese” di IS e dei fascisti.
Militanza e sciopero generale
Un bilancio provvisorio potrebbe essere il seguente: sono avvenute proteste di massa in molte città, da Istanbul a Mardin, da Van fino a Diyarbakir, a parte delle quali hanno preso parte decine di migliaia di persone. Edifici dell’AKP e del MHP sono stati presi di mira e la difesa contro il terrore della polizia, che ha raggiunto un livello altissimo di escalation, è stata effettuata talvolta con armi da fuoco. Da registrare il fatto che tutti i gruppi militanti di sinistra –sia curdi che turchi – hanno partecipato all’insurrezione. A Gezi lottarono insieme DHKC, MLKP, YDG-H, MKP, TKEP-L e TiKKO, un confortante passo avanti dopo una serie di conflitti interni alla sinistra. La lotta armata si dimostra proprio oggi di vitale importanza. Contro i simpatizzanti di IS armati di lame e armi da fuoco, non può nulla lo “sciopero bianco” (Sitzstreik, da sitz, seduto, e streik, sciopero, ndt).
Nel contempo è da segnalare la nutrita partecipazione alle proteste, ad Istanbul, di studenti universitari, studenti medi, attivisti LBGT, eccetera. Il movimento potrebbe alzarsi di livello già da domani, poiché i sindacati KESK hanno indetto uno sciopero generale di due giorni –uno sciopero politico a priori. Questa circostanza ci mostra prontamente come ci si possa riallacciare adesso ad ogni moto di ribellione sorto da Gezi in avanti, moti soffocati con la repressione da Erdogan ma mai spenti nelle teste e nei cuori della gente.
Tuttavia c’è già una riserva: alla rivolta di Gezi si unirono anche quelle parti della società che non erano soddisfatte del governo dell’AKP, le cui non prendono però parte (se non assai raramente) agli avvenimenti odierni. Le frange Kemaliste e nazionaliste del movimento non propendono affatto a contribuire ad un’insurrezione mossa innanzitutto dagli interessi dei curdi. E’ dunque importante adesso ricontestualizzare i diritti dei curdi, le infami politiche siriane di Erdogan e gli argomenti scottanti di Gezi. Lo sciopero generale potrebbe costituire un inizio. Poiché solo se la pressione aumenta anche oltre le aree cosiddette “genuine” kurde, potrà avverarsi quello che gli amici kurdi scrivono sin dagli albori della battaglia, cioè: “Prima di Kobane, crolla Istanbul”.
La caduta dell’IS
In Turchia (così come qua in Europa, ma ci arriviamo più avanti) è ora fondamentale non cadere nel tranello dello Stato Islamico. Le milizie di IS e i suoi capi religiosi hanno sempre cercato, sin dal principio della loro esistenza, di non rappresentarsi come una qualsiasi organizzazione rispondente a interessi particolari, bensì di vendersi come istanza vincolante per ogni credente sunnita –ciò è provato dalla scelta del simbolo e della bandiera.
L’IS in fondo dice –proprio come Erdogan in Turchia, d’altronde: se sei musulmano credente, allora noi siamo la tua avanguardia. Chiunque non riconosca l’egemonia di IS viene considerato automaticamente kufr, infedele. Questo nesso va smentito sistematicamente, poiché se dovesse affermarsi –ed è già in parte constatabile come si vada imponendo – sarebbe molto arduo poi destituirlo. Nonostante non ci siano cifre concrete, si stima con sicurezza che circa tre quarti (se non di più) della popolazione turca è musulmana sunnita. Ci si può immaginare cosa succederebbe se gli venisse data l’impressione che contro di loro venga condotta una “guerra delle culture” –cosa che peraltro già accade.
Per non cadere in questo tranello dell’IS, strategico e ben posizionato, il conflitto va scarnificato, ridimensionato, ridotto a ciò che in sostanza rappresenta la causa primaria dell’intera faccenda –al di là della maschera etnico-religiosa convenientemente affibbiatagli. La domande è dunque in quale società si vuol vivere –e quindi indipendente dall’essere kurdi, turchi, aleviti, sunniti, sciiti o che altro.
