Ieri sera, vicino al fuoco, una profuga di Kobane, dopo aver scherzato sugli strani giochi della sorte che hanno fatto si che il minareto del suo quartiere crollasse sulla casa dell’unica famiglia cristiana, mi ha detto: “da quando sono uscita, sono stata a Suruc e a Urfa, e poi però sono tornata qui, che sono più vicina a Kobane, mi sembra di respirarne l’aria, qui quasi mi sento a casa. Quando Kobane sarà libera vieni che ci entriamo assieme? Ti ospito a casa mia! Però prima devi imparare il curdo, così quando entri parli con tutti.”
Una volta qui è arrivata una cattiva notizia. Una madre piangeva ed era vicina allo svenimento dal dolore. Una volta sola però: qui, quello che vedo, è una ferma volontà: noi vogliamo vincere. Noi vogliamo liberare Kobane. Per poter liberare Kobane, dobbiamo essere sicuri che ce la faremo. Dobbiamo portare ottimismo. Quindi solo buone notizie, per favore: per le cattive notizie ci sarà sempre tempo. Il morale è alto, il sorriso è sempre pronto. Però gli occhi girano ancora verso la città di Kobane, ad ogni bomba, ad ogni sparo. Ad osservare il fumo che sale, a non sapere chi possa essere rimasto sotto le macerie, a sperare per il ritorno alle proprie case, o a quello che ne rimane.
E, nonostante questo, Kobane resiste.
Mi è stato mostrato l’originale di un video, direttamente dalla telecamera, di alcuni soldati turchi che chiacchierano con combattenti dell’ISIS. (chi me lo ha mostrato lo aveva dato alla televisione locale che lo ha trasmesso la sera stessa, è finito anche sul giornale tedesco). Gli stessi soldati turchi che tengono il confine chiuso per i e le combattendi del YPG – YPJ. Gli stessi soldati turchi che sparano ai curdi quando (per le loro vie) tornano da Kobane, come mi raccontava Ali. I soldati della Turchia alleata con l’occidente. Kobane è chiusa da 3 lati dall’ISIS, e dal quarto dai turchi, e i curdi qui si sentono abbandonati dal mondo: anche per questo è importante la solidarietà internazionale e la scadenza del 1 novembre.
Sembra che invece un certo cambiamento reale sul campo sarà dovuto alle armi portate dai Peshmega. Su una cosa sono tutti d’accordo, che saranno armi utili, e che il fatto che arrivino è un buon aiuto alla Resistenza: sia perché sono le armi giuste, che perché contribuisce ad alzare il morale e trovare motivazione a continuare. Dopodichè, chiaramente a livello politico questo gesto viene letto in diverse maniere: c’è chi punta l’attenzione sull’importanza dell’unità del popolo curdo, e quindi sull’importanza che ha questo gesto di collaborazione, e c’è chi afferma che Barzani (il leader del movimento a cui fanno riferimento i Peshmerga) accetti supinamente quello che gli Stati Uniti gli dicono di fare: per questo inizialmente non ha combattuto contro l’ISIS quando è entrato nel Kurdistan iraqeno; per questo, ora che ha accettato di portare le armi in aiuto delle YPJ-YPG è perché gli Stati Uniti hanno deciso di porre fine a questa loro ennesima creazione (l’ISIS viene paragonato ad Al Quaeda e Saddam Hussein) e Barzani può sfruttare questo come propaganda.
Ieri è arrivata un’altra ondata di profughi da Kobane: 150 l’altroieri sera e poi altri il giorno dopo. Ora i turchi li lasciano passare ma non lasciano che si portino dietro le automobili, e alcuni rimangono fermi al confine in attesa. Sono stati portati nei campi, dove sono state allestite le tende e dove troveranno qualche cosa da mangiare: i volontari che si occupano di questo sono per la maggior parte giovanissimi. Intanto, Kobane resiste. Dentro, c’è qualche migliaio di civili (qualcuno dice 2000, qualcuno 5000), chiusi in casa nelle zone sotto controllo curdo, senza acqua, elettricità e con cibo scarso; e qualche migliaio in più di combattenti (qualcuno dice 8000, qualcuno 4000), uomini e donne. E questo particolare che ci siano anche le donne, lungi dall’approccio occidentale per cui i loro volti diventano “fashon”, è per loro davvero importante: è un’affermazione della libertà femminile non solo nei confronti dell’ISIS che vende le donne e le tratta come schiave, ma anche nei confronti del nostro occidente, dove spesso la donna viene oggettificata e valutata per il suo corpo, più che per le sue azioni. L’orgoglio negli occhi di queste donne, la loro fierezza e ostentato buonumore, sono cose che insegnano davvero molto al nostro mondo composto spesso da bambini viziati in la con gli anni. L’altro giorno, ad esempio, ci sono state diverse esplosioni causate dall’ISIS. La sera, abbiamo gridato slogan più forte del solito, perché stando a pochi km da Kobane sapevamo che di la i combattenti curdi ci sentivano, e speravamo di dar loro un po’ di supporto. Dopo, abbiamo ricevuto una telefonata da una combattente che si trovava li: diceva che l’autobomba che avevamo sentito non aveva fatto nessuna vittima e che le case bombardate erano vuote. Che sarebbe cambiato tutto, che la resistenza curda avrebbe vinto. Solo buone notizie. Perché fino a che Kobane non sarà libera, non possiamo perdere la forza e la certezza di farcela. Ieri ci sono stati 5 funerali, più o meno nella media, ma qui, per questo, non ne parlerò. Prima che cada Kobane, cadrà Istanbul.
Qui siamo davvero pochi stranieri, a parte i giornalisti. Ci sono diversi turchi qui in solidarietà, ma da fuori la Turchia siamo pochissimi. I curdi sono incredibilmente ospitali, non si viene mai lasciati soli, anche se non si parla nessuna lingua in comune. Un ragazzo turco ieri mi ha detto che per lui la libertà e essere qui, ora, a cantare ed ascoltare canzoni tradizionali curde di fronte a un fuoco a fare il possibile per supportare una resistenza incredibilmente tenace. Per cui non mi resta che invitarvi alla liberazione di Kobane – che avverrà certamente – perché sono certa che ne varrà la pena.
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