Il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership, trattato transatlantico di libero commercio e investimento) è il più gigantesco tentativo mai messo in atto di costruire un “mercato unico” che coprirebbe oltre la metà degli scambi globali. Naturalmente, è anche un tentativo di integrazione politica, perché interessi economici convergenti pretendono un sistema di gestione, regolazione, rappresentanza altrettanto vonvergente.
Il solo fatto che sia in discussione è visto, a sinistra ma non solo, come una prova che l’imperialismo Usa sta ciucciandosi l’Unione Europea, smontandone le pretese imperialistiche autonome. Da parte statunitense è sicuramente così, ma i problemi sono un tantino più complicati, quando si parla di interessi economici giganteschi. L’Unione Europea presenta certamente due buchi enormi per qualunque frmazione con ambizioni imperialistiche: non ha autonomia energetica e non possiede una forza militare integrata all’altezza dei concorrenti (Usa e Russia, in primo luogo). Ma resta il principale mercato capitalistico, sia per popolazione che per ricchiezza prodotta.
Circola in questi giorni – sui media più informati, come quello di Confindustria – molto scetticismo sulla possibilità che il Ttip possa vedere la conclusione delle trattative entro la data fissata (il primo semestre del 2015). Stiamo parlando di una trattato condotto in quasi assoluta segretezza, fuori da qualsiasi controllo “democratico”. Ma comunque qualcosa, dagli addetti ai lavori, trapela.
I problemi sarebbe du tre ordini: a) barriere tariffarie vere e proprie (dazi doganali, che penalizzano attualmente merci e servizi tra i due lati dell’oceano Atlantico, in modo generalmente simmetrico); b) barriere “non tariffarie”, ovvero normative e regolamenti adottati dai diversi paesi; c) meccanismi di risoluzione delle controversie. Quasi tutto insomma.
Il primo ordine di problemi è in genere risolvibile, se c’è l’accordo politico, perché si traduce in un graduale – simmetrico e paritario – decremento dei dazi doganali, fino ad arrivare al completo azzeramento.
Il secondo è già molto più complesso, perché investe quadri legislativi anche molto ramificati, che vanno dalle normative sull’origine degli alimenti, l’uso o il divieto degli ogm, normative sul mercato del lavoro, ecc. Spesso queste “barriere” sono state create per non essere accusati di fare il solito tipo di “protezionismo” (dazi), pur raggiungendo il medesimo risultato (impedire l’ingresso di determinate merci).
Il terzo ordine di problemi è quello più “politico” di tutti, perché delinea i poteri degli stati e quelli delle imprese. Gli scanbi, infatti, non avvengono quasi mai frra gli stati in quanto tali, ma fra imprese “basate” in stati differenti. Teoricamente ogni impresa è libera di vendere e comprare quel che vuole, o di investire in un altro paese, ma rispettando le normative esistenti nel paese di origine e in quello di “arrivo”. Cosa accade qaundo una impresa si vede respingere da uno Stato il permesso di operare liberamente nel suo territorio? Chi decide chi ha ragione?
Il trattato da poco concluso tra Unione Europea e Canada è generalmente interpretato come un test “limitato” per vedere se il Ttip tra Ue e Usa può funzionare. Ovvero come un “precedente che fa scuola”, viste anche le numerose somiglianze tra il quadro legisltivo canadese e quello statunitense.
Bene. Questo trattato affida la regolazione delle controversie a “corti arbitrali”. Non si tratta ovviamente di tribunali, perché ogni stato ha le sue leggi e i suoi magistrati. Né sembra percorribile la via tracciata da quel giudice statunitense che voleva obbligare l’Argentina e rifondere per intero l’importo dei tango bond soltanto alle banche statunitensi che non avevano accettato la “rinegoziazione del debito”; insomma, nessuno stato europeo potrebbe accettare sentenze si un giudice statunitense o viceversa (come sappiamo bene qui in Italia, tra piloti stragisti – il Cermis… – e agenti segreti Usa impunibili – il sequestro di Abu Omar, le stragi degli anni ’70, ecc).
Le “corti arbitrali” di cui si parla sarebbero dunque composte di “personalità” scelte di comune accordo tra paesi, pescando in quel “personale della globalizzazione” selezionato negli ultimi 40 anni: ex commissari europei, ex banchieri, ex qualcosa. Tribunali privati, a tutti gli effetti, ma col potere di “sanzionare” uno Stato sovrano in caso di conflitto “legale” (nei termini di un trattato) con un’impresa multinazionale. Zero “sovranità”, insomma, specie nel caso – non impossibile – che soggetto della controversia possa essere la stessa Unione Europea, anziché un singolo stato nazionale (la cui sovranità è già in buona parte devoluta all’Unione). E tutto il potere all’impresa che meglio riecse a “mazzettare” i membri di queste presunte “corti”.
Si potrebbe pensare che le resiste, in casa europea, siano venute da paesi già in difficoltà, da qualche piigs con problemi di export o geloso delle residue prerogative di cui dispone. No. A tuonarte sull’applicabilità di un simile dispositivo “giurisdizionale” è stato il viceprimo ministro della Germania, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, che ha fatto mostra di preoccuparsi dell’eventuale “pressione sui governi” perché disattendano le proprie regolamentazioni nazinali in tema di ambiente e mercato del lavoro. Singolare, vero?
Non molto invece. La Germania pretende di guidare il rovesciamento del “modello sociale europeo”, imponendo quell'”austerità” che fin qui le ha permesso di ridisegnare le filiere produttive continentali a tutto vantaggio delle imprese – multinazionali e non – di casa propria. Conosce quindi perfettamente il potere devastante di una “regolazione esterna” capace di piegare la volontà di un governo – o addirittura di un’intero continente – agli interessi di una singola multinazionale.
Naturalmente il buon Gabriel non difende affatto né l’ambiente né le normative sul lavoro: ha presenti gli interessi tedeschi e pretende che siano salvaguardati nei confronti delle eventuali pretese di multinazinali Usa.
Questo contrasto rischia di far riaprire tutto il negoziato con il Canada, ma ha inevitabili ricadute sulla tempistica della discussine interna al Ttip. Chi è che decide chi deve perdere. Non è una questione di lana caprina, no? Se il problema non venisse sollevato si potrebbe certamente parlare di imperialismo Usa che fagocita il vecchio continente. Se viene sollevato, evidentemente, ci sono ambizioni (e necessità, interessi materiali cogenti) imperialistiche “europee”. Il cui cuore è, in tutta evidenza, tedesco.
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