L’arma più potente
L’arma più potente che abbiamo a disposizione contro l’IS sarà appunto un’arma che non può essere acquistata né da Heckler&Koch né dai mercanti di morte Frank-Walter Steinmeier, ovvero: un’idea politica. Questo non vuol dire che tale idea non necessiti della violenza materiale per divenire efficace. Significa invece che senza d’essa non si può vincere a lungo termine. Il movimento curdo ha un’idea di questo tipo, di una convivenza consiliare-democratica (rätedemokratischen da rat, consiglio, demokratisch, democratico, ndt) senza discriminazioni di genere e che oltrepassi la violenza etnicamente o religiosamente motivata. E la sinistra turca ce l’ha altrettanto questa idea, nei suoi quartieri e nelle sue fabbriche, come a Kazova (http://roarmag.org/2014/05/kazova-istanbul-gezi-occupy/), dove si produce senza padroni. I primi la chiamano “Confederalismo Democratico”, gli altri nuovamente Socialismo o Comunismo, alcuni addirittura Anarchismo.
E anche gli avversari hanno in questa battaglia le loro idee politiche, anche se esse si nascondono dietro ogni sorta di teologismo. L’AKP ha l’idea di una società islamica autoritaria sostenuta e rifornita da una produzione neoliberista capitalista sfrenata e da uno sciovinismo da grande potenza. E lo Stato Islamico vuole un califfato basato su di un’economia di esportazione del petrolio e del gas e al suo interno ambisce a stabilire una sorta di feudalesimo modernizzato. Non è difficile accorgersi che siamo “noi” ad avere a disposizione le armi più potenti. La questione è, sapremo imparare ad usarle nel modo corretto?
L’insurrezione che viene (parte seconda)
Da giorni la Turchia è in fiamme, sono morte già più di venti persone (ad oggi ben più di quaranta, ndt) negli scontri tra kurdi e sinistra da una parte e repressione di stato, fascisti e sostenitori dell’IS dall’altra. Sui problemi e le difficoltà che l’insurrezione deve combattere.
Nella prima parte di questo testo si è fatto riferimento all’intensificarsi della solidarietà con Kobane che è sfociata in Turchia in una sollevazione vera e propria e che in un’ipotetica prossima fase potrebbe portare ad una mutazione sostanziale della situazione turca. Nella seconda parte del testo si nominano alcune delle difficoltà con cui dobbiamo/dovremo fare i conti.
Le premesse sulle quali è sorta l’odierna insurrezione non sono le più inclini a prevedere un successo. Prendiamo ad esempio le elezioni comunali del marzo 2014 e lo si capisce facilmente: in complesso il supporto per i partiti che lottano attivamente contro gli interessi progressisti raggiunge e supera il 50% dell’elettorato turco. Addirittura, se contiamo soltanto le preferenze per il partito fascista MHP e quelle per il partito islamista neoliberale (al governo, ndt) AKP (assieme alle sue sette e partiti minori alleati) si arriva a più del 60%. Mentre i due partiti maggiori della sinistra kurda HDP e BDP arrivano insieme al 6% (nelle successive elezioni presidenziali hanno raggiungo a sorpresa quasi il 10%). Parte della sinistra radicale non prende parte alle elezioni e dunque non possono essere inclusi nelle statistiche, ok, ma è una percentuale irrilevante.
In breve: non c’è nessuna maggioranza in Turchia, al momento, su cui un’insurrezione può contare. Ci sono roccaforti del movimento kurdo (chiaramente nei territori censiti del Nord Kurdistan) accanto ad alcuni quartieri nelle grosse città in cui la sinistra rivoluzionaria gioca in casa. Tutto ciò non può tuttavia bastare per indurre un cambio di potere. La domanda che ci si deve conseguentemente porre è: a cosa si può aspirare durante la prima fase dell’insurrezione, quali sono i fini da perseguire tenendo conto di una strategia longeva orientata verso il cambiamento (rivoluzionario, ndt) delle relazioni di potere, e su quali temi e su quali alleanze si deve puntare per mandare Erdogan insieme ad Al-Bagdadi (capo di IS, ndt) là, dove nessuna vergine li aspetta. (riferimento alle aspettative paradisiache dei combattenti di IS ai quali viene detto che se cadono in battaglia verranno accolti per l’eternità nell’aldilà musulmano da cinquanta giovani vergini, ndt)
Abbreviazioni etniche del conflitto
Un anno fa sedevo con Metin Yegin, giornalista e acuto osservatore del movimento curdo. Parlavamo di Gezi e della questione kurda, e ad una certa mi fece notare: “I kurdi in Europa non sono ancora in grado di vendere con successo l’idea grandiosa che hanno e che possono mettere in pratica a Rojava. Con il loro progetto di democrazia consiliare ecologica e libera dai paradigmi dei generi ne avrebbero di cose da raccontare. Ma alla fine parlano sempre solo del fatto che sono kurdi e che per questo motivo vengono discriminati. Il che non è falso, ma è appunto la parte più noiosa della storia. Quella interessante è il loro progetto politico”.
