Come centro studi, con il sindacalismo di base, fin dagli anni 90 abbiamo sostenuto e prodotto proposte concrete sul reddito sociale che si sono concretizzate, oltre che con iniziative di lotta e di mobilitazione, anche con reiterate proposte di legge sostenute con migliaia di firme raccolte in tutto il paese.
Nelle ultime settimane il tema del reddito sociale variamente definito, anche se dietro le varie terminologie si nascondono enormi differenze, è tornato sotto i riflettori della politica anche istituzionale. Attualmente due diversi disegni di legge sono in gestazione nella XI Commissione Lavoro e Previdenza sociale del Senato, un’altra nella XI Commissione della Camera e altre proposte sono depositate sia al Senato sia alla Camera dei deputati.
Che l’introduzione del reddito sociale sia diventata sempre più impellente lo dimostrano i dati ufficiale sulla disoccupazione, la precarietà e la povertà nel nostro paese[1], che con la crisi sistemica sono diventati elementi strutturali e non contingenti dell’attuale sistema politico economico.
Se si vuole uscire dalla semplice logica che qualsiasi legge sul reddito sia comunque meglio della sua assenza, dobbiamo individuare alcune linee di valutazione. Qui ne proponiamo alcune che riteniamo le più importanti.
– origine e modalità di finanziamento del reddito sociale (dalla fiscalità generale a misure di redistribuzione dei profitti);
– l’ammontare del reddito diretto e la sua durata nel tempo (che deve differenziarsi dai sussidi di disoccupazione);
– l’accesso per cittadinanza o residenza, età e criteri a questi collegati;
– la relazione tra il diritto al reddito e lo stato di disoccupazione, precarietà o lavoro sottopagato ed in particolar modo gli obblighi all’accettazione di offerte occupazionali e formative;
– il rapporto tra il reddito individuale e quello del nucleo familiare di appartenenza (come questo influisce per l’accesso individuale al diritto e sull’ammontare);
– la determinazione degli interventi di reddito indiretto non monetari, i soggetti istituzionali incaricati della loro attuazione.
Questi elementi ci sembrano più utili per una valutazione piuttosto che riprendere le correnti differenziazioni formali tra reddito di cittadinanza, reddito sociale, reddito di base incondizionato, reddito minimo garantito, sussidio sociale ed altre definizioni.
In questa nota vogliamo concentrarci sulle seguenti proposte: il DDL n. 1919 (prima firmataria la senatrice PD Guerra) “Disposizioni per l’introduzione di una misura universale di contrasto alla povertà denominata reddito minimo”; la proposta sostenuta da deputati del PD, primo firmatario Danilo Leva, PDL 720 “Istituzione del reddito minimo di cittadinanza attiva”; il DDL 1148 “Istituzione del Reddito di Cittadinanza e del Salario Minimo Orario (SMO)”, presentato dal Movimento 5 Stelle; il DDL 1670 , “Istituzione del Reddito Minimo Garantito (RMG)”, presentato da SEL; ed infine la proposta elaborata dallo stesso CESTES sul “Reddito Sociale Minimo”, primo firmatario Salvi.
Disposizioni per l’introduzione di una misura universale di contrasto alla povertà denominata reddito minimo (Proposta Guerra – PD) [2]
Il DDL n. 1919 “Disposizioni per l’introduzione di una misura universale di contrasto alla povertà denominata reddito minimo” è stato presentato lo scorso 19 maggio al Senato ed è già in corso di esame alla 11ª Commissione permanente (Lavoro, previdenza sociale).
In questa proposta il diritto al reddito deriva non da una insufficienza del reddito individuale ma del reddito del nucleo familiare. All’assegno monetario spetta colmare la distanza fra il reddito familiare e il livello di «reddito minimo» stabilito dalla norma (in funzione della composizione della famiglia).
Il parametro di riferimento utilizzato per il “reddito minimo” è di 500 euro mensili (per i nuclei familiari composti da una sola persona e varia con il crescere del numero dei componenti con scala di equivalenza Isee[3]). Alle famiglie beneficiarie è riconosciuto un assegno pari alla differenza fra il 40% del reddito minimo (200 euro) e il reddito del nucleo familiare. Le legge di stabilità possono aumentare, se vi è la relativa copertura finanziaria, questa percentuale. La richiesta di reddito è gestita dagli enti locali e l’assegno è erogato dall’INPS.
