“Non dite che domani la giustizia vi farà vivi,
che sarà vendetta nei figli la schiena piagata dei padri”
(Franco Fortini)
[Nei giorni successivi al verdetto della Cassazione sul processo Eternit molti giornali hanno pubblicato i dettagli di una sentenza del tribunale di Torino del 1906 che dimostra la conoscenza della pericolosità dell’uso dell’amianto già ai primi del secolo scorso. Ringrazio il Centro di Documentazione Marco Vettori che mi ha fatto avere il testo completo della sentenza. Ho trasformato quel documento in un testo narrativo, intervenendo in maniera chirurgica, omettendo certi passi un po’ legnosi per renderlo fruibile come se fosse un racconto. Un racconto che si chiude con una domanda: se si sapeva, quanto è stato fatto e da chi, perché si dimenticasse?] A.P.
In nome di sua Maestà
Vittorio Emanuele III
Per grazia di Dio e Volontà della Nazione
Re d’Italia
Il tribunale Civile e Penale di Torino
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Nella causa della Società anonima The British Asbestos Company Limited, avente sede in Londra con succursale in Nole Canavese
Contro
Pich Avv. Carlo, residente in Torino, quale proprietario e direttore del giornale “Il Progresso del Canavese”
IL FATTO
Nella primavera del corrente anno 1906 scoppiarono diversi scioperi operai in parecchie manifatture. Fra coloro che scioperarono vi furono gli operai addetti a due fabbriche di lavorazione dell’amianto di Nole Canavese (TO), cioè la Bender e Martiny e la British Asbestos Company. Gli scioperi terminarono con la concessione di migliori condizioni di lavoro e il blocco di alcuni licenziamenti.
Il giornale “Il Progresso del Canavese”, stampato a Cirié e diretto dall’avvocato Carlo Pich, pubblicava una nota così concepita: “Noi siamo lietissimi che lo sciopero sia finito e siamo anche lieti che sia finito col trionfo delle giustissime domande operie. (…) A costo di suscitare gli sdegni della compagnia abbiamo sempre affermato che le domande operaie erano giuste dato il genere d’industria che annualmente fa un numero incredibile di vittime”.
Le parole spiacquero alla British Asbestos Company e al suo gerente Max Branus che scrisse al giornale chiedendo di “smentire l’avventata affermazione che la nostra industria faccia annualmente un numero incredibile di vittime: io sfido lei e chiunque altro a provare che ciò risponde al vero e sarei lieto che Ella avesse il coraggio di persistere in quella sua affermazione per aver campo di farne risultare giudizialmente la falsità assoluta”.
Aveva forse la coda di paglia il direttore dell’impresa inglese? Alle minacce verso la stampa, faceva seguire il paternalismo verso i “suoi” operai, che “cominciano a comprendere che i veri amici sono quelli che assicurano loro il pane quotidiano e non coloro che con fini reconditi li aizzano contro gli industriali e fomentano un lievito che potrebbe essere causa di danni irreparabili per queste vallate e per le loro famiglie”. Sarà la storia a dimostrare se a rovinare le vallate e le famiglie operaie piemontesi siano state le lotte degli operai o le fibre assassine che gli industriali hanno sparso a profusione.
Ma torniamo al documento. Le righe nervose della replica industriale apparvero sul “Progresso del Canavese” assieme a una controreplica redazionale. Con preveggente saggezza, il direttore del periodico scrisse: “Il nostro torto principale sembra quello di aver scritto che l’industria dell’amianto è più nociva delle altre e fa annualmente un considerevole numero di vittime. Ebbene, chiunque consulti le statistiche mortuarie di Nole troverà spesso queste parole: tisi, anemia, gastroenterite. Se poi si va a cercare la professione, si troverà con triste frequenza: operai ed operaie dell’amianto.”