In questo c’è molta verità. E’ sicuramente vero che i kurdi sono discriminati, in quanto kurdi, in Turchia, in Siria, in Iran. Le circostanze attuali esigono però innanzitutto una cosa: evitare ad ogni costo di lasciarsi imporre un’etnicizzazione del conflitto. Il ciò viene da lungo tempo tradotto in pratica dai kurdi: a Rojava non se ne frega nessuno che tu sia kurdo, siriano, irakeno, bulgaro o chi più ne ha più ne metta. Non hanno motivo di esistere nemmeno le linee di separazione religiosa. Rojava era, prima dell’attacco dell’IS, un porto franco per tutti, indipendentemente da provenienza e credo.
Lo Stato Islamico punta a fare in modo che il conflitto prenda la forma di uno scontro tra musulmani sunniti e „infedeli“. La destra turca che oggi scende in strada (a picchiare e ammazzare, ndt) la mette giù nella versione di uno scontro tra turchi e kurdi. Alla resistenza tocca disinnescare l’etnicizzazione e la teologizzazione del conflitto. Deve riuscire a riportare al centro della discussione l’idea politica che promuove il movimento curdo –e che condivide almeno in molti dei suoi aspetti con la sinistra turca.
Uno dei tanti elementi di questa idea è il concetto di fondo di secolarismo, vale a dire che una società non si deve attenere alle prescrizioni dogmatiche di una religione, essendo chiesa e stato rigorosamente separati. Al momento ha senso riportare proprio questo tema in Turchia al centro del discorso.
Poiché così facendo oltre alla sinistra radicale e al movimento curdo si potrebbe chiamare in causa, oltre alla sinistra radicale e al movimento curdo, quella fascia della popolazione che, se da un lato ha grossi pregiudizi contro i kurdi a causa della sua ideologia kemalista e nazionalista, è dall’altro comunque più propensa verso la sinistra e i kurdi in quanto favorevole ad una Turchia democratica e secolare piuttosto che ad essere succube del corso islamizzante dell’AKP e delle sue sette complici islamiste e jihadiste. Naturalmente questa strategia di alleanze ha i suoi limiti: non si può millantarne la vicinanza e neppure averne a che fare pubblicamente, con le vecchie elités scioviniste e nazionaliste, con quei militari e con quella loro rispettiva borghesia che sono stati spodestati da Erdogan. L’elettore tipo del CHP (partito kemalista, ndt) ha così tuttavia una chance di liberarsi da alcuni dei suoi risentimenti.
In breve: i kurdi devono preoccuparsi di rendere chiaro che la lotte che loro portano avanti ora riguardano tutte le persone della regione, non solo i kurdi (o la sinistra). Chiunque non voglia vivere in un califfato o in quella sua variante softcore neoliberista promossa da Erdogan ha il dovere di supportarli. Questo andrebbe afferrato prima di tutto dal più grande partito di opposizione CHP, la cui posizione ancora ad oggi rimane ambigua e i cui rappresentanti si dichiarano in ogni caso, sebbene anche contro a Erdogan, avversi al movimento curdo.
