Seduti nella tenda dell’associazione “Iniziativa del ’78”, presente al villaggio di Mehser, intervistiamo il presidente della sede di Kiziltepe. Si chiama Haci Isa. L’associazione è diffusa in tutta la Turchia: Istanbul, Ankara, Diyarbakir, Urfa, e tante altre città. Si occupa principalmente dei superstiti della feroce repressione seguita al colpo di stato… del generale Kenan Evren nel 1980, e di documentare e provare le responsabilità dei crimini commessi dai militari nei due anni di giunta. In quel periodo decine di migliaia di attivisti della sinistra rivoluzionaria furono incarcerati, torturati o uccisi. Furono chiuse tutte le associazione e i partiti che non sottostavano alla giunta. A questo vecchio, dallo sguardo penetrante e allo stesso tempo dolce, chiediamo innanzi tutto la sua storia.
“Ero un guerrigliero del PKK , mi arrestarono il 18 Ottobre del 1980. Per settantaquattro giorni mi torturarono in una caserma. Dopo di che curarono me e i miei compagni per una settimana: guarirono le nostre ferite e ci imbottirono di psicofarmaci prima di mandarci al carcere di Diyarbakir.”
Il carcere di Dyarbakir è famoso per essere stato uno dei più violenti della Turchia, se non del mondo…
“Gli psicofarmaci che ci davano erano infatti un modo per torturarci senza che potessimo sentire dolore. Quindi non ci seviziavano per estorcerci informazioni, ma sostanzialmente per il gusto di farci male. Dopo la caserma ci dicevamo che usciti da lì saremmo potuti finire all’inferno senza paura. Invece ci sbagliavamo: se dovessi raccontare quello che subivamo in una sola giornata non basterebbe un mese.
La cosa più feroce era quella di farci assistere alle torture dei compagni e degli amici a cui volevamo bene. Andavano avanti a colpirli, a ferirli, finché non gridavamo basta, sapendo che così sarebbe iniziato il nostro turno, e così avanti.
Una volta, avevo male ai denti e gli chiesi di picchiarmi sull’altro lato della faccia. Di tutta risposta mi presero a pugni ripetutamente sul lato destro finché il mio amico Aziz Buyukatas, di Hilvan, si è buttato su di me gridando di fermarsi. Lo massacrarono di fronte ai miei occhi.
Posso dire due cose sul carcere di Diyarbakir: ci ho conosciuto l’inferno, ma anche il paradiso. Fino all ’83 abbiamo vissuto l’inferno. Ma dall ’83 al ’90 il carcere fu preso in mano dai compagni rivoluzionari dopo anni di lotte durissime, in cui persero la vita molti detenuti, come Mazlum Dogan, che si diede fuoco per protesta, e molti altri uccisi dopo rivolte.
Dopo l’83 abbiamo vissuto nel carcere un tempo di libertà, posso dire che in quel periodo in carcere ho conosciuto il “paradiso”. Alcuni compagni non volevano addirittura uscire. Dopo che hai vissuto insieme un’esperienza come quella, dopo che hai perso i tuoi compagni, che ti sono morti tra le braccia… Hayri Durmus, Kemal Pir, Hayri Cicek, Akif Yilmaz, Hakki Karer sono tutti martiri del PKK… dopo che hai lottato insieme, hai vissuto insieme, non puoi lasciare i tuoi compagni. E ce ne sono altri, anche compagni turchi, morti sempre con noi, Ismet Karar è morto tra le mie braccia ucciso nel mezzo di uno sciopero della fame…”
Uscito dal carcere cosa hai fatto?
“Per colpa delle percosse e del trattamento che ho ricevuto ho sofferto molti mali fisici e adesso ho il Parkinson: prendo dodici pastiglie e se non lo faccio non posso muovermi. Però ho continuato a lottare onorando i miei compagni morti e continuando la loro lotta. Adesso il lavoro dell’associazione ha portato al processo di Kenan Evren, e anche se purtroppo non ha pagato come avrebbe dovuto, è stato condannato ed è stato radiato con disonore dai ranghi dell’esercito, e non finirà nella “Tomba dei Generali”. Voglio ringraziarvi di stare qui e di vedervi ogni giorno a Mehser… Scusate non voglio più parlare…”
Un’ombra passa nei suoi occhi, ci offre un chay e sorride.
Ci abbraccia e ci saluta. Sulla soglia della sua tenda ci ferma, ci toglie la kefiah che portiamo al collo e rientra; esce e ci mette sulle spalle la sua. Ci abbraccia ancora e ci invita ad andare alla catena umana che intanto si sta radunando sullo spiazzo davanti alla moschea; lo perdiamo di vista mentre raggiunge, con un passo lento e incerto, un’estremità della fila di persone che si schiera in direzione di Kobane.
Attualmente in Turchia sono imprigionati più di 10000 detenuti politici, 2000 di questi sono malati e 23 di loro sono in gravi condizione di salute. A 221 è stata comminata la pena dell’ergastolo. Circa 250 minori sono detenuti per reati politici in carceri minorili. Molti sono finiti in galera senza alcun processo. A sostegno della lotta di Kobane nelle carceri turche migliaia di detenuti hanno intrapreso lo sciopero della fame. Il governo turco continua a reprimere chi lotta per i propri diritti: a 2 degli arrestati per le manifestazioni che hanno incendiato tutta la Turchia un mese e mezzo fa hanno comminato 250 anni di carcere a testa (550 in totale) con capi di imputazione quali terrorismo et simili.
da http://delegazioneromakobane.noblogs.org
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