Requisiti di residenza e cittadinanza: i membri del nucleo familiare (ad eccezione dei minori di anni 18 e dei ricongiungimenti familiari) devono essere cittadini italiani o UE (ovvero familiari) o in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, o residente regolarmente in Italia da almeno dodici mesi (ovvero familiari).
Requisiti economici: il reddito familiare deve essere inferiore al 40% del reddito minimo; valore dell’indicatore della situazione patrimoniale dell’Isee, al netto delle franchigie, non superiore a euro 3.000; nessun componente la famiglia deve essere in possesso di automobili immatricolate nei 12 mesi precedenti.
Adesione al progetto di reinserimento: l’interno nucleo familiare deve essere coinvolto in un progetto “volto al superamento della condizione di povertà, al reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale”. Vi è obbligo per i membri del nucleo familiare idonei al lavoro di iscriversi ai Centri per l’impiego, seguire i percorsi di istruzione, formazione professionale e lavoro proposti (possibilità di esonero parziale o totale per necessità di cura di minori, anziani o persone con disabilità); obbligo di partecipazione a percorsi di inclusione sociale e di integrazione che possono prevedere attività di volontariato (svolte dai beneficiari); i redditi da lavoro durante il periodo di beneficio dell’integrazione vengono considerati nella misura dell’80% per il primo anno e del 90% nel secondo.
Questi progetti di “assistenza sociale” devono essere gestiti da enti locali insieme ad enti privati “con particolare riferimento agli enti non profit”; progetti si attuano con le risorse “disponibili a legislazione vigente e nell’ambito degli equilibri di finanza pubblica programmati” e di possibili ulteriori quote del Fondo nazionale delle politiche sociali tramite “servizi di accompagnamento del reddito minimo”.
Finanziamento del reddito minimo: la spesa è valutata in 1,7 miliardi di euro l’anno e si provvede con i Fondi già esistenti per “cittadini meno abbienti”, parte minore del “Fondo per interventi strutturali di politica economica”, misure sul gioco d’azzardo (slot machine), aumento dell’imposta sulle transazioni finanziarie dallo 0.2% allo 0.3%, riduzione della soglie sul pagamento in contante, modifiche dei regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale.
Osservazioni: la denominazione di misura di “contrasto alla povertà” si traduce in una misura che elargisce una somma economica (per una famiglia senza reddito di tre persone è di 400 euro) che riteniamo completamente insufficiente a garantire una vita dignitosa, forti sono le condizioni e gli obblighi soprattutto stringente è il rapporto con il nucleo familiare che non si limita all’aspetto economico ma anche al “coinvolgimento” di tutti i membri negli obblighi normativi, la platea risulta così molto limitata e soprattutto selettiva, orientata alla messa a mercato a qualsiasi condizione dei membri “idonei” della famiglia.
Una impostazione in linea con le “politiche attive” previste dal Jobs Act[4] funzionali ad una concezione del welfare dei miserabili come workfare forzato (come da Libro bianco di Sacconi redatto durante il Governo Berlusconi). Le forme di finanziamento sono sostanzialmente riuso di risorse già esistenti con l’eccezione dell’aumento dello 0.1% su alcune transazioni finanziarie. Da notare il ruolo di politiche attive sociali e lavorative che sono orientate verso il privato e soprattutto il no profit e dove si prevede l’utilizzo per i beneficiari del magro assegno a lavori di volontariato “riabilitativo”.
Istituzione del reddito minimo di cittadinanza attiva (Proposta Leva – PD)[5]
Si tratta di una proposta di norma a carattere sperimentale di durata triennale, vi concorrono le Regioni, i Comuni e l’INPS. Prevede forme reddituali dirette e indirette rivolte a “lavoratori precariamente occupati” che sono definiti come lavoratori maggiorenni che hanno un livello di reddito tale da non determinare la perdita dello “status di disoccupati”.
Il contributo monetario è mirato a conseguire un reddito annuo minimo pari a 6.000 euro con l’erogazione di ratei mensili massimi di euro 500. Per il diritto di accesso è utilizzato l’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), l’importo del contributo è incrementato di un terzo per ogni membro del nucleo familiare a carico e non è possibile cumulare l’assegno con altri trattamenti come la cassa integrazione o altri trattamenti di disoccupazione. Ha la durata di un anno rinnovabile per un ulteriore anno. Sono inclusi oltre i cittadini italiani anche quelli dell’Unione Europea e gli immigrati regolari extra UE soggiornanti da almeno tre anni.
Per avere diritto al reddito bisogna rispettare i seguenti requisiti: avere un ISEE non superiore a 6.880 euro, non essere proprietari di immobili oltre all’abitazione, partecipare ai programmi di inserimento lavorativo e accettare un’eventuale offerta di lavoro “congrua” anche a tempo determinato. L’assegno si trasforma in “dote salariale” a favore del datore di lavoro in caso di assunzione o per l’avvio di lavoro autonomo.
Il finanziamento: si tratta di un Fondo di cofinanziamento presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali pari alla misura del 50 per cento dei progetti regionali, cui è destinata una dotazione di 500 milioni di euro per il primo anno e di 1.000 milioni di euro per ciascuno dei restanti due anni (quindi 5 miliardi in tre anni ripartiti al 50% tra Ministero del Lavoro e Regioni).
Per la copertura degli oneri si prevedono esclusivamente misure fiscali in materia di giochi pubblici on line, lotterie istantanee e apparecchi e congegni di gioco.
Le Regioni sono chiamate, oltre a cofinanziare, a regolare ulteriormente le modalità di intervento e di programmazione di progetti di inserimento sociale e lavorativo dei beneficiari, mentre i Comuni sono delegati all’attuazione dei programmi regionali.
La platea prevista degli aventi diritto è di circa 400mila persone, quindi molto limitata considerando che nel solo meridione i nuclei famigliari considerati poveri sono oltre i 600 mila.
Senza ripetere le osservazioni fatte per la precedente, come possiamo vedere quest’ultima proposta non si discosta dall’impianto già presente nello stesso Jobs Act in riferimento alla ASDI (Assegno di Disoccupazione)[6], oltre l’ammontare dell’assegno, la stessa platea è molto ristretta, le modalità di erogazione e di finanziamento sono evidentemente insufficienti alla creazione di un istituto capace di dare dignità e diritti sociali alla crescente settore non solo dei disoccupati ma anche dei precari sottopagati.
Sia la proposta Guerra, sia la proposta Leva non si discostano fondamentalmente, se non per le risorse impegnate, da quanto lo stesso Ministro del lavoro Poletti sta proponendo alle associazioni no profit: al centro del “Piano nazionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale” abbiamo il RIA (Reddito di Inclusione Attiva) che condiziona l’assegno all’adesione dei beneficiari ad un progetto personalizzato, orientato “sui bisogni della famiglia” con uno stanziamento triennale di 1,5 miliardi.
Istituzione del Reddito di Cittadinanza (proposta M5S)[7]
Più articolata la proposta di reddito di cittadinanza presentata con primo firmataria Nunzia Catalfo, in questo caso il reddito di cittadinanza è definito come finalizzato prioritariamente a contrastare la povertà e l’esclusione sociale, e come contrasto al lavoro nero, del lavoro mal pagato o precario, di migliorare la domanda e l’offerta di lavoro.
Si prevede l’accesso oltre che per i cittadini italiani e della UE anche per gli stranieri provenienti da quei Paesi che hanno sottoscritto accordi di reciprocità sulla previdenza sociale.
La soglia del reddito minimo da garantire è ricavato dall’indicatore di povertà[8] dell’Unione europea (pari a un 6/10 del reddito mediano familiare[9]), che per il 2014 è pari a 9.360 l’anno e 780 mensili, che riparametrati per la composizione familiare diventano di 1.014 euro per un genitore solo con un figlio minore e di 1.638 euro per una coppia con due figli minori.
L’assegno sarà pari alla differenza tra la soglia di povertà e gli eventuali redditi percepiti dalla persona o dal nucleo familiare. In pratica il beneficio è mediamente quantificato in 12.175 euro l’anno per le famiglie molto povere fino a decrescere a 2.500 euro l’anno. Ogni componente maggiorenne riceverebbe direttamente la sua quota parte. Il costo stimato dai promotori è di circa 15,5 miliardi di euro pari (circa 1% del PIL).
Dai 18 ai 25 anni è necessario per accedere al reddito il possesso di una qualifica professionale o di un diploma di scuola media o la frequenza di corsi di studi o formazione, e rimarrà condizionato comunque dal reddito complessivo familiare.
Centrale la figura dei Centri per l’impiego per l’accettazione della domanda, verifica requisiti, accompagnamento al lavoro. Per i Comuni la competenza è sugli anziani e fasce di disagio ed emarginazione sociale.
La durata del reddito, erogato dall’INPS, è fino al miglioramento della situazione economica, cioè al raggiungimento della soglia dell’indicatore di povertà, sempre se vi è il rispetto degli obblighi previsti.
Obblighi: è tenuto a dare disponibilità al lavoro (presso i centri per l’impiego e le agenzie interinali), frequentare percorsi di inserimento lavorativo e comunicare cambiamenti della propria situazione reddituale. Inoltre deve mettersi a disposizione per la partecipazione a progetti in ambito culturale, sociale, artistico, ambientale, formativo e di tutela dei beni comuni, predisposti dai comuni (una sorta di lavori socialmente utili). Previsti anche il ricorso a star up per il lavoro agricolo e ai voucher per lavori brevi.
Le agenzie di formazione sono obbligate ad organizzare corsi, secondo le direttive degli osservatori nazionali e regionali del mercato del lavoro e devono garantire l’occupazione di almeno il 40% degli iscritti con il titolo finale se vogliono usufruire di finanziamenti pubblici. Sottolineiamo che si decade dal diritto al reddito quando si “sostiene più di tre colloqui con palese volontà di ottenere un esito negativo”, si rifiutano tre offerte di lavoro congrue, ci si dimette per due volte e senza giusta causa dal contratto di lavoro nell’anno.
L’offerta di lavoro “congrua” è quella attinente alle competenze lavorative, la retribuzione oraria è uguale o superiore all’80% rispetto alle mansioni di provenienza o a quanto previsto dai CCNL, il luogo di lavoro deve essere nel raggio di 50 chilometri dalla residenza ed è raggiungibile entro 80 minuti con i mezzi pubblici. Le lavoratrici madri, fino al terzo anno di età dei figli, sono esentate dall’obbligo della ricerca del lavoro. Sono previsti incentivi alle aziende per l’assunzione a tempo indeterminato dei percettori di reddito di cittadinanza.
Oltre all’assegno di reddito sono previste agevolazioni nel pagamento del canone di affitto con l’incremento di 500 milioni di euro del Fondo nazionale di sostegno per l’accesso alle case in locazione ed estensione ai beneficiari dei fondi per i mutui. A queste di aggiungono agevolazioni per le utenze di gas, acqua, elettricità e telefonia fissa, sostegno dell’obbligo scolastico per l’acquisto dei libri di testo e pagamento delle tasse scolastiche e universitarie, per la fruizione di servizi sociali e sanitari, trasporti pubblici, partecipazione alla vita sociale e culturale. Da rilevare però che queste “misure integrative” del reddito di cittadinanza sono a carico degli enti locali “compatibilmente con le loro risorse e nei limiti consentiti dal patto di stabilità”.
Per la copertura finanziaria, nel testo molto articolato e dettagliato si prevede che la spesa è di circa 17 miliardi, finanziata tramite misure fiscali sui giochi, sulle aziende energetiche, sui grandi patrimoni mobiliari e immobiliari (superiori a 2 milioni di euro), sugli interessi passivi di banche e finanziarie. Previsti tagli ai “costi della politica”, al sostegno all’editoria, tagli delle spese militari, centralizzazione degli acquisti pubblici, razionalizzazione nell’uso degli immobili pubblici, tagli incarichi di collaborazione nelle società partecipate, divieto di cumulo tra pensione e lavoro pubblico; aumento tassazione sulle pensioni ricche (superiori a 6 volte la minima), assorbimento dell’8% mille non optato.
Una proposta che sicuramente ha il merito di estendere sufficientemente il bacino degli aventi diritto, con una buona dote finanziaria che sconta l’impostazione sul livello di “povertà”, e di una sorta di “spending review” piuttosto che puntare con più decisione sulla patrimoniale e sul capitale finanziario. Inoltre vi è un irrigidimento rispetto alle norme di decadenza riferite alla ricerca e disponibilità al lavoro (anche socialmente utile), lo stesso meccanismo dell’integrazione al reddito è strettamente legato al reddito del nucleo familiare. L’affidamento delle forme di reddito indiretto agli enti locali ne depotenzia l’effettiva realizzazione e generalizzazione.
Istituzione del reddito minimo garantito (proposta SEL)[10]
Insieme con quella del M5S anche la proposta di Sel è in corso di dibattimento in commissione al Senato (prima firmataria De Petris) ed è stata presentata anche alla Camera. In questo caso si tratta dell’istituzione di un “reddito minimo garantito” come insieme di interventi reddituali diretti e indiretti, quindi erogazione di somme di denaro ed erogazione di beni e servizi (gratuiti o agevolati).
Il reddito minimo diretto in denaro è pari a 7.200 euro l’anno, 600 euro mensili, sono previsti contributi per alcune spese impreviste. La somma è ricalcolata secondo i componenti del nucleo familiare a carico, (es. in due 1.000 euro, in quattro 1.630 euro). L’assegno non è cumulabile con altri trattamenti previdenziali, quali cassa integrazione, pensione sociale, maternità base, le varie di invalidità e inabilità, social card. La gestione è affidata ai centri per l’impiego.
Per aver diritto al reddito bisogna avere la residenza sul territorio nazionale da almeno ventiquattro mesi; l’iscrizione alle liste di collocamento (salvo i lavoratori autonomi, a tempo parziale, aspettativa non retribuita per gravi ragioni familiari); reddito personale non superiore a 8.000 euro nell’anno (ma si tiene conto anche del reddito familiare tramite un regolamento d’attuazione); non avere un patrimonio mobiliare o immobiliare superiore a un limite fissato dal regolamento (tranne la casa di prima abitazione o altri beni necessari alla soddisfazione dei bisogni primari della persona).
La definizione delle linee guida per il reddito indiretto sono affidate alla Conferenza unificata (regioni ed enti locali) e le modalità previste riguardano la gratuità del trasporto pubblico locale; incentivo per le attività culturali, ricreative, sportive; il contributo al pagamento di energia e gas; gratuità dei libri di testo scolastici; contributi per l’affitto; gratuità delle prestazioni sanitarie; somme in denaro aggiuntive per le particolari esigenze. Le regioni “che intendono partecipare” stabiliscono un piano d’azione nel quale definiscono la platea dei beneficiari e i diritti da garantire.
Il reddito minimo ha una durata di dodici mesi rinnovabile su domanda al centro per l’impiego. Il beneficiario decade dal trattamento nel caso in cui sia assunto con un contratto di lavoro subordinato o parasubordinato, o autonomo; nel caso in cui si rifiuti una proposta di impiego “congrua” offerta dal centro per l’impiego.
Il reddito è erogato dall’INPS su richiesta del centro per l’impiego, che è rimborsato dalla Stato tramite un fondo presso la Presidenza del Consiglio dei ministri in cui confluiscono le risorse “provenienti dalla fiscalità generale”.
Il Governo è delegato a riordinare le prestazioni assistenziali, quali assegno sociale, pensione sociale, assegno ai nuclei familiari numerosi, assegno di maternità di base, pensione di inabilità, indennità di frequenza e assegno di invalidità, pensione per i ciechi e per sordi, carta acquisti per i minori e gli anziani.
Il Governo è delegato a riformare, tramite un decreto legislativo, la disciplina degli ammortizzatori sociali prevedendo un sussidio unico di disoccupazione per tutte le categorie di lavoratori a prescindere da anzianità contributiva e assicurativa.
In questa proposta si sconta negativamente non solo l’ammontare dell’assegno, la sua durata a termine, indeterminatezza dell’impatto del reddito familiare, ma soprattutto l’impostazione che vede come accettato un regime sociale basato sulla “flessibilità” del lavoro, il finanziamento tramite la fiscalità generale che rimane invariata e dove l’introduzione del reddito sociale si accompagna con una ulteriore “riforma” degli ammortizzatori sociali e con la cancellazione di altre forme di sussidio.
Istituzione del reddito sociale minimo (proposta CESTES)[11]
Il disegno di legge n. 1339 (primo firmatario Salvi), presentato in Senato già nel 2002, prevede la “Istituzione di un sostegno contro la disoccupazione e la precarietà del lavoro attraverso il Reddito sociale minimo (RSM)”.
Ricordiamo che questo testo di legge era la riproposizione di una legge di iniziativa popolare che venne depositata in Cassazione nel 1998, che raccolse circa 63.000 firme di cittadini, e fu depositata alla Camera dei Deputati nel 1999. Nel comitato promotore del disegno di legge di iniziativa popolare vi era anche lo stesso Cestes[12] che ne aveva elaborato la stessa proposta, oltre a tante altre realtà sociali e del sindacalismo di base.
La proposta, prendeva atto, già molti anni fa, dei processi e degli effetti della finanziarizzazione dell’economia, della globalizzazione e competizione internazionale; dove la ricerca della massimizzazione dei profitti andava a discapito della “remunerazione del fattore lavoro”, dell’occupazione e delle condizioni dei lavoratori, occupati e non. Si stavano mettendo le basi a quella che sarebbe stata riconosciuta come crisi sistemica dopo la contagio partito dal crollo dei subprime americani alla fine del 2006.
Già allora l’aumento della disoccupazione e della precarietà lavorativa stava assumendo un carattere sempre più strutturale, e tutte le misure prese formalmente per combattere la crisi, le politiche di austerity della UE, la nuova divisione internazionale del lavoro, hanno creato solo più disoccupazione e precarietà fino ad arrivare alla demolizione della contrattazione collettiva e al Jobs Act.
L’impianto normativo proposto prevede un importo del Reddito sociale minimo di 8.000[13] annui, non soggetti a tassazione e rivalutato annualmente in base agli indici ISTAT; i requisiti per l’accesso prevedono la residenza nel nostro Paese da almeno due anni, l’iscrizione alle liste di collocamento da almeno un anno, reddito imponibile annuo non superiore a 5.000 euro[14], l’appartenenza a un nucleo familiare con reddito imponibile annuo non superiore ad 25.000 euro[15]. L’erogazione e la gestione del RSM sono in capo al Ministero del Lavoro e alle sue Direzioni territoriali (non all’INPS).
Da sottolineare che si prevede la riduzione del 50% dell’importo, ma non la decadenza, nel caso di svolgimento di attività lavorative con un reddito inferiore al reddito minimo, permettendo di estendere la copertura non solo ai disoccupati ma anche al lavoro precario, sottopagato e altre forme di sottoccupazione.
E’ prevista per il datore di lavoro in caso di mancata attestazione del rapporto di lavoro con un lavoratore che fruisce del reddito sociale (lavoro nero) una sanzione amministrativa pari all’ammontare delle somme che il soggetto avrebbe dovuto percepire quale corrispettivo del lavoro svolto, con riferimento ai minimi previsti dal CCNL della categoria.
Il periodo di godimento del RSM è calcolato ai fini pensionistici e si prevedono forme di reddito indiretto e differito attraverso l’accesso gratuito ai servizi fondamentali (trasporti urbani, servizio sanitario, studi e formazione, ecc.), il dimezzamento dei costi delle utenze (gas, luce, acqua, telefono, rifiuti), oltre a un canone sociale per l’utilizzo degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (misure previste tramite decreto governativo e non tramite gli enti locali tranne che per l’edilizia pubblica). Accedono ai benefici del reddito indiretto i titolari di pensioni sociali e minime e i componenti di nuclei familiari ricompresi nei limiti di reddito.