Gli stati non sono (mai, ndt) „amici“
Una seconda fondamentale (ricorrente, ndt) incomprensione con cui è ora di farla finita riguarda il ruolo degli stati capitalisti. La falsa credenza (eresia, ndt) che gli stati siano istanze a cui ci si possa appellare per essere aiutati è tanto remota quanto pericolosa. Uno stato imperialista come la BRD (Bundesrepublik Deutschland o Germania, ndt) o come gli USA non agisce mica secondo l’amore per il prossimo, l’umanitarismo o la pietà. Gli stati agiscono sempre e comunque per interessi.
Può essere poi che questi interessi si sovrappongano parzialmente si nostri. Immaginiamoci per pura ipotesi che il governo tedesco inviasse a Kobane armi per i combattenti dello YPG, sia che ambisca ad ottenere un influsso geopoliticamente strategico nella Siria del Nord o che prenda di mira i pozzi di petrolio: sarebbe ovviamente irresponsabile e poco lungimirante da parte dello YPG non accettare tali armi. Lenin si servì di un treno tedesco per tornare in Russia nel momento in cui iniziò la rivoluzione. Ebbene, utilizzò –per i propri fini, i fini della rivoluzione – le contraddizioni createsi tra la Germania, che voleva fare un torto alla Russia, e il regno zarista. Altrettanto potrebbe fare lo YPG accettando eventuali armi tedesche, per misurarsi in seguito con la circostanza di relative concessioni possibili fatte in cambio allo stato tedesco (il che sarebbe in ogni caso un male).
E‘ dunque lecito approfittare, nell’ambito di una strategia rivoluzionaria, delle cose che fanno gli stati nell’ottica di imporre i loro interessi. Bisogna però guardarsi dal considerarli “alleati” o “amici”, non sono nulla di tutto ciò. Nel caso degli USA è fin troppo evidente. Nella storia Washington si è servita di svariati alleati nel suo tentativo di perseguire i propri interessi nella regione, alleati che fanno rima con fantasmi etnici, politici e religiosi. Il tutto non ha mai contribuito al prosperare o al progredire delle società sottoposte a questo amichevole trattamento.
In breve: gli stati capitalisti fanno quello che fanno a seconda dei loro propri interessi e di quelli della loro fazione. Ciò può essere talvolta sfruttato, ma in ultima analisi gli stati rimangono da considerarsi merda e saremo obbligati prima o poi a distruggerli comunque.
Unità dal „basso“
„Non ci salva nessun essere superiore, nessun dio, nessun imperatore né tribuno / riscattarci dalla miseria, possiamo farlo solo da noi”, così recita la tanto cara canzone del movimento dei lavoratori. (https://www.youtube.com/watch?v=h55L7M4v64Y “l’Internazionale” in tedesco, ndt) La frase è più che mai attuale e in fondo intende dire la stessa cosa Abdullah Ocalan quando dice che “il movimento di liberazione kurdo ha sempre concepito la sua lotta, ormai da più di vent’anni, come difesa della fratellanza tra turchi e kurdi così come tra tutti i popoli del medio oriente. Costantemente ha perseguito l’obiettivo di un unità democratica. E per far ciò ci appoggiamo sulle nostre sole forze e sulla nostra libera volontà. Ci siamo sempre accortamente adoperati a preservare la nostra sovranità”.
Quello che qui Ocalan propone è un „unione democratica“ che dal “basso” attraversi, con un progetto politico, divisioni religiose ed etniche. Nel caso in cui in Turchia, in Iraq, in Iran o in Siria si stabilissero sistemi politici che non siano né califfati né failed states né regimi marionetta controllati dall’Occidente, questa “unione democratica” dovrà fare i conti col fatto che esiste nella regione un’abbondante maggioranza sunnita e che ciò non si appresta a cambiare nell’arco delle prossime decadi.
Accanto al tentativo di accattivarsi quel pezzo di popolazione che si batte per una convivenza secolare, devono essere rinforzate le iniziative che mettono al centro, all’interno del sistema di coordinate dell’islam, un’interpretazione sensata e quanto più ragionevole del proprio credo. Il PKK prova a farlo nelle sue roccaforti da molto tempo, ed ancora più coinvolgente è l’iniziativa dei “musulmani anticapitalisti” che da Gezi in poi sono riusciti a far parlare abbastanza di loro.