Tutto questo indusse il direttore della filiale della British Asbestos Company a portare in giudizio per diffamazione il piccolo foglio del canavese. Aprendo un sentiero calcato in seguito dai signori dell’asbesto, il direttore della fabbrica di cemento-amianto preme sulla stampa appoggiandosi alle dichiarazioni di un medico compiacente, pronto a sostenere la tesi dell’innocuità dell’amianto: così il prof. Luigi Pagliani dell’università di Torino, “dopo aver premesso di essersi recato, dietro invito della British Asbestos C. Li., a visitare il di lei stabilimento di lavorazione dell’amianto per riconoscere se agli operai ed operaie addette all’opificio possa riuscire di danno il pulviscolo che si sollevi nella lavorazione stessa, afferma di aver constatato che i locali sono ampi e ben ventilati come non si può desiderare di meglio, che l’ambiente delle macchine non riceve pulviscolo di sorta, che il materiale usato è amianto di Siberia, del Canada e della Valtellina e tale da non dare pulviscolo fino come quello prima impiegato della Val di Susa o di Usseglio, che è anidro e di fattura vetrosa, mentre quello impiegato ora dà una polvere a fiocchetti così che dev’essere facilmente arrestato dalle prime vie respiratorie; che le condizioni degli operai sono tali da escludere qualsiasi dubbio d’influenza anche lontanamente dannosa da parte del lavoro”. Insomma, il Buon Pagliai giura più che su Ippocrate sulla voce del padrone e la sua scelta avrà un discreto seguito nei decenni a venire, confortata dalle pulizie di poco precedenti le visite guidate in azienda di medici e ispettori del lavoro, eseguite direttamente dagli operai, a cui si intima il silenzio pena il licenziamento.
Per fortuna non tutti i medici vedono quello che il padrone mette sotto i loro occhi. A sostegno delle sue tesi sulla pericolosità dell’amianto, l’avvocato Pich produce tre certificati medici (dottori Bellono, Borla e Borgogno) “dai quali sostanzialmente si evince che gli operai lavoranti a Nole nelle fabbriche per la lavorazione dell’amianto vanno soggetti a bronco-polmoniti dovute alle aspirazioni della polvere di quel minerale, la qual bronchite dice il dottor Bellono offre terreno favorevole allo sviluppo del bacillo della tubercolosi; e il dottor Borla aggiunge che questa è cosa da tempo risaputa, che cioè gli operai dove si lavora l’amianto si ammalano più facilmente, in confrono agli operai che frequentano altri stabilimenti (filatura, tessitura di lana e simili), di malattie croniche delle vie respiratorie, in conseguenza di enfisema e di tubercolosi polmonare”. Insomma, la medicina aveva centrato il problema. Certo le diagnosi erano ancora generiche, si prognosticavano malattie polmonari, si associava l’asbestosi alla silicosi e alla broncopolmonite, in assenza di tecniche di indagine più sofisticate. Ma il dato epidemiologico era già percepito, come del resto il nesso tra esposizione professionale, malattia e mortalità.
A quest’ultimo riguardo, il Pich si servì dei registri comunali che certificavano come nel piccolo centro di Nole “vi furono nel quinquennio 1902-1906 dieci morti, 7 per tubercolosi polmonare, 1 per bronchite, 1 per tifo, 1 per infortunio sul lavoro” tra gli operai dell’amianto. Molti di più di altri settori, senza dimenticare che il grosso, considerato il tempo di latenza della malattia, si sarà ammalato di cancro quando già Mussolini strabuzzava gli occhi e stringeva la pance dal balcone di Palazzo Venezia. Ma oltre alla nocività, questi stabilimenti erano pericolosi, con buona pace del medico e del direttore della British Asbestos, anche in ragione degli infortuni, che i documenti del sindaco di Nole provano aver raggiunto nel cinquennio 1900-1905 il numero di 50. Detto questo, il Pich si difende dalle accuse, dopo i dati scientifici ed epidemiologici, anche riportando la vox populi, suffragata però dal parere di quattro consiglieri comunali di Nove Canavese, “i quali affermano che l’opinione pubblica in quel comune considera l’industria dell’amianto nociva e pericolosa a causa della polvere e dei frequenti infortuni per gli operai ed operaie che vi lavorano”.
Alla luce di questi fatti, il Pich difende le ragioni del suo giornale, dato che nelle “tavole necrologiche del Comune di Nole appare con triste frequenza segnato il decesso di operai e di operaie dell’amianto”.
