Il documento alla base della discussione per il convegno di sabato 30 maggio a Roma: “Resistere alla nato”, organizzato dalle reti Noi saremo tutto e Noi restiamo. Il convegno si terrà sabato alle 15.00 alla ex Snia.
La guerra è alle porte di casa. Conflitti più o meno dichiarati circondano “l ‘Europa della pace e della democrazia” come ci viene raccontata. Succede poi che, all’improvviso, la guerra irrompa anche nelle nostre città sotto diverse forme. Dai lupi solitari della Guerra Santa ai massicci provvedimenti contro le lotte sociali e politiche , il conflitto, la guerra asimmetrica più o meno armata rimane l’unica forma utilizzabile per normalizzare la propria cittadella imperialista e per tentare uscire dalla crisi strutturale da cui il capitalismo non può uscire se non con una massiccia distruzione di capitale in eccesso, ottenibile solo con un conflitto dichiarato.
Molto è stato scritto e dibattuto sulla natura della crisi e le sue possibili conseguenze, compreso l’utilizzo della guerra come unica via di uscita possibile. Crediamo che, però, l’analisi degli strumenti di cui dispone oggi il capitalismo occidentale, statunitense ed europeo in particolar modo, sia all’oggi arretrata e insufficiente. Constatando una sempre crescente tendenza alla guerra generale crediamo sia fondamentale analizzare la struttura della Nato oggi per capire quali sono state le trasformazioni interne all’Alleanza Atlantica e quali sono le prospettive e le tendenze di sviluppo di una struttura che in questi ultimi 20 anni ha subito un forte crisi di funzione. Considerando l’arretratezza del dibattito del movimento attorno al tema della guerra e delle sue forme attuali, dimostrata in tutte le posizione espresse in occasione dello scoppio degli ultimi conflitti, prima di entrare nel merito della questione Nato è a nostro avviso necessario dipanare ogni dubbio in merito alla categoria di Imperialismo, ricollocandola all’interno del processo di sviluppo capitalistico, e non solo come una generale militarizzazione del conflitto. Partiremo dunque dall’analisi dell’imperialismo come categoria e come espressione nel presente per poi cercare di comprendere la nuova funzione politico militare della Nato.
Costituita per “tenere fuori i Russi e sotto i tedeschi” oggi, in seguito alle trasformazioni intervenute con l’imporsi della cosiddetta era globale, non può che ripensare complessivamente la sua funzione. Il primo aspetto che, per tanto, occorre porre al centro dell’analisi è la dimensione strutturale concreta che caratterizza l’attuale fase imperialista. Si tratta, cioè, di evidenziare le differenze delle diverse fasi imperialiste ponendone in primo piano le principali contraddizioni. Per quanto le suggestioni degli scenari del 1914 possano funzionare sotto il profilo della metafora sarebbe stolto e al contempo ingenuo considerarle qualche cosa di più. I richiami al 1914, semmai, hanno molto più a vedere con l’instabilità politica internazionale, frutto , oggi, della decadenza statunitense e della conseguente perdita di egemonia all’interno del sistema – mondo (e della lotta mortale per la sua successione), che non con le basi strutturali entro le quali quella crisi si è data. Ciò che a noi sembra necessario è definire per prima cosa e con la massima precisione possibile i tratti della fase imperialista attuale e i suoi elementi di crisi strutturali e, in seconda battuta, gli effetti geopolitici che la crisi sta evidenziando. Si tratta di due poli, il politico e l’economico, che non possono essere né tenuti separati né, tanto meno, osservati con il semplicismo proprio del rapporto causa ed effetto. In realtà si tratta di due aspetti continuamente intrecciati tra loro, che non possono far altro che influenzarsi vicendevolmente. Se la crisi è la condizione indispensabile perché la tendenza alla guerra prenda forma, i modi in cui questa si concretizza hanno ben poco di determinato e predefinito. Perché il conflitto possa deflagrare occorre certamente un dato strutturale obiettivo tuttavia, il modo in cui ciò si fa concretezza storica, è un modello di soggettività politica che indirizza le cose in un modo piuttosto che in un altro. Se, tanto per fare un esempio ampiamente noto, l’esercito francese avesse risposto militarmente all’occupazione della Ruhr, certamente il secondo conflitto mondiale avrebbe preso una piega diversa. Pertanto, se occorre comprendere, studiare e analizzare i dati strutturali di una determinata fase imperialista, altrettanto fondamentale è addentrarsi negli arcani politici e militari di una determinata fase storica. Alla messa a fuoco di questa cornice intendiamo dedicare l’ouverture del Convegno.
La NATO, costituitasi prima del Patto di Varsavia, è sopravvissuta a tutto il resto del lungo “secolo breve”, e oltre. E’ dunque evidente che, nel mondo contemporaneo e futuro, la NATO si attribuisce un ruolo anche inedito, che nulla ha a che fare con il vecchio equilibrio bipolare, e si proietta su scenari extraeuropei attraverso modalità prima impensabili.
Tuttavia, la sua presenza e influenza in Europa rimane di primaria importanza. Va innanzitutto rimarcato come i paesi fondatori della NATO abbiano violato in questi anni gli accordi sulla base dei quali l’ex URSS di Gorbaciov aveva acconsentito alla unificazione tedesca: era stato stabilito che la NATO non si allargasse né in Germania Est né negli altri paesi ex-socialisti e non installasse basi militari verso est provocando una serie di nuove tensioni con il grande vicino d’Europa La NATO, dopo il 1990, si è gradualmente estesa verso oriente inglobando nuovi Stati, talvolta dopo averli smembrati (Jugoslavia) o comunque dopo avere imposto classi dirigenti e regimi di suo gradimento, una pratica molto simile al neocolonialismo del FMI in Asia e in Africa negli anni ’70 e ’80. Usando le formule del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e della «Partnership per la pace», o anche attraverso la collaborazione in missioni militari (aggressioni e occupazioni neocoloniali) con paesi terzi, la NATO ha imposto il proprio controllo su territori e governi fino ai confini della Federazione Russa. L’atteggiamento dei diversi partner della Nato è stato però notoriamente diverso. Se il conflitto in Jugoslavia ha visto un deciso interventismo militare da parte anche degli stati membri Europei, ciò che in questi mesi sta avvenendo in Ucraina ci dimostra come l’atteggiamento degli stati facenti parte della Nato e dell’Unione europea sia ben più cauto nei confronti della Russia di quello americano. Consci che la Russia non è un granello di senape negli attuali equilibri politico militari mondiali, e che comunque è uno dei primi partner commerciali dell’economia continentale, i paesi Ue hanno dovuto mediare e rallentare la tendenza al conflitto aperto con il grande vicino pur avendo innescato le ostilità sostenendo apertamente il colpo di stato di piazza Maidan. . Questo conflitto, che l’implosione dell’URSS sembrava aver reso superfluo, oggi, attraverso le vicende Ucraine, si ripropone in tutta la sua attualità così come, la “questione siriana”, mostra quanto il confronto tra ovest ed est non per forza in senso geografico, una volta implosa l’URSS, non si sia sopito più di tanto. Per altro verso tutto ciò mostra come, per i blocchi imperialisti, sia impossibile convivere con Paesi non disposti a sottostare costantemente ai diktat dello sviluppo occidentale, svendendo le proprie risorse e rinunciando alla propria sovranità nazionale così come ad un autonomo sviluppo delle borghesie nazionali. Ne è prova la crescente conflittualità tra un polo islamico in definizione, che si sta inserendo nello scontro tra Russia, Usa e Ue per il controllo del Grande Mediterraneo capeggiato da uno dei principali partner della Nato, la Turchia.