Nel loro manifesto (reperibile in tedesco e in turco) premettono che ogni profeta possa venir inteso in una posizione di resistenza contro il sistema dominante del suo tempo. Perciò si vuole collaborare tutti, dal lato degli “oppressi e degli sfruttati”, con “attitudini anticapitaliste, senza tenere in considerazione la fede, né la provenienza, la lingua o l’ideologia.”
La propria forza
La narrativa dell’IS è soltanto in parte teologica, in pratica è assai politica. Se frughiamo tra i profili Twitter e Facebook della propagande jihadista, scopriamo subito in che modo si conquista i suoi sostenitori; mettendo al centro le sofferte umiliazioni delle popolazioni sunnite di Iraq e Siria. Non v’è profilo di jihadisti che non fornisca foto di Guantánamo o Abu Ghraib, o degli abusi dei soldati USA o delle milizie a loro connesse in Iraq. I crimini di guerra e la guerra d’invasione dell’Iraq che gli Stati Uniti hanno iniziato nel 2003 e che costituiscono la premessa alla situazione odierna non vanno ridimensionati.
Lo Stato Islamico è a tale riguardo molto grato per ogni intervento USA a supporto dei suoi oppositori. “E’ tutto ciò che sapete fare?” ha chiesto il portavoce di IS Abu Muhammad al-Adani dopo l’inizio dei bombardamenti della coalizione USA. “Non siete in grado voi o i vostri alleati di intervenire via terra?” gli jihadisti si sforzano di rappresentarsi come il movimento di dio (Allah) perseguitato e bersagliato da tutti i poteri “diabolici”: “USA, Francia, Gran Bretagna, i Curdi, la Turchia, Assad – sono tutti contro di noi, e falliscono tutti”, scrive uno.
Il mito che quelli dell’IS vogliono creare e che hanno finora creato con successo sta a significare: noi siamo gli unici protettori di voi sunniti, potete fidarvi solo di noi. Questo mito rende loro possibile da un lato alleanze con le milizie legate alle varie stirpi locali e persino –come a Mosul –con ex gruppi Baathisti, mentre dall’altro si procura un appoggio consolidato della popolazione (a stragrande maggioranza sunnita, ndt).
Qui sorge il problema: questo mito prende piede non appena si decide in Occidente di intervenire, con una coalizione che comprende più o meno tutti, su ciò che viene rifiutato dalla popolazione sunnita. Il generale britannico Jonathan Shaw ha detto bene: “Che possibile vantaggio ne risulta per ISIS, se prendiamo parte tutti alla campagna? Risposta: possono riunire il mondo musulmano contro al mondo cristiano. Abbiamo giocato il loro gioco. Abbiamo fatto quello che si aspettavano da noi.”
A prescindere dalla sua mitezza e inefficacia nel sostenere la resistenza a Kobane (si è bombardato non quello che poteva essere utile allo YPG bensì si sono bombardati obiettivi che possano tornare utili all’Occidente) l’intervento ha i suoi effetti secondari, che fanno comodo proprio al mito dell’IS. Questi effetti collaterali vanno tenuti d’occhio e possibilmente elusi e tutti quelli che vedrebbero bene i kurdi come “alleati” degli Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna o Germania (una posizione che è quasi irrilevante tra i Kurdi stessi, ma si fa largo tra i loro sostenitori) non dovrebbero perderli di vista.
Per non essere capito male: si dovrebbero dunque rifiutare attacchi aerei (se mai tali ce ne saranno) che possano difendere la resistenza di Kobane? No. Dovrebbero venir respinte armi nel caso ne fossero consegnate (cosa che non è ancora avvenuta e non sembra essere alquanto plausibile)? Certo che no. Ma c’è da capire che solo una strategia che si eriga in primo luogo sulle proprie forze, cioè su quelle di tutti i popoli del medio oriente –per citare ancora Ocalan, potrà avere esiti fertili nella regione. E una tale strategia si deve rivoltare alla fin fine comunque contro l’imperialismo occidentale, anche quando si hanno convergenze d’interessi puntuali nonché temporanee.
trad. di Trevis Annoni
orig. di Peter Schaber http://lowerclassmag.com/2014/10/der-kommende-aufstand
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa