Pubblichiamo questa “confessione” dell’attuale ministro delle finanze greco per molti motivi. Il più importante è che raramente ci capita di leggere qualcosa di teoricamente e storicamente stimolante, quindi necessariamente controverso. E questo documento, senza dubbio, lo è. Non si tratta insomma di condividerlo dalla a alla zeta (non lo gradirebbe probabilmente neanche l’autore), né di prenderlo come punching ball contro cui esercitare una banale – e poco seria – “critica dstruttiva”.
Ci sembra piuttosto che sia un modo di innalzare la discussione sul presente e sul futuro della crisi sistemica.
Un compito cui non vogliamo sottrarci, ma che non può essere assolto nel breve spazio di tempo di un articolo. Nel frattempo, pensiamo sia utile per chiunque – nella sinistra radicale vera, quindi senza esitazioni collocata in campo marxista – prendere visione di questa riflessione mai banale. E misurarcisi.
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[Nel maggio del 2013 ho avuto il piacere di tenere un discorso al Sesto Festival Sovversivo di Zagabria su questo argomento. Solo ora sono riuscito a scrivere quel discorso e ad ampliarlo in alcuni modi significativi [1]]
1. Introduzione: una confessione radicale
Il capitalismo ha avuto il suo secondo spasmo globale nel 2008, scatenando una reazione a catena che ha gettato l’Europa in una spirale discendente che attualmente sta minacciando gli europei di un vortice quasi permanente di depressione, cinismo, disintegrazione e misantropia.
Negli ultimi tre anni ho tenuto discorsi a uditori eccezionalmente diversi a proposito dell’emergenza europea. Migliaia di dimostranti contro l’austerità a Piazza Syntagma, ad Atene, personale della Federal Reserve Bank di New York, parlamentari Verdi presso il Parlamento Europeo, analisti di Bloomberg a Londra e a New York, scolari di sobborghi emarginati greci e statunitensi, la Camera dei Comuni a Londra, attivisti di Syriza a Salonicco, fondi d’investimento a Manhattan e nella City di Londra; la lista è tanto lunga quanto è persistente la ritirata dei nostri leader europei dall’umanesimo e dalla ragione. Nonostante la diversità degli uditori, il messaggio è stato coerente: la crisi attuale dell’Europa non è soltanto una minaccia per i lavoratori, per i deprivati, per i banchieri, per gruppi o classi sociali particolari o, in realtà, per nazioni particolari. No, l’attuale atteggiamento dell’Europa pone una minaccia alla civiltà così come la conosciamo.
Se la mia prognosi è corretta e la crisi europea non è soltanto un altro crollo ciclico che sarà superato presto con la ricrescita dei profitti conseguente all’inevitabile stretta sui salari, la domanda che sorge per i radicali è la seguente: dovremmo accogliere questo vasto cedimento del capitalismo europeo come un’occasione per sostituire il capitalismo con un sistema migliore? O dovremmo essere così preoccupati al riguardo da imbarcarci in una campagna per stabilizzare il capitalismo europeo? La mia risposta negli ultimi tre anni è stata inequivocabile ed è disattesa dalla lista citata più sopra dei diversi uditori che ho cercato di influenzare. La crisi dell’Europa è, a mio parere, gravida non solo di un’alternativa progressista, ma anche di forze radicalmente regressive che hanno la capacità di causare un bagno di sangue umanitario cancellando la speranza di un qualsiasi passo avanti progressiste per generazioni a venire.
Per queste idee sono stato accusato, da voci radicali benintenzionate, di essere un ‘disfattista’, un menscevico dell’ultimo giorno che instancabilmente si batte a favore di piani lo scopo dei quali è salvare l’attuale indifendibile sistema socio-economico europeo. Un sistema che rappresenta tutto ciò che contro cui un radicale dovrebbe ammonire e lottare: un’Unione Europa antidemocratica, irreversibilmente neoliberista, fortemente irrazionale, transnazionale che non ha quasi alcuna capacità di evolvere in una comunità genuinamente umanistica in cui le nazioni dell’Europa possano respirare, vivere e svilupparsi. Questa critica, lo confesso, ferisce. E ferisce perché contiene più di un nocciolo di verità.
In verità io condivido la visione di questa Unione Europea come cartello fondamentalmente antidemocratico e irrazionale che ha posto i popoli dell’Europa su un sentiero di misantropia, conflitti e recessione permanente. E mi inchino anche alla critica di aver condotto una campagna fondata sul presupposto che la Sinistra sia, e rimanga, francamente sconfitta. Dunque sì, in questo senso mi sento obbligato a riconoscere che desidererei che la mia campagna fosse di un genere diverso; che promuoverei molto più volentieri un’agenda radicale la cui raison d’etre fosse sostituire il capitalismo europeo con un sistema diverso, più razionale, piuttosto che limitarmi a promuovere la stabilizzazione del capitalismo europeo, in contrasto con la mia definizione di Buona Società.
A questo punto è forse pertinente una confessione di secondo ordine: confessare che … le confessioni tendono a essere interessate. In effetti le confessioni sono sempre sull’orlo di quanto disse una volta John von Neumann a proposito di Robert Oppenheimer, dopo aver sentito che il suo ex direttore al Progetto Manhattan era diventato un attivista antinucleare e si era confessato colpevole del suo contributo alla carneficina di Hiroshima e Nagasaki. Le caustiche parole di Von Neumann furono:
“Confessa il peccato per reclamare la gloria”.
Fortunatamente io non sono un Oppenheimer e perciò non sarà troppo difficile confessare vari peccati come mezzo di autopromozione bensì, piuttosto, come finestra da cui osservare un capitalismo europeo devastato dalla crisi, profondamente irrazionale e ripugnante la cui implosione, nonostante i suoi molti mali, andrebbe evitata a ogni costo. E’ una confessione mediante la quale convincere i radicali che abbiamo una missione contraddittoria: arrestare la caduta libera del capitalismo europeo al fine di guadagnare il tempo che ci è necessario per formulare l’alternativa a esso.
2. Perché marxista?
Quando scelsi la mia tesi di dottorato, nel 1982, scelsi di proposito un argomento fortemente matematico e un tema in cui il pensiero di Marx era irrilevante. Quando, in seguito, mi imbarcai nella carriera accademica, da lettore nelle facoltà di economia convenzionale, il contratto implicito tra me e le facoltà che mi offrivano il posto era che avrei insegnato il genere di teoria economica che non lasciava spazi a Marx. Alla fine degli anni ’80, senza che io lo sapessi, fui assunto dalla facoltà di economia dell’Università di Sidney, per escludere un candidato di sinistra. Poi, ritornato in Grecia nel 2000, mi sono schierato con George Papandreou, sperando di contribuire a fermare il ritorno al potere di una Destra risorgente determinata a riportare i greci in una posizione xenofoba (sia all’interno, con un giro di vite contro i lavoratori immigrati, sia in politica estera). Come oggi sa il mondo intero, il partito di Papandreou non solo non fermò la xenofobia ma, alla fine, presiedette le politiche macroeconomiche neoliberiste più virulente che furono l’avanguardia dei cosiddetti salvataggi dell’eurozona, provocando in tal modo, inconsapevolmente, il ritorno dei nazisti nelle strade di Atene. Anche se mi ero dimesso da consigliere di Papandreou nel 2006 ed ero diventato uno dei critici più fermi del suo governo nel corso della sua mala gestione dell’implosione greca post 2009, i miei interventi nel dibattito pubblico in Grecia e in Europa (ad esempio la Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis [Modesta proposta per risolvere la crisi dell’euro] di cui sono stato co-autore e che ho promosso) non hanno alcun sentore di marxismo.
