L’uomo che portava la responsabilità di un disastro apocalittico, la più grande catastrofe industriale del mondo che provocò la morte di migliaia di indiani, è morto.
Si dice che sulla scrivania di Warren Anderson ci fosse un fermacarte col proverbio cinese “Un leader è migliore quando la gente sa a malapena che esiste”. Dopo la tragedia di Bhopal che nel dicembre 1984 ha ucciso tra 3.787 (conteggio ufficiale) e 15000 indiani (non ufficiale e ancora in corso), Anderson ha fatto tutto il possibile per far dimenticare la sua esistenza, scomparendo dalla scena pubblica e vivendo nascosto per quasi 30 anni, per sottrarsi ai deboli tentativi di Nuova Deli di portarlo in giudizio,
Tale era la sua ricerca di anonimato che anche se è morto quasi un mese fa (il 29 settembre), la notizia è emersa solo dopo che il New York Times ha notato il suo necrologio in un piccolo giornale del Connecticut. La famiglia non ha annunciato la morte, che ha dovuto essere confermata attraverso i registri pubblici. Il giornale ha detto che Anderson, che aveva 92 anni, e sua moglie Lillian, che gli sopravvive, hanno vissuto una vita tranquilla e senza pretese in una piccola comunità privata, curando il loro giardino e facendo lunghe passeggiate negli anni immediatamente dopo il disastro.
Ogni anno in dicembre si ritiravano in un piccolo appartamento su un’isola, quando i media cercavano di beccare Anderson – che si è ritirato nel 1986 – nell’anniversario del disastro. La coppia aveva anche una casa antica a Bridgehampton, New York, dove i giornalisti che vi avevano messo piede sono stati cacciati fuori. Negli ultimi anni, Lillian ha affermato che la memoria di suo marito si stava spegnendo e non riusciva a parlare.
Anderson diede solo un’intervista al New York Times nei mesi successivi al disastro, quando fuggi dall’India dopo un breve arresto (alcune fonti sostengono la complicità del governo dell’epoca nel permettergli di uscire su cauzione e lasciare l’India). Al suo ritorno negli USA disse che avrebbe evitato di portare sua moglie a mangiare fuori, perché “se lo avessero visto mentre per qualche motivo rideva lo avrebbero trovato sconveniente”.
“Deve essere come quando qualcuno perde un figlio o una figlia,” ha detto. “Ti svegli la mattina e pensi, come è possibile ? E poi capisci che è successo, e che è qualcosa con cui dovrai combattere per molto tempo.
Nessuno lo ha visto lottare, almeno pubblicamente. Il sentimento generale sui social media alla notizia della sua morte è che dovrebbe marcire all’inferno dopo essere stato giudicato dal creatore.
Circa il 75% dell’India di oggi non era ancora quando, in una nebbiosa mattina di dicembre, è successa la tragedia di Bhopal, una cittadina conosciuta ai tempi per i suoi laghi incantevoli. Era anche sede di una fabbrica di pesticidi della Union Carbide che, all’insaputa di molti, aveva in stoccaggio molte sostanze tossiche prive di controllo.
La notte fra il 2 e il 3 dicembre un gas velenoso, l’ isocianato di metile, è uscito dall’impianto e si è sparso per tutta la città, soprattutto nelle baraccopoli, uccidendo all’istante centinaia di persone. Migliaia ne sarebbero morti alla fine, e più di 500.000, nel corso dei tre decenni successivi, avrebbero sofferto per problemi di salute conseguenti alla fuga del gas, tra cui cancro ai polmoni e ai reni e insufficienza epatica.
Anderson si recò a Bhopal quattro giorni dopo il disastro e fu immediatamente arrestato. Ma pagò la cauzione in circostanze controverse, tra cui la collusione e il mancato controllo da parte del governo statale e centrale, e volò fuori dell’India, per non tornare mai più.
Nel 1989 la Union Carbide pagè 470 milioni dollari al governo indiano per la definizione del contenzioso derivante dal disastro, ma la transazione fu vista come una svendita. Ricominciarono gli sforzi per l’estradizione di Anderson, ma le successive amministrazioni nordamericane non hanno mostrato alcun interesse a portare lui o la Union Carbide davanti alla giustizia.
* da Times of India – traduzione di Alessandra Cecchi
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Un reportage di Tommaso Sbriccoli, apparso un anno fa su http://illavorodebilita.wordpress.com/ (una prima versione di questa corrispondenza è apparsa su Giap nel corso del dibattito sul libro di Alberto Prunetti “Amianto. Una storia operaia“)
CORRISPONDENZA DA BHOPAL
Scrivo queste pagine dopo aver passato una giornata a Bhopal a parlare con le “vittime” (parola che non mi piace, sinceramente, ma che uso per ora in mancanza di altre più precise) della Union Carbide. Sono antropologo, vivo in India da quasi un anno, in un piccolo villaggio del Madhya Pradesh. Ho preso qualche giorno di “ferie” con la mia compagna, fotografa, per venire a Bhopal a cercare, credo, parole, più di ogni altra cosa, e la loro matericità, la necessità di vederle incarnate nei corpi di chi racconta, per “dar corpo” a una narrazione, per intravedere qualcosa oltre il velo di ciò che già si sa.
Queste righe devono molto al libro di Alberto Prunetti, “Amianto”, che ho letto da poco e che è rimasto sullo sfondo della mia coscienza per tutta la giornata trascorsa a Bhopal.
È un tentativo, qualcuno dirà maldestro, di spostare un momento lo sguardo per rimettere a fuoco un oggetto sul quale abbiamo fissato la nostra attenzione troppo a lungo. Sono appunti sconclusionati, impressioni buttate giù di getto, rabbia sotto forma di pelle d’oca che si riversa grezza in parole per non trasformarsi in impotenza.
A Bhopal la morte è l’orizzonte. Mi si dirà: lo è per tutti, ovunque. Qui però, dove l’unico punto in cui lo sguardo può correre libero è sui trecento metri di parco attorno alle macerie della Union Carbide, l’orizzonte è la casa alla fine del proprio vicolo.
E quei trecento metri non si possono neanche percorrere liberamente, perché la polizia li controlla con attenzione certosina, dal momento che la gente che circonda il perimetro della fabbrica, quella più colpita dal MIC, il gas fatale, ci torna a rubare pezzi di ferro coperti, guarda caso, d’amianto. Abbiamo sperimentato l’efficienza della polizia di persona. “Arrestati” per una buona mezz’ora per aver provato a raggiungere lo scheletro della UC, 350 rupie, 2 sigarette e il numero di telefono di un ministro dello stato ci hanno aperto i cancelli della “cella”, e della fabbrica. Vivendo in India si imparano i trucchi del mestiere, non poi tanto diversi da quelli del nostro paese…
Poi vieni a scoprire, per aggiungere danno a beffa (e danno a danno), che gli unici accessi permessi all’interno del perimetro della UC sono quello al vecchio campo di cricket della fabbrica – uno dei pochi a disposizione dei ragazzi in questa parte della città – e quello a chi possiede qualche capra e viene qui a pascolarla. Qui, dove capre e bambini mangiano e giocano, sono stati, solo una manciata di anni fa, riscontrati i più alti livelli di tossicità del suolo e dell’acqua di tutta la zona: qui la terra è ancora velenosa, come quello che ci cresce sopra.
Quindi, la morte è l’orizzonte, ed anche il sentiero.
La morte è orizzonte e sentiero perché qui non si combatte per non morire, ma si combatte mentre si muore. Sono passati 28 anni dall’incidente, ma la prima sensazione che mi ha attraversato i polsi stamattina è che la tragedia è avvenuta ieri. Non c’è soluzione di continuità tra l’evento scatenante e il suo “futuro”. Non ci sono genealogie da ricostruire con fatica, archivi da spolverare e su cui rompersi la schiena per tirare fuori un senso. Qui il legame tra capitale, nocività e precarizzazione dell’esistenza è così palese che non serve ragionarci troppo. L’assassino lo si conosce bene fin dalla prima pagina, e non perché uno scrittore si è fatto il culo per anni e, con mestiere, può presentarcelo al primo paragrafo. Il colpevole ti fissa dritto negli occhi, impunito, con strafottenza, e tu non puoi non guardarlo, col sangue che ti sale alla testa. Quindi, l’unica cosa che si può fare è ascoltare le voci che si alzano, dapprima come sussurri, da dietro le sue spalle. E allora ecco che dal fiato delle voci si solidificano poco alla volta, come gocce che ghiacciano all’abbassarsi della temperatura, dei corpi. I corpi di chi ha respirato il MIC, di chi ha bevuto l’acqua contaminata della zona, di chi è nato da questi stessi corpi. I corpi parlano, e raccontano. E dicono che hanno mal di testa, e vomito, e che per fare 500 metri devono fermarsi tre volte, e hanno fibrosi polmonari, disturbi neurologici e tumori, che hanno i reni rovinati, o sette dita dei piedi e deformazioni di ogni genere, le gambe doloranti, gli occhi che bruciano e che non vedono più, che gli hanno tolto vene, che perdono i capelli, che hanno acidità continua e gli si gonfia il ventre. Tu ascolti questi corpi parlanti, pieni di cicatrici, e non capisci davvero cosa hai davanti, in quale mondo sei finito. Un mondo in cui la malattia è la cifra stessa dell’esistenza, la condizione di normalità. Quando poi parlano dell’incidente e di quello che è avvenuto dopo, le storie sono, come molte narrazioni di persone che hanno avuto un trauma (o attraversato grandi eventi collettivi), racconti del proprio racconto, di quella struttura narrativa che negli anni, a forza di provare a raccontare ciò che è impossibile dire davvero a parole, si è cristallizzata in una forma precisa, fatta non solo di parole, ma di pause, gesti, sguardi. Eppure, sotto o oltre questa struttura “stereotipica”, questi corpi essi stessi campi di battaglia, c’è qualcos’altro, come una forza strana che spinge queste storie di sofferenza e ingiustizia verso il futuro: un futuro allo stesso tempo di redenzione e di dannazione. Ecco il paradosso, qualcosa che, senza capirlo subito, ho trovato anche nel libro di Alberto Prunetti. Qui, se vogliamo parlare di mitologemi, più che della morte del padre si parla della morte dei figli. Della morte della capacità di generare o, piuttosto, di generare un destino. Ecco. La chiusura dell’orizzonte, la prospettiva di combattere per ottenere giustizia sapendo che essa non ci permetterà di non morire, e di non vedere i nostri figli morire.
Amida Bi, un’operazione al cuore e il fiato grosso, batte palmo a palmo la città vecchia, va a trovare vecchie compagne di lotta che non possono più alzarsi dal letto (nocività vuol dire anche questo: coloro che colpisci non avranno le energie e tempo a sufficienza per risponderti), e dice ad ognuna che combatterà fino a che morte non la separi dal corpo, devastato dal gas. La gente a Bhopal combatte, e lo fa perché sa che è giusto farlo. E lotta perché vuole vincere, ottenere giustizia, e medicine, e sostegno per sé e le proprie famiglie. Allo stesso tempo, però, il futuro è un muro da scavalcare, e i propri figli avranno anche loro il fiato grosso, e poco tempo ed energie per arrampicarsi.
Mia madre, insegnante elementare, dice sempre che se i bambini a cui insegni non fanno parte di un tuo sogno di insegnante (sogno di un mondo migliore, di giustizia, di futuri immaginati), allora ha poco senso insegnare. Qui, dove sognare vuol dire sperare di avere un figlio sano e di non svegliarsi al mattino con un nuovo sintomo, il punto è proprio questo: come immaginarsi un futuro di giustizia quando quella dannata è la prossima generazione?
Ecco la forza terrificante di questo (neo)capitalismo devastante: ci fa credere di aver appena ucciso i nostri avi, quando in realtà sta già seppellendo i nostri discendenti.
Ci sarebbe tanto altro da dire, e forse proverò a dirlo un’altra volta. Per il momento solo una precisazione ancora: quando dico Bhopal, intendo la Bhopal vecchia che dalla ex Union Carbide sale verso la stazione dei treni e quella dei pullman, e tocca circa 36 “circoscrizioni” colpite dal gas. La Bhopal nuova, quella è un’altra storia, di un capitalismo “cosmopolita” che della strage della UC se ne fotte, quando addirittura non la nasconde.
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