Mancano ormai (ore 5.30) pochi minuti alla certezza matematica della vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali Usa. L'impossibile è avvenuto. Il Mule, l'incontrollabile, il pazzo, è riuscito a convicere un popolo stordito dalla crisi più di quanto non potesse fare l'esausta icona dell'establishmenti, la Killary capace di distruggere la Libia senza un piano per tenerla insieme o di chiedere se fosse possibile mandare un drone per far fuouri Julian Assange. Due esempi, tra i tanti, della "democraticità ed equilibrio" che doivevano sbarrare la strada al "populismo".
E' stata una vittoria netta. Non solo in termini di sperdelegati (secondo il sistema statunitense, chi vince in uno stato prende tutti i delegati cui questo ha diritto, in proporzione alla popolazione residente), ma anche in termini di voti popolari. Una maggioranza magari non schiacciante – 1 milione e 300mila voti, mentre ancora di stanno scurtinando le schede in quattro stati – ma comunque chiara.
Trump ha conquistato tutti i principali stati-chiave, a partie da quell'Ohio che era un tempo il cuore dell'industria automobilistica Usa e quindi anche della classe operaia. Sarà bene ricordare che la disoccupazione reale statunitense è diventata già da 20 anni talmente esplosiva da far entrare anche la classe operaia – prima del 2007, prima dell'esplosione dei mutui subprime e di Lehmann Brothers – nel novero del presunto "ceto medio".
E lo stesso era avvenuto per molti "farmers", agricoltori e allevatori, buzzurri quanto si vuole, ma rovinati progressivamente e irreversibilmente dalla concorrenza globale, fondata su salari da fame incomparabili con quelli Usa.
Il lavorio della crisi, che suscita paure, insofferenza, paura del futuro, ha alla fine generato un gigantesco "vaffa" che ora minaccia di attraversare il pianeta come uno tsunami che non conosce ostacoli.
Trump è il sintomo, il collettore, il terminale inconsapevole e inadeguato di una miriade di contraddizioni persino difficili da elencare. Chi aveva spinto per la "riduzione del danno" – l'establishment di tutti i paesi – ha perso tutto.
Questo risultato, se non verrà in qualche modo imbrigliato e depotenziato dagli apparati del potere (statale e finanziario, nazionale e multinazionale), mette in discussione i pilastri della governance globale degli ulòtimi 70 anni. In altre parole, mette in discussione "l'ordine mondiale" centrato sulla capacità degli Stati Uniti di esercitare egemonia (culturale, politica, economica e soprattutto militare) sul resto del mondo.
Un'avvisaglia dello sconvolgimento globale che questo risultato annuncia la si ha dalle piazze finanziarie asiatiche, le uniche aperte a quest'ora. Yen e euro si rafforzano sul dollaro, il peso messicano precipita (Trump ha condotto una campagna fortemente anti-immigrati dal paese confinate). Vola l'oro, bene rifiugio per eccellenza, che sale oltre i 1.300 dollari l'oncia (+2,3%).
L'indice giapponese Nikkei perde il 4,8%, Hong Kong il 2,8( dopo essere arrivata al -3,4%), Taiwan il 2,7%, Shanghai è invece in positivo, dopo essere scesa soltanto dell'l'1,3%.
Drammatiche le attese – alle 6 di mattina – per la riapertura di Wal Street, la vera sconfitta in queste elezioni: i future sullo S&P 500 arrivano a perdere il 4% e quelli sul Dow Jones oltre il 3%.
(in aggiornamento)
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fausto schiavetto
e cosa volevano? hanno chiuso le fabbriche, decentrato in Cina la produzione, precarizzato la vita, fatto fuori fraudolentemente Sanders e le sue idee. e dunque pensavano che bastassero ancora i coretti con la Madonna?? il controllo è in crisi, il controllo sul proletariato. adesso c'è buona possibilità che cominci il ballo e scontri sono possibili
Ivano
Bene, penso anch'io che le contraddizioni sia meglio che esplodano, con Hilary avrebbe vinto l'America "per bene" e avrebbe ovattato ancora la crisi. Altro sarebbe stato se il candidato fosse stato Sandees, ma come in tutte le crisi quando non si ha il coraggio di proporre il nuovo , inevitabilmente avanza la destra.