In considerazione di questo lungo percorso nel mondo accademico e nei dibattiti politici sull’Europa, si può essere sorpresi nel sentirmi, proverbialmente, uscire allo scoperto da marxista. Tali pronunciamenti non mi vengono naturali. Vorrei poter evitare etero-definizioni (cioè essere definito in base alla visione del mondo e al metodo di qualcun altro). Marxista, hegeliano, keynesiano, seguace di Hume … ho una tendenza naturale a dire che non sono nessuna di queste cose; che ho dedicato i miei giorni a cercare di diventare un’ape di Francesco Bacone, una creatura che assaggia il nettare i milioni di fiori e lo trasforma, nel suo stomaco, in qualcosa di nuovo, qualcosa di proprio, qualcosa che deve molto a ogni singolo fiore ma che non è definito da nessuno di essi. Ahimè, questo sarebbe un modo non veritiero e inadatto per cominciare una … confessione.
In verità Karl Marx è stato responsabile di aver inquadrato la mia prospettiva sul mondo in cui viviamo, dalla mia infanzia a oggi. Non è qualcosa di cui parlo molto spontaneamente in questi giorni nella ‘società per bene’, perché la stessa citazione del nome che inizia per M rende sordi gli uditori. Ma nemmeno lo nego mai. In realtà dopo alcuni anni in cui mi rivolgo a uditori con cui non condivido un ambiente ideologico, recentemente si è insinuato in me un bisogno di parlare francamente dell’impronta di Marx sul mio pensiero. Di spiegare perché, pur da marxista impenitente, penso sia importante opporglisi appassionatamente in una varietà di modi. Essere, in altre parole, eccentrici nel proprio marxismo.
Se la mia intera carriera accademica ha largamente ignorato Marx e le mie attuali raccomandazioni politiche non possono essere descritte come marxiste, allora perché tirar fuori adesso il mio marxismo? La risposta è semplice: anche la mia economia non marxista è stata guidata da un’ottica fortemente influenzata da Marx. Ho sempre pensato che un teorico sociale radicale può contrastare la corrente economica prevalente in due modi diversi. Un modo è la critica immanente. Accettare gli assiomi convenzionali e poi rivelarne le contraddizioni interne. Dire: “Non contesterò i vostri presupposti ma ecco perché le vostre stesse conclusioni non scaturiscono logicamente da essi”. Questo è stato, in effetti, il metodo di Marx nel minare l’economia politica britannica. Egli accettò ogni assioma di Adam Smith e di David Ricardo al fine di dimostrare che, nel contesto dei loro presupposti, il capitalismo era un sistema contraddittorio. La seconda via che può seguire un teorico radicale è, naturalmente, costruire teorie alternative a quello del Sistema, sperando che saranno prese sul serio (che è quello che hanno fatto gli economisti marxisti del ventesimo secolo).
La mia idea riguardo a questo dilemma è sempre stata che quelli che detengono il potere vero non sono mai turbati da teorie che partono da presupposti diversi dai loro. Nessun economista convenzionale dedicherà oggi neppure attenzione a un modello marxista o neo-ricardiano. La sola cosa che può destabilizzare e veramente sfidare gli economisti neoclassici convenzionali è la dimostrazione dell’incoerenza interna dei loro stessi modelli. E’ stato per questo motivo che, sin dall’inizio, ho scelto di immergermi nelle ‘viscere’ della teoria neoclassica e di non dedicare quasi nessuna energia a cercare di sviluppare modelli alternativi, marxisti, di capitalismo. I miei motivi, che sottopongo, sono stati molto … marxisti [2].
Quando chiamato a commentare il mondo in cui viviamo, rispetto all’ideologia dominante riguardo al funzionamento del nostro mondo, non avevo altra alternativa che rifarmi alla tradizione marxista che aveva modellato il mio pensiero sin da quando mio padre, un metallurgico, mi aveva sottolineato, quando ero ancora un bambino, gli effetti del cambiamento e dell’innovazione tecnologica nel processo storico. Come, per esempio, il passaggio dall’Età del Bronzo a quella del Ferro aveva accelerato la Storia; come la scoperta dell’acciaio aveva accelerato il tempo storico di un fattore di dieci; e come le tecnologie IT basate sul silicio stanno offrendo una corsia preferenziale a discontinuità storiche e socio-economiche.
Questo costante trionfo della ragione umana sui nostri mezzi tecnologici e sulla natura, che serve anche periodicamente a denunciare l’arretratezza delle nostre soluzione e relazioni sociali, è un’intuizione insostituibile di cui sono debitore a Marx. La sua prospettiva materialista storica è stata rafforzata nel modo più interessante e inatteso. Chiunque abbia visto l’episodio della serie Star Trek intitolato ‘Blink of an eye’ [Un batter d’occhio] riconoscerà una presentazione meravigliosa di quarantacinque minuti del materialismo storico all’opera; una stupefacente narrazione del processo mediante il quale lo sviluppo dei mezzi di produzione genera progressi tecnologici che minano costantemente la superstizione e creano slanci storici che, in modo non lineare, danno vita a nuovi stadi della civiltà.
Il mio primo incontro con testi di Marx ebbe luogo molto presto nella mia vita, in conseguenza degli strani tempi in cui sono cresciuto, con la Grecia che usciva dall’incubo della dittatura neofascista del 1967-74. Ciò che mi colpì fu il dono insuperabile, ipnotico della stesura di un copione drammatico della storia umana, in effetti della dannazione umana, corretto da possibilità molto reale di salvezza e autentica spiritualità. Nel leggere passi come
“la società borghese moderna con i suoi rapporti di produzione, di scambio e di proprietà, una società che ha ideato mezzi di produzione e di scambio così giganteschi, è come lo stregone che non è più in grado di controllare le potenze del mondo infernale che ha evocato con i suoi sortilegi” (Il manifesto del partito comunista, 1848)”
era come incontrare una riunione, da una parte, del dottor Faust e del dottor Frankenstein e, dall’altra, di Adam Smith e David Ricardo, creando una narrazione popolata di figure (lavoratori, capitalisti, dirigenti, scienziati) che erano le dramatis personae della Storia, agenti che lottavano controllare ragione e scienza nel contesto dell’emancipazione dell’umanità mentre, contrariamente alle loro intenzioni, scatenavano forze demoniache che usurpavano e sovvertivano la loro libertà e umanità.
Questa prospettiva dialettica, in cui tutto contiene il proprio opposto, e l’occhio appassionato con cui Marx individuava il potenziale di cambiamento nell’apparentemente più costante e immutabile delle strutture sociali, mi hanno aiutato ad afferrare le grandi contraddizioni dell’era capitalistica. Dissolveva il paradosso di un’età che generava la ricchezza più rimarchevole e, al tempo stesso, la povertà più cospicua. Oggi, rivolgendosi alla crisi europea, alla crisi di consapevolezza degli Stati Uniti, alla stagnazione a lungo termine del capitalismo giapponese, la maggior parte dei commentatori manca di cogliere il processo dialettico che ha sotto il naso. Riconoscono la montagna di debiti e di perdite bancarie ma trascurano l’altra faccia della stessa medaglia, la sua antitesi: la montagna di risparmi oziosi che sono “congelati” dalla paura e perciò non si convertono in investimenti produttivi. Una lucidità marxista agli opposti binari avrebbe potuto aprir loro gli occhi …
Uno dei principali motivi per cui l’ottica consolidata non viene a patti con la realtà contemporanea è che non ha mai compreso la ‘produzione congiunta’, dialetticamente tesa, di debiti e surplus, di crescita e disoccupazione, di ricchezza e povertà, di spiritualità e depravazione, in effetti di bene e male, di nuove prospettive di piacere e di nuove forme di schiavitù, di libertà e di schiavizzazione; di questo melange di opposti binari in ordine al quale ci ha messo in allarme il drammatico copione di Marx come fonti delle perfidie della Storia.
Dai miei primi passi nel pensare da economista a questo giorno stesso mi è venuto in mente che Marx aveva fatto una ‘scoperta’ che deve restare al centro di ogni analisi utile del capitalismo. Era, ovviamente, la scoperta di un’altra opposizione binaria profonda nel lavoro umano. Tra due ‘nature’ molto diverse del lavoro: (i) lavoro come attività di creazione di un valore che non può mai essere specificato o quantificato in anticipo (e perciò è impossibile da mercificare) e (ii) lavoro come una quantità (ad esempio il numero di ore lavorate) che è in vendita e si ottiene a un certo prezzo. E’ questo che distingue il lavoro da altri fattori della produzione, come l’elettricità: la sua natura doppia, contraddittoria. Una differenziazione-con-contraddizione che l’economia politica ha trascurato prima che arrivasse Marx e che l’economia dominante si rifiuta fermamente di riconoscere oggi.
Sia l’elettricità sia il lavoro possono essere visti come merci. In effetti sia gli imprenditori sia i lavoratori lottano per mercificare il lavoro. Gli imprenditori usano tutto il loro ingegno, e quello dei loro galoppini della gestione delle risorse umane, per quantificare, misurare e rendere omogeneo il lavoro. Al tempo stesso potenziali dipendenti sudano sette camicie nell’ansioso tentativo di mercificare la propria forza lavoro, di scrivere e riscrivere i loro CV al fine di mostrarsi come fornitori di unità quantificabili di lavoro. E lì sta il problema! Poiché se mai lavoratori e imprenditori riuscissero a mercificare interamente il lavoro, il capitalismo perirebbe. Questa è un’idea senza la quale la tendenza del capitalismo a generare crisi non può mai essere compresa interamente e, anche, un’idea cui nessuno ha accesso senza una qualche esposizione al pensiero di Marx.
3. La fantascienza diventa documentario
Nel classico film del 1953 L’invasione degli ultracorpi la forza aliena non ci attacca frontalmente, diversamente da, diciamo, La guerra dei mondi di H.G.Wells. Gli umani, invece, sono attaccati dall’interno, fino a quando non resta nulla del loro spirito e delle loro emozioni umane. I loro corpi sono tutto ciò che resta, come conchiglie che un tempo contenevano una volontà libera e che ora lavorano, passano attraverso i movimenti della ‘vita’ quotidiana e funzionano da simulacri umani ‘liberati’ dalla capricciosità della natura umana. Questo processo è equivalente alla trasformazione necessaria al fine di trasformare il lavoro umano in un fattore non dissimile dalle semenze, dall’elettricità, in effetti dai robot. Nel parlare moderno è quello che sarebbe successo se il lavoro umano fosse divenuto perfettamente riducibile a capitale umano e così adatto a essere inserito nei modelli degli economisti grossolani.
Provate a pensarci: ciascuna e ogni teoria economica non marxista che tratta i fattori della produzione umani e non umani come intercambiabili e come quantità qualitativamente equivalenti, assume che la disumanizzazione del lavoro sia completa. Ma se potesse mai essere completa, la conseguenza sarebbe la fine del capitalismo come sistema capace di creare e distribuire valore. Tanto per cominciare una società di simulacri disumanizzati, di automi, somiglierebbe a un orologio meccanico pieno di ingranaggi e di molle, ciascuna con la sua unica funzione, che insieme producono un ‘bene’: la misurazione del tempo. Tuttavia se tale società non contenesse altro che altri automi, la misurazione del tempo non sarebbe un ‘bene’. Sarebbe un ‘prodotto’, certamente, ma perché un ‘bene’? Senza veri esseri umani a sperimentare la funzione dell’orologio, non potrebbe esserci nulla di ‘bene’ o di ‘male’. Una ‘società’ di automi sarebbe, come l’orologio meccanico o un qualche circuito integrato, piena di parti funzionanti, che mostrano una funzione ma nulla che possa essere utilmente descritto come ‘bene’ o ‘male’ o, in effetti, ‘di valore’.
Dunque, per ricapitolare, se il capitale riuscisse mai a quantificare, e conseguentemente mercificare interamente, il lavoro, come sta costantemente cercando di fare, spremerebbe anche fuori dal lavoro quell’indeterminata, recalcitrante libertà umana che consente la generazione di valore. La brillante penetrazione di Marx nell’essenza delle crisi capitalistiche è stata precisamente questo: tanto maggiore è il successo del capitalismo nel trasformare il lavoro in una merce, tanto minore è il valore di ciascuna unità di produzione che esso genera, tanto minore il tasso di profitto e, alla fine, tanto più prossima la maligna recessione successiva dell’economia come sistema. La rappresentazione della libertà umana come categoria economica è unica in Marx, rendendo possibile un’interpretazione distintamente spettacolare e analiticamente perspicace della propensione del capitalismo ad arraffare la recessione, persino la depressione, dalle fauci della ‘crescita’.
Quando Marx scriveva che il lavoro è il fuoco vivente, forgiatore, la transitorietà delle cose, la loro temporalità, stava offrendo il massimo contributo che qualsiasi economista abbia mai offerto alla nostra comprensione dell’acuta contraddizione sepolta nel DNA del capitalismo. Quanto dipingeva il capitale come una “… forza cui dobbiamo sottometterci … sviluppa un’energia universale, cosmopolita che infrange ogni limite e ogni legame e si pone come unica politica, unica universalità, unico limite e unico legame” [3], egli stava evidenziando la realtà che il lavoro può essere acquistato dal capitale liquido (cioè dal denaro) nella sua forma di merce, ma porterà sempre con sé una volontà ostile al compratore capitalista. Ma Marx non stava semplicemente formulando una dichiarazione psicologica, filosofica o politica. Stava, piuttosto, offrendo una considerevole analisi del perché nel momento in cui il lavoro (come attività non quantificabile) perde tale ostilità, diventa sterile, incapace di produrre valore.
In un’epoca in cui i neoliberisti hanno intrappolato la maggioranza nei loro tentacoli teoretici, rigurgitando incessantemente l’ideologia di accrescere la produttività del lavoro nel tentativo di accrescere la competitività con l’idea di creare ‘crescita’, eccetera, l’analisi di Marx offre un antidoto potente. Il capitale non può mai vincere la sua lotta per trasformare il lavoro in un fattore infinitamente elastico, meccanizzato, senza distruggere sé stesso. Questo è quanto né i neoliberisti né i keynesiani capiranno mai! “Se l’intera classe dei lavoratori salariati dovesse essere cancellata dalle macchine”, scriveva Marx, “che cosa terribile sarebbe per il capitale che, senza lavoro salariato, cessa di essere capitale!”[4] Quanto più prossimo alla sua “vittoria finale” sul lavoro si spinge il capitale, tanto più la nostra società assomiglia a un altro film di fantascienza. Un film che era stato presagito, sì, da Karl Marx: Matrix.
Ciò che è unico in Matrix è che in esso la ribellione dei nostri manufatti non è semplicemente un caso di uccisione del creatore. Diversamente dalla Cosa di Frankenstein, che attacca irrazionalmente gli esseri umani mossa dalla sua assoluta angoscia esistenziale, o dalle macchine della serie Terminator che vogliono semplicemente sterminare tutti gli umani per consolidare il loro futuro dominio sul pianeta, in Matrix l’impero emergente delle macchine è scrupoloso nel preservare la vita umana per i propri fini, nel tenerci vivi come sua risorsa primaria. L’Homo sapiens, nonostante abbia inventato la schiavitù umana, e nonostante la nostra storia senza confronti di inflizione di orrori indicibili ai nostri fratelli, non avrebbe mai potuto immaginare il ruolo indegno che le macchine gli avrebbero assegnato in Matrix: bloccati in marchingegni che ci immobilizzano per risparmiare energia, le macchine ci alimentano a forza con una miscela di nutrienti nauseanti adatti per la massima produzione di calore.
Tuttavia le macchine devono presto scoprire che gli umani non durano a lungo quando il loro spirito è spezzato e la loro libertà negata totalmente. Il nostro curioso bisogno di libertà, così, minaccia l’efficacia dei loro impianti energetici a motore umano. Così le macchine ci obbligano a quella che Marx avrebbe chiamato una ‘falsa coscienza’. Non solo immettono a forza nutrienti nel nostro organismo, ma anche illusioni di cui il nostro spirito ha fame nella nostra mente. Ingegnosamente attaccano elettrodi ai nostri crani attraverso i quali immettono, direttamente nel nostro cervello, una vita virtuale, ma del tutto realistica, che, da umani, possiamo gestire. Mentre i nostri corpi continuano a essere brutalmente collegati ai loro generatori di energia, alimentandoli con l’elettricità estratta dal calore dei nostri corpi, il programma informatico delle macchine noto come Matrix riempie le nostre menti di una vita immaginaria, illusoria e tuttavia molto ‘reale’, ‘normale’. Il quel modo i nostri corpi, ignari della realtà, possono vivere per decenni, con grande utilità per le macchine responsabili di generare energia sufficiente a sostenere il loro nuovo mondo. L’oblio umano si dimostra un fattore cruciale per la produzione nell’economia di Matrix.
“Le macchine hanno conquistato il potere di dominio sul lavoro umano e sui suoi prodotti” [5] è il modo in cui Marx descrisse l’’ascesa delle macchine’ come incrocio tra una tragedia greca antica e una shakespeariana, evoluto sullo sfondo di una rivoluzione industriale in cui i pochi erano proprietari delle macchine e i molti le facevano funzionare. Il punto di Marx era che, nell’universo del capitale, siamo già trans-umani. Matrix non è futurologia. E’ parte della nostra realtà da un pezzo ormai! E’ un eccellente documentario della nostra era o, per essere più precisi, della tendenza della nostra era a cancellare dal lavoro umano tutte quelle caratteristiche che gli impediscono di diventare interamente flessibile, perfettamente quantificato, infinitamente divisibile. Quanto a Marx il suo ruolo è stato di fornirci l’opzione della ‘pillola rossa’ [6], una possibilità di guardare in faccia, senza le rassicuranti illusioni dell’ideologia borghese, l’orribile realtà di un sistema che produce crisi e privazioni come qualcosa di naturale, per scelta, e certamente non per caso.
Leggete un qualsiasi manuale di gestione, un qualsiasi documento su qualche rivista sull’economia dell’istruzione, ogni documento proveniente dall’Unione Europea sull’addestramento, le scuole, le università, i programmi di promozione della produttività, la competitività, eccetera. Ciò che riconoscerete immediatamente è che stiamo già vivendo nella nostra versione di Matrix. I tentativi inesorabili del capitale di quantificare e usurpare il lavoro hanno infettato tutti quei documenti che sponsorizzano una società in cui le persone aspirano a diventare automi. Un’ideologia la cui estensione programmatica è la trasformazione del lavoro umano in una versione dell’energia termica che permette alle macchine un maggiore margine di funzionamento e di produzione di altre macchine che, tragicamente, mancano di qualsiasi capacità di generare … valore.
In questo senso la nostra Matrix può essere solo provvisoria, poiché quanto più si avvicina alla perfetta versione cinematografica, tanto più diviene probabile una crisi monumentale, con i valori che scendono sottoterra, con l’arrivo di una Grande Recessione e con l’ascesa delle macchine invertita quando gli investimenti in esse divengono negativi. Da questa prospettiva marxista, tornando di nuovo al film, il gruppo di esseri umani liberati nelle viscere della società delle macchine (che guida la risurrezione umana contro le macchine) simboleggia la resistenza umana a diventare capitale umano, l’irriducibile ostilità intrinseca contro la quantificazione che resta incorporata nei cuori e nelle menti anche di coloro che dedicano tutte le loro energie a cercare di diventare mercificati nell’interesse dei loro padroni. La deliziosa ironia in ciò è che la stessa ostilità che il capitale sta tentando di sradicare dal lavoro è quella che rende il lavoro capace di produrre valore e consente al capitale di accumularsi.
4. Che cosa ha fatto Marx per noi?
Paul Samuelson ha denigrato una volta Marx definendolo un ricardiano minore. Quasi ogni scuola di pensiero, compresi alcuni economisti progressisti, ama fingere che, anche se Marx è stato una figura possente, pochissimo, se non nulla, del suo contributo resta rilevante oggi. Mi si consenta di dissentire.
A parte l’aver colto il dramma di fondo della dinamica capitalista (si veda la sezione precedente), Marx mi ha dato gli strumenti per diventare immune dalla tossica propaganda dei nemici capitalista della vera libertà e razionalità. Ad esempio è facile soccombere all’idea che la ricchezza sia prodotta privatamente e poi se ne appropri , mediante la tassazione, uno stato semi-illegittimo, se non si è stati esposti prima all’argomento sorprendentemente pregnante di Marx che è vero esattamente il contrario: la ricchezza è prodotta collettivamente e poi è appropriata privatamente mediante le relazioni sociali di produzione e di diritti di proprietà che si basano, per la loro riproduzione, quasi esclusivamente su una falsa coscienza. Vale lo stesso per il concetto di ‘autonomia’ che echeggia così bene in questo nostro mondo post-moderno. Anch’essa è prodotta collettivamente, attraverso la dialettica del mutuo riconoscimento, e poi diventa proprietà privata. Se solo Marx fosse stato preso sul serio (sia, va detto, dai marxisti, sia dai suoi detrattori) si sarebbe evitata molta dell’aria fritta che si è accumulata negli anni negli annali degli studi culturali.
Phil Mirowski ha recentemente [7] sottolineato, in modo molto eloquente, il successo dei neoliberisti nel convincere un largo strato della popolazione che i mercati sono non soltanto mezzi utili, ma anche un fine inalienabile di per sé. Che mentre l’azione collettiva e le istituzioni pubbliche non sono mai capaci di “azzeccarci”, le operazioni non regolamentate di interessi privati decentrati generano una specie di provvidenza laica-cum-divina che è garantita produrre non solo i risultati giusti ma anche i desideri, il carattere e persino l’etica giusti. Il miglior esempio della grossolanità neoliberista è, ovviamente, il dibattito sul cambiamento climatico e su che cosa fare al riguardo. I neoliberisti si sono precipitati a sostenere che, se qualcosa va fatto, deve assumere la forma di un semi-mercato dei “difetti” (ad esempio un mercato di commercio delle emissioni) poiché solo i mercati “sanno” come dare appropriatamente un prezzo alle merci e agli scarti. Per capire sia perché tale soluzione di un semi-mercato è destinata a fallire e, cosa più importante, qual è la motivazione di ‘soluzioni’ simili, si può far molto peggio che acquisire familiarità con la logica dell’accumulazione del capitale delineata da Marx e adattata da Michal Kalecki a un mondo governato da oligopoli in rete tra loro.
Nel ventesimo secolo i due movimenti politici che ricercavano le proprie radici nelle riflessioni di Marx erano i partiti comunisti e quelli socialdemocratici. Entrambi, oltre ai propri errori (e, in verità, crimini) non seguirono, a loro danno, la guida di Marx in un aspetto cruciale: invece di abbracciare libertà e razionalità come loro grida di battaglia e concetti organizzativi, scelsero l’eguaglianza e la giustizia, lasciando la libertà in eredità ai neoliberisti. Marx fu cristallino: il problema con il capitalismo non è che è iniquo, bensì che è irrazionale, poiché condanna abitualmente intere generazioni a privazioni e disoccupazione e trasforma addirittura i capitalisti in automi mossi dall’ansia che sono, anche, resi schiavi delle macchine di cui si suppongono proprietari, vivendo nella paura permanente che, se non mercificheranno interamente i loro compagni umani perché servano più efficientemente all’accumulazione del capitale, cesseranno di essere capitalisti.
Così, se il capitalismo appare ingiusto è perché rende tutti schiavi in stile Matrix, lavoratori e capitalisti; spreca risorse umane e naturali; sforna infelicità, assenza di libertà e crisi dalla stessa ‘catena di montaggio’ che produce notevoli congegni e una ricchezza incalcolabile. Avendo mancato di articolare una critica del capitalismo in termini di libertà e razionalità, cosa che Marx riteneva essenziale, la socialdemocrazia e la Sinistra in generale hanno consentito ai neoliberisti si usurpare il mantello della libertà e di conseguire uno spettacolare trionfo nel contesto delle capacità e delle ideologie.
Restando al trionfo neoliberista, forse la sua dimensione più considerevole è quella che finita per essere nota come il ‘deficit di democrazia’. Fiumi di lacrime di coccodrillo sono stati versati sul declino delle nostre grandi democrazie nel corso degli ultimi tre decenni di finanziarizzazione e globalizzazione. Marx avrebbe riso forte e a lungo a quelli che sembrano sorpresi, o sconvolti, dal ‘deficit di democrazia’. Qual era il grande obiettivo dietro il liberalismo del diciannovesimo secolo? Era, come Marx non si stancò mai di segnalare, la separazione della sfera economica dalla sfera politica e confinare la politica alla seconda lasciando contemporaneamente la sfera economica al capitale. Quello che stiamo osservando oggi è lo splendido successo del liberismo nel conseguire questo obiettivo perseguito a lungo. Date un’occhiata al Sudafrica di oggi, più di due decenni dopo la liberazione di Nelson Mandela e dopo che la sfera politica, finalmente, ha abbracciato l’intera popolazione. Il dilemma dell’ANC era che, al fine di poter dominare la sfera politica doveva accettare l’impotenza nella sfera economica. E se pensate che non sia così, vi suggerisco di parlare con le dozzine di minatori abbattuti a colpi d’arma da fuoco, dopo che avevano osato chiedere un aumento dei salari, da guardie armate pagate dai loro datori di lavoro.
5. Perché eccentrico? Due errori imperdonabili di Marx
Avendo spiegato perché qualsiasi comprensione del nostro mondo sociale io possieda la devo in larga misura a Karl Marx, voglio adesso spiegare perché resto terribilmente arrabbiato nei suoi confronti. In altre parole esporrò perché io sono per scelta un marxista eccentrico, incoerente. Marx fece due errori spettacolari, uno di essi un errore di omissione, l’altro di commissione. Questi errori sono importanti oggi perché ostacolano l’efficacia della Sinistra nel contrastare la misantropia organizzata, specialmente in Europa.
Il primo errore di Marx, quello che suggerisco dovuto a omissione, fu l’essere insufficientemente dialettico, insufficientemente riflessivo. Non dedico sufficiente riflessione, e mantenne un prudente silenzio, all’impatto della sua teorizzazione sul mondo a proposito del quale stava formulando teorie. La sua teoria è discorsivamente eccezionalmente potente, e Marx ne aveva avvertito la potenza. Com’è che non mostrò alcuna preoccupazione che i suoi discepoli, persone con una comprensione di quelli idee potenti migliore di quella del lavoratore medio, potessero usare il potere donato loro, per mezzo delle idee di Marx, per abusare dei loro compagni, per costruire la propria base di potere, per conquistare posizioni di influenza, per approfittare di studenti impressionabili, eccetera?
Per offrire un secondo esempio, noi sappiamo che il successo della Rivoluzione Russa indusse il capitalismo, a tempo debito, a indietreggiare strategicamente e a concedere piani previdenziali e servizi sanitari nazionali, persino all’idea di costringere i ricchi a pagare perché masse di studenti poveri frequentassero college e università liberali progettate allo scopo. Al tempo stesso abbiamo anche visto come la rabbiosa ostilità nei confronti dell’Unione Sovietica, con una serie di invasioni come esempio principale, abbia scatenato paranoia tra i socialisti e abbia creato un clima di paura che si è dimostrato particolarmente fertile per figure come Joseph Stalin e Pol Pot. Marx non vide mai l’avvento di questo processo dialettico. Egli semplicemente non prese in considerazione la possibilità che la creazione di uno stato dei lavoratori avrebbe spinto il capitalismo a diventare più civilizzato mentre lo stato dei lavoratori sarebbe stato infettato dal virus del totalitarismo mentre l’ostilità del resto del mondo (capitalista) nei suoi confronti cresceva sempre più.
Il secondo errore di Marx, quello che ascrivo a commissione, è stato peggiore. E’ stato il suo supporre che la verità sul capitalismo sarebbe stata scoperta nella matematica dei suoi modelli (i cosiddetti ‘schemi di riproduzione’). Questo fu il peggior disservizio che Marx potesse causare al suo stesso sistema teorico. L’uomo che ci ha dotato della libertà umana come concetto economico di primo ordine, lo studioso che ha elevato l’indeterminazione radicale al suo giusto posto nell’economia politica, è stato la stessa persona che ha finito per giocherellare con modelli algebrici semplicistici, in cui le unità di lavoro erano, naturalmente, interamente quantificate, sperando, contro ogni speranza, di evincere da queste equazioni alcune intuizioni aggiuntive sul capitalismo. Dopo la sua morte, economisti marxisti hanno sprecato lunghe carriere nell’indulgere a un genere simile di meccanismo scolastico, finendo con quelli che una volta Nietzsche descrisse come “i pezzi di meccanismo che si sono guastati”. Interamente immersi in dibattiti irrilevanti sul problema della trasformazione e su che cosa fare in proposito, alla fine sono divenuti una specie quasi estinta, mentre il bisonte neoliberista schiacciava ogni dissenso sulla sua strada.
Come ha potuto essere così illuso Marx? Perché non ha riconosciuto che nessuna verità sul capitalismo può mai emergere da un modello matematico, per quando brillante possa essere il modellatore? Non aveva gli strumenti intellettuali per rendersi conto che la dinamica capitalista emerge da una parte non quantificabile del lavoro umano, cioè da una variabile che non può mai essere definita matematicamente? Naturalmente li aveva, visto che fu lui a forgiare tali strumenti! No, il motivo del suo errore è un po’ più sinistro: proprio come gli economisti grossolani contro i quali egli ammonì così brillantemente (e che continuano oggi a dominare le facoltà di economia) egli bramò il potere che la ‘prova’ matematica gli permetteva.
Se sono nel giusto, Marx sapeva che cosa stava facendo. Egli capiva, o aveva la capacità di capire, che una teoria onnicomprensiva del valore non può adattarsi a un modello matematico di un’economia capitalista dinamica in crescita. Egli fu, non ne dubito, consapevole che una teoria economica corretta doveva rispettare il detto di Hegel che “le regole dell’indeterminato sono esse stesse indeterminate”. In termini economici ciò significava riconoscere che il potere di mercato, e dunque la redditività, dei capitalisti non era necessariamente riconducibile alla loro capacità di ricavare lavoro dai loro dipendenti, che alcuni capitalisti possono ricavare di più da una data riserva di lavoro o da una data comunità di consumatori per ragioni che sono esterne alla sua teoria.
Ahimè, tale riconoscimento sarebbe stato equivalente ad accettare che le sue ‘leggi’ non erano immutabili. Egli avrebbe dovuto ammettere a voci in contrasto nel movimento sindacale che la sua teoria era indeterminata e, perciò, che le sue dichiarazioni non potevano essere corrette in modo unico e senza ambiguità. Che erano permanentemente provvisorie. Ma Marx avvertì l’irreprimibile urgenza di domare persone come Citizen Weston [9] che osavano preoccuparsi che un aumento del salario (ottenuto mediante scioperi) potesse dimostrarsi una vittoria di Pirro se conseguentemente i capitalisti avessero spinto al rialzo i prezzi. Invece di solo discutere con persone come Weston, Marx era deciso a dimostrare con precisione matematica che sbagliavano, che erano antiscientifiche, grossolane, immeritevoli di seria attenzione.
Ci sono stati momenti in cui Marx si rese conto, e confessò, di aver sbagliato sul lato del determinismo. Una volta passato al terzo volume del Capitale egli vide che, una complessità anche minima (ad esempio ammettere gradi diversi di intensità di capitale in settori diversi) faceva deragliare i suoi argomenti contro Weston. Ma egli era così dedito al proprio monopolio sulla verità che passò a rullo sopra il problema, in modo impressionante ma troppo rudemente, imponendo per decreto l’assioma che, alla fine, avrebbe confermato la sua ‘prova’ originale; quella con cui aveva manganellato in testa Citizen Weston. Strani sono i rituali della fatuità e tristi sono tali rituali quando vi ricorrono menti eccezionali, come Karl Marx e come un numero considerevole dei suoi discepoli del ventesimo secolo.
Questa ostinazione a volere la storia, o il modello, ‘completa’, ‘conclusa’, l’’ultima parola’, è qualcosa che non posso perdonare a Marx. Si è dimostrata, dopotutto, responsabile di una gran quantità di errori e, più significativamente, di autoritarismo. Errori e autoritarismo che sono largamente responsabili dell’attuale impotenza della Sinistra come forza del bene e come contrappeso agli insulti alla ragione e alla libertà cui sovrintende oggi il gruppo neoliberista.
6. L’idea radicale del signor Keynes
Keynes era nemico della Sinistra. Egli amava il sistema di classe che lo aveva sfornato, non voleva aver nulla a che fare (personalmente) con la marmaglia “al piano di sotto” e lavorò duramente e attentamente per farsi venire in mente idee che avrebbero consentito al capitalismo di sopravvivere a dispetto della sua stessa tendenza, potenzialmente, a spasimi agonici. Pensatore liberale borghese, dalla mente aperta e dallo spirito libero, Keynes aveva il dono raro di non tirarsi indietro da sfide ai suoi stessi presupposti. Nel mezzo della Grande Depressione fu molto felice di liberarsi della tradizione di Marshall che era la sua eredità. Avendo notato che la disoccupazione si aggravava tanto più quanto più cadevano i salari, e che gli investimenti si rifiutavano di crescere anche dopo un lungo periodo di tassi d’interesse a zero, era pronto a stracciare il ‘manuale’ e a riconsiderare i modi del capitalismo.
La sua revisione radicale doveva cominciare da qualche parte. Cominciò quando Keynes abbandonò i ranghi dei suoi pari facendo l’impensabile: rivisitando il diverbio tra David Ricardo e Thomas Malthus e schierandosi con l’ecclesiastico. In termini inequivocabili, nel mezzo della Grande Depressione, egli scrisse: “Se solo Malthus, invece di Ricardo, fosse stato l’asse d’origine da cui si è sviluppata l’economia del ventesimo secolo, quanto più ricco e più saggio sarebbe oggi il mondo!” [10]. Con questa dichiarazione provocatoria Keynes non stava adottando né la posizione di Malthus a favore dei redditieri aristocratici, né le sue idee teologiche sul potere redentivo della sofferenza [11]. Piuttosto, Keynes abbracciò lo scetticismo di Malthus riguardo (a) alla saggezza di ricercare una teoria del valore che fosse coerente con la complessità e con le dinamiche del capitalismo e (b) alla convinzione di Ricardo, successivamente ereditata da Marx, che una depressione persistente sia incompatibile con il capitalismo.
Perché Keynes non confluì alla posizione di Marx, che dopotutto fu il primo economista politico a spiegare le crisi come componenti della dinamica capitalistica? Perché la Grande Depressione non fu come gli altri declini, del genere spiegato così bene da Marx. Nel Capitale, volume 1, Marx ha spiegato la storia delle recessioni redentrici che si verificano a causa della duplice natura del lavoro e danno l’avvio a periodi di crescita gravidi del successivo declino che, a sua volta, genera la ripresa successiva, e così via. Comunque non c’era nulla di redentore nella Grande Depressione. Il crollo degli anni ’30 fu semplicemente ciò: un crollo che si comportò in modo molto simile a un equilibrio statico, uno stato dell’economia che sembrava perfettamente capace di perpetuarsi, con il testardo rifiuto della ripresa prevista di presentarsi all’orizzonte persino dopo la ripresa del tasso di profitto in reazione al collasso dei salari e dei tassi d’interesse.
La radice della ‘scoperta’ di Keynes a proposito del capitalismo fu duplice: (a) si trattava di un sistema intrinsecamente indeterminato che presentava quelli cui oggi gli economisti si riferiscono come a equilibri infiniti, alcuni dei quali coerenti con una disoccupazione di massa permanente, e (b) poteva cadere in uno di questi equilibri terribili in un batter d’occhio, imprevedibilmente, senza motivo, semplicemente perché un segmento considerevole dei capitalisti temeva che potesse farlo.
In parole povere, ciò significava che, quando alla predizione di declini e del loro superamento da parte delle forze del mercato, “che possiamo essere dannati se sappiamo qualcosa!”; che non abbiamo alcun modo di sapere che cosa farà domani il capitalismo anche se oggi sta diventando sempre più forte; che può benissimo sbattere il muso per terra e rifiutarsi di rialzarsi. Il concetto degli ‘spiriti animali’ di Keynes rappresentò un’idea profondamente radicale, cogliendo la radicale indeterminatezza sepolta all’interno dello stesso DNA del capitalismo. Un’idea inizialmente introdotta da Marx, con la sua analisi della natura dialettica del lavoro, ma poi, nel processo di stesura del Capitale, repressa al fine di consolidare i suoi teoremi come prove matematiche incontestabili. Di tutti i passaggi della Teoria Generale di Keynes, questa idea, della capricciosità autodistruttiva del capitalismo, è quella che dobbiamo recuperare e utilizzare per ri-radicalizzare oggi il marxismo.
7. La lezione della signora Thatcher per i radicali europei di oggi
Nel settembre del 1978, sei mesi o giù di lì prima della vittoria della Thatcher che cambiò per sempre la Gran Bretagna, mi trasferii in Inghilterra per frequentare l’università. Assistere alla disintegrazione del governo laburista sotto il peso del suo degenerato programma socialdemocratico mi indusse a un errore di primo ordine: a pensare che forse la vittoria della signora Thatcher sarebbe stata una cosa buona, impartendo alla classe operaia e media britanniche il breve e forte colpo necessario a rinvigorire la politica progressista, a dare alla Sinistra un’occasione per ripensare la propria posizione e creare un ordine del giorno nuovo e radicale per un nuovo genere di efficace politica progressista.
Persino mentre la disoccupazione raddoppiava e poi si triplicava sotto gli ‘interventi’ neoliberisti radicali della signora Thatcher io continuai a mantenere la speranza che Lenin avesse ragione: “Le cose devono peggiorare, prima di migliorare”. Mentre la vita si faceva più difficile, più abbrutita e, per molti, più breve, mi venne in testa che ero tragicamente in errore: le cose potevano peggiorare in eterno, senza migliorare mai. La speranza che il deterioramento dei beni pubblici, la riduzione della vita della maggioranza, la diffusione delle privazioni in ogni angolo del paese conducessero, automaticamente, a un rinascimento della Sinistra era semplicemente ciò: una speranza!
La realtà, tuttavia, era dolorosamente diversa. A ogni giro di vite della recessione, la Sinistra diventava più introversa, meno capace di produrre un programma progressista convincente e, contemporaneamente, la classe lavoratrice veniva divisa tra quelli che erano scaricati dalla società e quelli che erano cooptati nella mentalità neoliberista. L’idea che il deterioramento delle ‘condizioni oggettive’ avrebbe in qualche modo dato vita alle ‘condizioni soggettive’ da cui emergesse una nuova rivoluzione politica era del tutto fasulla. Tutto ciò che emergeva dal Thatcherismo erano trafficoni, finanziarizzazione estrema, trionfo dei centri commerciali sulla bottega d’angolo, feticizzazione della casa e … Tony Blair.
Invece di radicalizzare la società britannica, la recessione organizzata con tanta cura del governo della signora Thatcher, come parte della sua guerra al lavoro organizzato e alle istituzioni pubbliche della previdenza sociale e alla ridistribuzione che erano state create dopo la guerra, distrusse permanentemente l’idea stessa che trascendeva quello che il mercato decideva come il ‘giusto’ prezzo
La lezione che la signora Thatcher mi impartì con le brutte a proposito della capacità di una recessione duratura di minare la politica progressista e di radicare la misantropia nelle fibre della società è una lezione che porto con me nell’odierna crisi europea. E’, in effetti, il fattore più decisivo della mia posizione riguardo alla crisi dell’euro che ha occupato il mio tempo e il mio pensiero quasi esclusivamente negli ultimi anni. E’ il motivo per cui sono felice di confessare il peccato che mi è attribuito dai critici radicali della mia posizione ‘menscevica’ riguardo all’eurozona: il peccato di scegliere di non proporre programmi politici radicali che cerchino di sfruttare la crisi dell’euro come occasione di rovesciare il capitalismo europeo, di smantellare la terribile eurozona e di minare l’Unione Europea dei cartelli e dei banchieri bancarottieri.
Sì, mi piacerebbe proporre una simile agenda radicale. Ma, no, non sono pronto a commettere lo stesso errore due volte. Quale bene ci è venuto in Gran Bretagna nei primi anni ’80 dal promuovere un’agenda di cambiamento socialista che la società britannica disdegnava, buttandosi contemporaneamente a testa bassa nella trappola neoliberista della signora Thatcher? Precisamente nessuno. Che bene produrrà oggi sollecitare lo smantellamento dell’eurozona, della stessa Unione Europea, quando il capitalismo europeo sta facendo il massimo per minare l’eurozona, l’Unione Europea, di fatto sé stesso?
Un’uscita greca o portoghese o italiana dall’eurozona si svilupperà presto in una frammentazione del capitalismo europeo, producendo una regione gravemente recessiva a est del Reno e a nord delle Alpi, mentre il resto dell’Europa è stretto in una maligna stagflazione. Chi pensate si avvantaggerà da uno sviluppo simile? Una Sinistra progressista che sorgerà, come la Fenice, dalle ceneri delle istituzioni pubbliche dell’Europa? O i nazisti dell’Alba Dorata, i neofascisti assortiti, gli xenofobi e i maneggioni? Io non ho assolutamente alcun dubbio su chi dei due trarrà profitto dalla disintegrazione dell’eurozona. Quanto a me, io non sono pronto a soffiare un nuovo vento nelle vele di questa versione postmoderna degli anni ’30. Se ciò significa che siamo noi, i marxisti opportunamente eccentrici, che dobbiamo cercare di salvare il capitalismo europeo da sé stesso, così sia. Non per amore o apprezzamento del capitalismo europeo, dell’eurozona, di Bruxelles o della Banca Centrale Europea, ma semplicemente perché vogliamo minimizzare il costo umano non necessario di questa crisi, le innumerevoli vite le cui prospettive saranno ulteriormente represse senza vantaggi di alcun genere per le future generazioni di europei.
8. Conclusione: che cosa dovrebbero fare i marxisti?
Le élite dell’Europa si stanno comportando oggi come una compagnia di leader sfigati che non comprendono né la natura della crisi cui presiedono, né le implicazioni per il loro stesso destino, per non parlare del futuro della civiltà europea. Stanno scegliendo, atavicamente, di saccheggiare i capitali ridotti dei deboli e degli espropriati al fine di turare le voragini spalancate dei loro banchieri falliti, rifiutandosi di venire a patti con l’impossibilità di tale compito. Avendo creato un’unione monetaria che (A) ha cancellato tutti gli ammortizzatori di shock dalla macroeconomia dell’Europa e (B) ha garantito che, quando gli shock arrivano, saranno giganteschi, essi stanno oggi investendo nel negazionismo sperando, irrazionalmente, in qualche miracolo che gli dei potranno concedere a condizione che un numero sufficiente di vite umane sia sacrificato sull’altare dell’austerità competitiva.
Ogni volta che gli ufficiali giudiziari della troika visitano Atene, Dublino, Lisbona, Madrid, e ad ogni pronunciamento della Banca Centrale Europea sul prossimo giro di vite dell’austerità che va praticato a Parigi o a Roma, vengono in mente le parole di Berthold Brecht: “La forza bruta è fuori moda. Perché mandare in giro assassini a libro paga, quando sono sufficienti gli ufficiali giudiziari?” La domanda è: chi si opporrà loro?
Sempre consapevole della colpa collettiva della Sinistra per il feudalesimo industriale al quale abbiamo condannato milioni di persone per decenni nel nome della … politica progressista, io tuttavia formulo un parallelo tra l’Unione Sovietica e l’Unione Europea. Nonostante le loro grandi differenze, hanno realmente in comune una cosa: l’uniforme ‘linea del partito’ che corre invisibile dal vertice (Politburo o Commissione) alla vera e propria base (ogni ministro minore di ogni stato membro, o l’ultimo dei commissari, a pappagallare le stesse futilità). Gli apparatcik sia sovietici sia della UE condividono una determinazione da setta cristiana a riconoscere i fatti solo quando sono coerenti con le profezie e i loro sacri testi. Olli Rehn, ad esempio, che è commissario dell’Unione Europea con la responsabilità degli affari economici e finanziari ha avuto recentemente l’audacia di accusare il Fondo Monetario Internazionale per aver rivelato errori nel calcolo dei moltiplicatori fiscali dell’eurozona perché tale rivelazione “… ha compromesso la fiducia del popolo europeo nelle proprie istituzioni”. Nemmeno Leonid Brezhnev avrebbe osato fare una simile dichiarazione pubblica!
Con le élite dell’Europa profondamente allo sbando, negazioniste e con le teste sepolte come ostriche nella sabbia, la Sinistra deve ammettere che semplicemente non siamo pronti a colmare il baratro che aprirà un capitalismo europeo al collasso con un sistema socialista funzionante, capace di generare una prosperità condivisa per le masse. Il nostro compito dovrebbe allora essere duplice: proporre un’analisi dell’attuale stato delle cose che europei non marxisti, benintenzionati, sedotti dalle sirene del neoliberismo, trovino profondo. E dar seguito a tale analisi solida con proposte di stabilizzazione dell’Europa, per por fine alla spirale verso il basso che, alla fine, rafforza solo i fanatici e incuba l’uovo del serpente. Ironicamente, quelli di noi che aborriscono l’eurozona, hanno il dovere morale di salvarla!
Questo è ciò che abbiamo cercato di fare con la nostra Modesta Proposta [12]. Rivolgendoci a diversi uditori che vanno dagli attivisti radicali ai gestori di fondi speculativi, l’idea è di forgiare alleanze strategiche anche con quelli di destra con i quali condividiamo un semplice interesse: l’interesse a fermare il circolo vizioso di retroazione negativa tra austerità e crisi, […] un effetto di retroazione negativa che mina sia il capitalismo sia qualsiasi programma progressista per sostituirlo. E’ così che difendo i miei tentativi di arruolare alla causa della Modesta Proposta persone quali i giornalisti di Bloomberg e del New York Times, i membri Conservatori del Parlamento, i finanziari che sono preoccupati per la difficile situazione dell’Europa.
Il lettore mi consentirà di concludere con due confessioni finali. Mentre sono felice di difendere come sinceramente radicale il perseguimento di un’agenda modesta di stabilizzazione di un sistema che detesto, non fingerà di esserne entusiasta. Questo può essere ciò che dobbiamo fare, nella situazione attuale, ma mi rattrista che probabilmente non sarò in circolazione per vedere un’agenda più radicale adottata sensatamente. Infine, una confessione di natura fortemente personale: sono consapevole di correre il rischio di ridurre, furtivamente, la tristezza dell’abbandono di ogni speranza di sostituire il capitalismo mentre sono ancora in vita, indulgendo in una sensazione di essere divenuto più ‘gradevole’ ai circoli della ‘società educata’. Il senso di soddisfazione personale dell’essere onorato dai grandi e potenti ha cominciato, occasionalmente, a insinuarsi in me. E che sensazione non radicale, orribile, corruttiva e corrosiva è stata!
Il mio punto più basso si è verificato in un aeroporto. Un certo canale danaroso mi aveva invitato a fare una presentazione sulla crisi europea e aveva sborsato la grottesca somma necessaria a comprarmi un biglietto di prima classe. Di ritorno a casa, stanco e già con numerosi voli sulle spalle, mi stavo facendo strada superando la lunga coda di passeggeri di classe economica per arrivare al mio cancello. Improvvisamente mi sono reso conto, con considerevole orrore, di quanto fosse facile per la mia mente lasciarsi infettare da quella sensazione di ‘aver diritto’ a superare gli hoi polloi. Mi sono reso conto di quanto prontamente potevo dimenticare ciò che la mia mente di sinistra sapeva da sempre: che nulla ha maggior successo nel riprodursi che una falsa sensazione di diritto. Forgiare alleanze con forze reazionarie, come penso dovremmo fare per stabilizzare oggi l’Europa, ci espone al pericolo di diventare cooptati, di perdere il nostro radicalismo a causa della calda luce dell’essere ‘arrivati’ nei corridoi del potere.
Le confessioni radicali, come quella che ho tentato di buttar giù qui, sono forse il solo antidoto programmatico alle scivolate ideologiche che minacciano di trasformarci in ingranaggi della macchina. Se dobbiamo firmare patti con il diavolo (ad esempio con il FMI, con i neoliberisti che, comunque, si oppongono a quello che io chiamo ‘il potere dei bancarottieri’, eccetera), dobbiamo evitare di diventare come i socialisti che non sono riusciti a cambiare il mondo ma sono riusciti a migliore … le proprie condizioni personali. Il trucco sta nell’evitare il massimalismo rivoluzionario che, alla fine, aiuta i neoliberisti ad aggirare ogni opposizione alla loro malignità autodistruttiva, e conservare la visione dell’intrinseca malignità del capitalismo pur mentre cerchiamo di salvarlo, per fini strategici, da sé stesso. Le confessioni radicali possono essere utili nel raggiungere questo difficile equilibrio. Dopotutto, l’umanesimo marxista è una lotta costante contro ciò che stiamo diventando.
NOTE
[1] Questo documento si basa su un discorso d’apertura dell’autore tenuto il 14 maggio 2013 al Sesto Festival Sovversivo di Zagabria, intitolato “Confessioni di un marxista eccentrico”. Per un video del discorso cliccare qui.
[2] Per esempi della ricerca conseguente, vedere Varoufakis (2013) e Varoufakis, Halevi e Theocarakis (2001).
[3] Vedere Karl Marx (1844-1969) Manoscritti Economici e Filosofici.
[4] Marx in “Lavoro salariato e capitale”, originariamente pubblicato sul Neue Rheinische Zeitung, 5-8 e 11 aprile 1849 [diffuso come conferenze nel 1847] Rivisto con un’introduzione di Friedrich Engels nel 1891. Tradotto da Harriet E. Lothrop, New York; Labor New Company, 1902.
[5] Vedere Karl Marx (1844-1969) Manoscritti Economici e Filosofici.
[6] Verso l’inizio di Matrix un guerrigliero urbano che aveva aiutato il nostro Thomas Anderson, alias Neo, a sfuggire ad ‘agenti’ in borghese, gli offre una cruda scelta tra due pillole. Se prenderà la pillola blu, sarà riportato al suo letto e si sveglierà al mattino pensando che tutta la faccenda era stata un incubo e poi riprenderà la sua vita ‘normale’. Se tuttavia sceglierà la pillola rossa apprenderà la verità sulla sua vita e sulla società. In un trionfo di curiosità avventata rispetto all’esca di piaceri semplici, Neo rinuncia alla prospettiva della beata ignoranza offerta dalla pillola blu, scegliendo invece la crudele realtà promessa da quella rossa.
[7] Vedere Mirowski (2013)
[8] Per altro su questo argomento vedere Varoufakis (1991) e Varoufakis (1998)
[9] Vedere Marx, Salari, Prezzi e Profitto, in cui il dibattito di Marx con Citizen Weston è narrato dallo stesso Marx.
[10] Vedere il suo saggio su Malthus, “Robert Malthus, il primo degli economisti di Cambridge”, scritto nel 1933, in ‘L’opera completa di John Maynard Keynes, Vol. X: Saggi di biografia’, London, Macmillan. La citazione appare alle pagg. 100-1. Pubblicato in origine di ‘Saggi di biografia’, 1933.
[11] Malthus conquistò la propria fama pronosticando che la crescita della popolazione avrebbe superato le risorse della terra, nonostante i nostri sforzi migliori, e che perciò la carestia era un essenziale meccanismo ‘equilibratore’. Come uomo della tonaca, egli spiegò ciò come parte del disegno di Dio: la sofferenza delle masse, le pance gonfie dei bambini deliranti e i volti esausti della madri in lutto erano un’occasione offerta da Dio perché gli esseri umani abbracciassero il bene e combattessero il male.
[12] Vedere Y. Varoufakis, S. Holland e J.K.Galbraith (2013) A Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis, Version 4.0.
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Yanis Varoufakis
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2015 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
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Savino a.
Mi sembra un delirio di onnipotenza, la nuova destra?
salvare il capitalismo da se stesso?
Il liberismo? Cosa è una politica o un modo di essere del capitalismo post moderno?
insomma, il tizio si ammantella di pop marxismo ma mi sembra uno neo keynesiano di vecchia stirpe.