Il TRIBUNALE SI ESPRIME
Il Tribunale di Torino accetta la difesa del Pich. “Purtroppo disse il vero il Progresso del Canavese circa alla mortalità degli operai, salvo quell’iperbole dell’incredibile numero” (ma il peggio allora era lontano da venire e l’iperbole era forse calcolata in difetto). E poi si aggiunge: “ed è pur vero nella sua sostanza quanto [il giornale] scrisse in riguardo alla pericolosità della lavorazione dell’amianto”. E aveva ragione il giornale anche a denunciare la situazione degli stabilimenti dell’amianto, cosa che, secondo le pretese della British Asbestos, era invece “privato interesse nel quale nessuno ha diritto di intromettersi”, in quanto “dibattito privato fra lei ed i suoi operai”.
Quanto al senso comune del tempo, doveva essere più sensato di quello degli anni a venire, perché il tribunale riconosce che “quella della pericolosità delle lavorazioni in ambienti torbidi per polveri sospese nell’aria” è “cognizione comune a tutte le persone anche mediocremente colte”.
Oltre al senso comune, i giudici passano poi in rassegna la letteratura medica del periodo, cosa che risulta illuminante. Scrivono: “ (…) a cominciare dal 1700, quando il Ramazzini professore a Modena scriveva il suo De Morbis artificum diatriba, per venire al Sanarelli, al Revelli, all’Albrecht, al Giglioli, che scrissero in questi ultimi anni sulle malattie del lavoro, a giungere fino all’anno corrente in cui di esse si discusse a Milano nel Congresso internazionale per le malattie del lavoro, tutti coloro che come medici e come sociologi dell’igiene dei lavoratori si occuparono, riconobbero che ogni lavoro, ogni professione porta con sé morbi speciali, o quanto meno modifica l’organismo profondamente (…).”
“Riconobbero i più attenti che tra le industrie pericolose, che agiscono direttamente o indirettamente sulla mortalità o morbilità umana, vi sono quelle che indicarono col nome di polverose, e tra queste le industrie che sollevano polveri minerali, siano ad azione meccanica o chimica”.
“Scrissero ancora che fra le polveri ad azione meccanica sono più pericolose quelle provenienti da sostanze silicee, inquantoché per la costituzione delle particelle che le compongono vengono a ledere le vie degli apparati respiratori, quando non giungono fino al polmone, predisponendolo allo sviluppo della tubercolosi, facilitandone la diffusione, aumentandone la gravità.
Tutto questo sapendo lo scrittore del Progresso del Canavese poteva bene, senza colpa d’imprudenza o di leggerezza, scrivere che l’industria dell’amianto è pericolosa. (…) Poteva ben riportare quanto scrisse il professor Giglioli di Firenze, che per quanta buona volontà ci metta l’industriale (…) a prendere delle precauzioni, i danni dovuti alla polvere sono assai spesso una dolorosa necessità del mestiere che non potrebbe essere soppressa se non sopprimendo l’industria”.
Insomma, che l’amianto ammazzasse gli operai, che i lavoratori dell’asbesto avessero maggiori probabilità di morire rispetto ad altre categorie della classe popolare, secondo il tribunale di Torino era provato “in modo veramente irrefutabile”. Per questo il tribunale assolse il Pich e condannò la British Asbestos al pagamento delle spese processuali.
Tutto questo, “così deciso dal Tribunale di Torino il 22 ottobre 1906”.
La domanda allora non è quando si è saputo che l’amianto faceva male.
La domanda è perché, sapendolo nel 1906, per più di mezzo secolo, negli anni a venire si è dimenticato. Perché, quale tremendo lavoro di mortificazione della memoria, quale diluizione del rischio e del pericolo, quale immane frode ai danni del senso comune e di quello scientifico, quale deliberato attacco alla salute dei lavoratori è stato messo in cantiere, dai padroni dell’amianto, per continuare a fare impastare ai loro operai, destinati a morte prematura, cemento e asbesto. Per fare soldi in maniera tanto ignobile e impunita.
[Nota: questo post esce volutamente nel giorno del trentesimo anniversario della strage di Bhopal, forse il più grave disastro industriale di tutti i tempi. Quella notte, trent’anni fa, la succursale indiana dell’Union Carbide, che produceva pesticidi, liberò una nuvola tossica che uccise migliaia e migliaia di persone. Torneremo in futuro su quella vicenda che per gli italiani rimanda da un lato al caso della diossina di Seveso e da un altro al caso Eternit, almeno per le difficoltà dei familiari delle vittime a ottenere un riscontro attraverso le vie della giustizia istituzionale] A.P.
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