Questo polo sta tra l’altro accelerando anche sul piano dell’indipendenza e dell’autosufficienza militare, come è possibile osservare nei recenti sviluppi della situazione in Siria ed in Libia. In merito a queste ultime due, notiamo come – tenendo comunque ben presenti le specificità politiche, sociali e militari dei due paesi – vi siano alcuni elementi di un paradigma che si ripetono: il fiorire di “rivoluzioni colorate” contro la “canaglia” di turno (Bashar al-As’ad e Muhammar Gheddafi), velocemente tramutatesi in aperti scontri di piazza; le successive “guerre umanitarie”, frutto dell’interventismo targato USA e UE che, in nome della protezione della popolazione civile, ha lasciato largo spazio all’iniziativa personale di alcuni paesi (paradigmatico il ruolo della Francia); infine, oggi, un nuovo emergere delle crisi dato anche dalla presenza di un “nuovo” attore, lo Stato Islamico. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dunque, sta fungendo da catalizzatore delle grandi potenze che si dicono pronte (ora sì) a combattere unitariamente il nuovo nemico numero uno, che sino ad ora dimostra una portata di destabilizzazione esorbitante del quadrante geopolitico mediorientale e mediterraneo. Diventa in questo caso cruciale la questione delle alleanze, dove inoltre, per gli stati occidentali sul filo di un precario equilibrio di potenza, la distinzione tra il tattico e lo strategico diviene rarefatta e confusa. È evidente che l’appoggio ai “ribelli” servisse come testa di ponte per la caduta degli assi di resistenza siriano e libico, ed è altrettanto evidente oggi come gli alleati di ieri possano risultare nuovi focolai di problemi: basti pensare al caso dei foreign fighters in Siria piuttosto che l’appoggio di Fajr Libia o Ansar al-Sharia all’avanzata dell’ISIS in Libia. Con elementi simili (“rivoluzione colorata”, scontro militare accelerato) ma tutt’altra situazione quella ucraina, dove tuttavia anche qui l’appoggio forte ed incondizionato alle milizie neonaziste per stroncare la resistenza nel Donbass suggerisce una chiave di lettura sulle scelte di campo di Stati Uniti ed Unione Europea.
Una situazione dunque che vede molti attori in gioco, e in cui molto spesso la Nato risulta l’unica struttura a mantenere i rapporti tra gli storici alleati delle due sponde dell’atlantico. Vanno quindi evidenziate le situazioni concrete di conflitto, in primis quelle ucraine e siriane, ma anche le crescenti tensioni nel golfo di Guinea e in tutto il nord Africa, dove proprio in questi giorni sta riesplodendo la vicenda libica e le alleanze che, volta per volta, l’imperialismo coltiva sia con le forze neonaziste, sia con quelle cosiddette fondamentaliste e, al contempo, in primo piano a mostrata anche la capacità e la volontà di resistenza delle popolazioni poste, volta per volta, sotto scacco dall’imperialismo. Così come vanno analizzati tutti gli accordi e le mosse non di carattere prettamente militare ma che rispondono perfettamente alle caratteristiche della guerra asimmetrica a partire dal trattato di partnership transpacifica, il famoso TTIP che tenta di costruire una zona di libero mercato tra quasi tutti i Paesi dell’area, Cina esclusa, e che rappresenta una strategia di accerchiamento (oggi economico, domani militare) della Cina e dei Brics da parte degli USA e dell UE. Esso infatti sancisce la fine della globalizzazione perché registra il fallimento dei trattati multilaterali e punta sui trattati bilaterali, ossia sulla costruzione di poli economici ad egemonia occidentale che, mentre liberalizzano gli scambi al proprio interno, ostacolano i flussi provenienti dall’esterno, ossia dai Brics, che rispondono a livello internazionali con una sempre crescente relazione tra di loro, come dimostra l’allargamento degli accordi del gruppo di Shangai.
Lo sviluppo della forza militare NATO
Stiamo assistendo ad un progressiva re-nuclearizzazione dell’Europa attraverso il potenziamento Usa delle armi mantenute in Germania, Italia, Belgio, Olanda e Turchia. Sono circa 200 bombe B-61, che si aggiungono alle oltre 500 testate nucleari francesi e britanniche pronte al lancio. Secondo una stima al ribasso, in Italia ve ne sono 70-90, stoccate ad Aviano e Ghedi-Torre. Ma ce ne potrebbero essere di più, anche in altri siti. Tanto meno si conosce quante armi nucleari sono a bordo delle unità della Sesta flotta e altre navi da guerra che approdano nei nostri porti. Quello che ufficialmente si sa è che ora le B-61 vengono trasformate da bombe a caduta libera in bombe «intelligenti» che, grazie a un sistema di guida satellitare e laser, potranno essere sganciate a grande distanza dall’obiettivo. Le nuove bombe nucleari B61-12 a guida di precisione, il cui costo è previsto in 8-12 miliardi di dollari per 400-500 bombe, avranno una potenza media di 50 kiloton (circa quattro volte la bomba di Hiroshima). >>
Quella che arriverà tra non molto in Italia e in altri paesi europei, non è dunque una semplice versione ammodernata della B-61, ma un’arma polivalente che svolgerà la funzione di più bombe, comprese quelle progettate per «decapitare» il paese nemico, distruggendo i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee in un first strike nucleare. Poiché le bombe anti-bunker non sono oggi schierate in Europa, l’introduzione della B61-12, che svolge anche la loro funzione, potenzia la capacità offensiva delle forze nucleari Usa/Nato in Europa.
I piloti italiani – che vengono addestrati all’uso delle B-61 con i caccia Tornado, come è stato fatto nell’esercitazione «Steadfast Noon» svoltasi ad Aviano e Ghedi, saranno tra non molto addestrati all’attacco nucleare con gli F-35 armati con le B61-12. In tal modo l’Italia viola il Trattato di non-proliferazione che la impegna a «non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi direttamente o indirettamente». (…)
Questi adeguamenti militari rispondono all’unico obiettivo di circondare militarmente i possibili avversari a partire dalla Russia, garantendo nel contempo un ruolo alla Nato interno all’ Unione Europea, che in linea di tendenza mira allo sviluppo di una propria autonoma capacità di intervento anche sul terreno militare.
Da questo punto di vista l’operazione Nato in Ucraina può essere presa ad esempio concreto delle attuali modalità operative dell’alleanza atlantica.
<< L’operazione condotta dalla Nato in Ucraina inizia quando nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica di cui essa faceva parte. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica. L’Ucraina – il cui territorio di oltre 600mila km2 fa da cuscinetto tra Nato e Russia ed è attraversato dai corridoi energetici tra Russia e Ue – non entra nella Nato, come hanno fatto altri paesi dell’ex Urss ed ex Patto di Varsavia. Entra però a far parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, della «Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» nei Balcani.
Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione Nato-Ucraina» e il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla Nato. Nel 2005, sulla scia della «rivoluzione arancione» (orchestrata e finanziata agli Usa e dalle potenze europee), il presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato a Bruxelles. Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della Nato» e nel 2008 il summit di Bucarest dà luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un accordo che permette il transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le forze Nato in Afghanistan. Ormai l’adesione alla Nato sembra certa ma, nel 2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur continuando la cooperazione, l’adesione alla Nato non è nell’agenda del suo governo.
Nel frattempo però la Nato tesse una rete di legami all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano per anni a corsi del Nato Defense College a Roma e a Oberammergau (Germania), su temi riguardanti l’integrazione delle forze armate ucraine con quelle Nato. Nello stesso quadro si inserisce l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina, di una nuova «facoltà multinazionale» con docenti Nato. Notevolmente sviluppata anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la partecipazione delle forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida Nato.
Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di informazioni sul ruolo e gli scopi dell’Alleanza e conservano nella propria mente sorpassati stereotipi della guerra fredda», la Nato istituisce a Kiev un Centro di informazione che organizza incontri e seminari e anche visite di «rappresentanti della società civile» al quartier generale di Bruxelles. E poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la Nato costruisce una rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di quella che appare.
Sotto regia Usa/Nato, attraverso la Cia e altri servizi segreti vengono per anni reclutati, finanziati, addestrati e armati militanti neonazisti. Una documentazione fotografica mostra giovani militanti neonazisti ucraini di Uno-Unso addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori Nato, che insegnano loro tecniche di combattimento urbano ed uso di esplosivi per sabotaggi e attentati. Lo stesso fece la Nato durante la guerra fredda per formare la struttura paramilitare segreta di tipo «stay-behind», col nome in codice «Gladio» attiva anche in Italia, dove, a Camp Darby e in altre basi, vennero addestrati gruppi neofascisti preparandoli ad attentati e a un eventuale colpo di stato.
È questa struttura paramilitare che entra in azione a piazza Maidan, trasformandola in campo di battaglia: mentre gruppi armati danno l’assalto ai palazzi di governo, «ignoti» cecchini sparano con gli stessi fucili di precisione sia sui dimostranti che sui poliziotti (quasi tutti colpiti alla testa). Il 20 febbraio 2014 il segretario generale della Nato si rivolge, con tono di comando, alle forze armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali», pena «gravi conseguenze negative per le nostre relazioni». >> Il resto è cronaca di questi giorni.
In Europa si verifica la sovrapposizione-combinazione di iniziative militari sotto veste NATO ed altre direttamente targate USA; oltre, ovviamente, alle iniziative e apparati bellici degli Stati europei che agiscono unilateralmente o in alleanza tra loro. Mentre la UE cerca formule per creare proprie autonome strutture militari, gli USA le “offrono” di certo, non in maniera disinteressata sostegno nella “vecchia” veste della NATO. L’adesione alla NATO è considerata come un viatico, un lasciapassare per poter accedere alla UE. La crisi ucraina è formalmente scoppiata a causa dell’adesione del paese alla UE, ma gli USA hanno usato questa “sovrastruttura ideologica” per imporre la presenza NATO e condizionare il rapporto UE-Russia. La NATO si pone in questi casi come “avvocato” o “braccio armato” della Ue e degli Stati Uniti. Esiste dunque una sovrapposizione di ruoli e interessi tra USA, NATO, UE e suoi paesi membri in particolare la Germania.
L’Europa << è importante per gli Usa geograficamente, chiarisce il Comandante supremo alleato: le basi in Europa non sono residui «bastioni della guerra fredda», ma «basi operative avanzate» che permettono agli Usa di sostenere sia il Comando Africa che il Comando centrale nella cui area rientra il Medio Oriente. Sono quindi essenziali per «la sicurezza del 21° secolo», garantita da una «potente e capace alleanza» diretta dagli Usa, che possiede «24mila aerei da combattimento, 800 navi militari oceaniche, 50 aerei radar Awacs». >> è in Europa orientale e in Turchia che si va proiettando il potenziale offensivo della NATO. Lì sono presenti venti basi aeree, navali e di spionaggio elettronico. A queste è stato aggiunto uno dei più importanti comandi Nato: il Landcom, responsabile di tutte le forze terrestri dei 28 paesi membri, attivato a Izmir (Smirne).
La portaerei-Italia mantiene una importanza geostrategica cruciale. Lo dimostrano le ristrutturazioni in corso in questi anni a Camp Darby e dintorni (collegamento col porto di Livorno, creazione dell’ “hub” aereo nazionale nell’aereoporto di Pisa, da cui transitano gli uomini e i materiali destinati ai vari teatri bellici), ad Aviano (potenziamento della base con il trasferimento del 606th Air Control Squadron), a Vicenza (la nota appropriazione del Dal Molin), gli importanti investimenti per sistemi di comunicazione come quelli del MUOS in Sicilia…
Il Pentagono possiede in Italia (secondo i dati ufficiali 2014) << 1428 edifici, con una superficie di oltre un milione di metri quadri, cui se ne aggiungono oltre 800 in affitto o concessione. Sono distribuiti in oltre 30 siti principali (basi e altre strutture militari) e una ventina minori. Nel giro di un anno, i militari Usa di stanza in Italia sono aumentati di oltre 1500, superando i 10mila. Compresi i dipendenti civili, il personale del Pentagono in Italia ammonta a circa 14mila unità.
Alle strutture militari Usa si aggiungono quelle Nato, sempre sotto comando Usa: come il Comando interforze, col suo nuovo quartier generale di Lago Patria (Napoli). «Ospitando» alcune delle più importanti strutture militari, l’Italia svolge un ruolo cardine nella strategia Usa/Nato che, dopo la guerra alla Libia, non solo mira alla Siria e all’Iran ma va oltre, spostando il suo centro focale verso la regione Asia/Pacifico per fronteggiare la Cina in ascesa. Il Comando della forza congiunta alleata a Napoli (Jfc Naples) è tenuto ufficialmente in «standby», ossia pronto in qualsiasi momento a entrare in guerra. Il nuovo quartier generale a Lago Patria, costruito per uno staff di oltre 2mila militari ed espandibile per «la futura crescita della Nato», è in piena attività. (…) Il Jfc Naples è agli ordini di un ammiraglio statunitense, che è allo stesso tempo comandante della Forza congiunta alleata a Napoli, delle Forze navali Usa in Europa e delle Forze navali del Comando Africa. Un gioco strategico delle tre carte, che permette al Pentagono di mantenere sempre il comando. >>
Non c’è qui lo spazio per una analisi, neppure superficiale, dei costi economici che tutto questo comporta per lo Stato e dunque per i cittadini italiani. L’impegno dell’Italia a portare la spesa militare al 2% del PIL (100milioni di euro al giorno) è stato sottoscritto nel 2006 dal governo Prodi; ma le voci di bilancio sotto cui ricadono le spese militari sono le più svariate. Oltre ai contributi direttamente connessi alla partecipazione alla NATO, al rifornimento di sistemi d’arma e alle altre spese per le nostre Forze Armate, il “pozzo senza fondo” delle spese militari si compone anche degli esborsi per la gestione delle basi direttamente statunitensi, per la costruzione di iniziative militari e di “polizia” strettamente europee, e per la partecipazione alle missioni all’estero.
Il convegno
Come compagni della rete nazionale “Noi saremo tutto” e della campagna “Noi restiamo” crediamo sia fondamentale continuare e approfondire l’analisi sui temi sopra indicati. Siamo convinti che un primo passo fondamentale per costruire un’opposizione radicale alle politiche imperialiste e di guerra sia quello di ricostruire, tra le realtà antimperialiste e all’interno del movimento contro la guerra, una cassetta degli attrezzi adatta a comprendere la fase. Per questo proponiamo per sabato 30 maggio a Roma, un convegno dal titolo “Resistere alla Nato” con lo scopo di cominciare a ricostruire le armi fondamentali per la critica e l’azione politica.
Al convegno interverranno oltre che le realtà promotrici:
– Francesco piccioni che andrà a chiarire il concetto di imperialismo a partire dalle categorie leniniste, decostruendo un approccio alla materia che vede nell’imperialismo solo una imposizione militare delle classi e gruppi dominanti e non una fase superiore di sviluppo del capitalismo.
– Emilio Quadrelli ricostruirà la funzione e la storia della Nato dal dopoguerra, con particolare attenzione al ruolo della Germania all’interno dell’alleanza atlantica in rapporto alle diverse fasi storico-politiche
– Sergio Cararo che interverrà sull’attuale fase capitalistica, contraddistinta da una tendenza sempre più marcata alla competizione tra potenze imperialiste e tra poli imperialisti e nuovi poli economici emergenti, andando a definire le principali contraddizioni che la competizione tra poli imperialisti sta determinando anche all’interno della comune struttura militare: la Nato
– Antonio Mazzeo andrà ad introdurre il tema delle nuove strategie militari e delle innovazioni tecnologico scientifiche di cui la Nato si sta dotando per affrontare le guerre di domani e del fondamentale ruolo di resistenza alle politiche di guerra che possono avere i movimenti contro la guerra e in difesa dei territori con particolare riferimento alla lotta No Muos.
– Compagni militanti delle realtà solidali con il Donbas Antifascista di ritorno dalla carovana di solidarietà internazionalista
Abbiamo pensato a questo convegno come un primo passo fondamentale per ricostruire una rete contro la guerra e le politiche imperialiste, in una fase in cui la guerra sembra essere tanto vicina quanto fuori dall’agenda politica dei movimenti sociali, anticapitalisti e internazionalisti. Ogni attività di solidarietà e sostegno ai popoli colpiti dalla guerra sembra essere concepita e gestita in modo separato rispetto agli altri scenari di conflitto. E’ fondamentale costruire un percorso che sia in grado di generalizzare i ragionamenti sulla guerra e di conseguenza le pratiche di opposizione. Per fare questo è fondamentale, da un lato, ridare vita ad una minima risposta popolare alle politiche guerrafondaie, riattivando nei territori strutture e comitati che sono stati protagonisti di importanti momenti di mobilitazione contro i conflitti del decennio precedente. In questo senso vediamo in modo positivo le iniziative che proprio in questi giorni si stanno tenendo sul territorio nazionale per riattivare il sopito movimento NO WAR. A ciò va però associato un altro obiettivo che crediamo stia nella necessità di riattivare un ambito largo e condiviso di iniziativa permanente delle realtà antimperialiste. Trovare il modo per ricostruire questo ambito dopo anni di divisioni e incomprensioni non è di certo cosa facile ma, se è vero che iniziativa e organizzazione devono essere prodotti della realtà e delle contraddizioni proprie di una fase, questo passaggio è urgente e fondamentale vista l’ accelerazione a cui la crisi e le politiche imperialiste ci hanno costretto.
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