Centrale e differenziata radicalmente dalle altre proposte, è la questione dell’individuazione delle risorse necessarie per la copertura a regime: si propone di reperire queste risorse esclusivamente attraverso varie forme di tassazione sui capitali. Si tratta di applicare una efficace imposta patrimoniale, di colpire le rendite finanziarie e i grandi patrimoni, di tassare realmente e uniformemente i guadagni in conto capitale, di ridurre le agevolazioni e i trasferimenti alle imprese[16].
Una proposta che da una precisa analisi dei cambiamenti in atto, e da una impostazione classista e conflittuale si pone il problema di contrapporsi a queste tendenze, non solo riqualificando gli strumenti di protezione sociale ma con l’obiettivo di unificare concretamente e rilanciare l’iniziativa dei soggetti coinvolti nei processi di frammentazione e immiserimento, dai soggetti del lavoro e del non lavoro.
Il reddito sociale, con i suoi potenziali effetti, non riguarda solo il lavoro negato, i disoccupati, i precari, e i pensionati ma diventa un elemento di rafforzamento della capacità contrattuale complessiva della forza lavoro occupata o meno.
Di fronte ai processi di disgregazione sociale l’obiettivo non è solo quello di migliorare le condizioni economiche delle vecchie e nuove povertà ma di darsi uno strumento di riaggregazione partendo dalle soggettività che possono essere coinvolte in una nuova stagione di conflitto sociale ancora da riorganizzare.
Il reddito sociale non deve essere, quindi, uno strumento di ulteriore separazione ma di unità di interessi del mondo del lavoro, là dove una concreta solidarietà e un progetto politico di emancipazione non sono dati solo a partire dall’organizzazione nel luogo di lavoro.
A differenza di altre proposte sul reddito, la questione fondamentale è di non renderlo funzionale e complementare allo smantellamento di un sistema più generale di welfare, funzionale a un mercato del lavoro sempre più selvaggio[17]. Una forma di reddito sociale dei miserabili è un pericolo concreto, sostitutivo degli ammortizzatori “legati” al posto di lavoro, e a costo zero a carico della residua spesa sociale: richieste liberiste che modellano una società e un mondo del lavoro basati su rapporti e contrattualizzazioni individuali, con forme caritatevoli di supporto per gli esclusi e incentivanti la massima disponibilità lavorativa alle peggiori condizioni[18].
Altro segno distintivo, oltre alla funzionalità o meno allo sfruttamento sul lavoro, è la natura e l’origine delle risorse per sostenere il reddito sociale. E’ evidente che finanziare l’istituzione del reddito con la fiscalità generale invariata nella sua architettura o trasferendo voci di spesa da altri capitoli del welfare è un modo per rendere questo strumento o ininfluente, per la scarsità delle dotazioni, e anche dannoso per le conseguenze sugli altri livelli della protezione sociale e sanitaria.
La differenza rispetto alle impostazioni orientate alla fiscalità generale e al taglio delle “spese inutili” è palese, si tratta di invertire il drenaggio di ricchezza sociale prodotta dal capitale al lavoro (non lavoro). Sono risorse finalizzate alle prestazioni sociali per la povertà, la disoccupazione, per creare nuovi posti di lavoro a pieno salario e pieni diritti, una ottica opposta a forme di assistenzialismo.
Anche qui si tratta di dare un tratto di classe, che fa i conti con le dinamiche nazionali e internazionali dell’economia, con le politiche di attacco alla condizione dei lavoratori, cogliendo le contraddizioni del nostro sistema politico economico e sociale (anche nella loro traduzione fiscale). Per questo bisogna colpire i capitali finanziari e speculativi e i relativi movimenti internazionali, realizzare un aumento della massa dei contribuenti contraendo l’evasione e l’elusione fiscale e contributiva (basti pensare alle elargizioni al padronato per le assunzioni contenute nella scorsa finanziaria), e in più (eresia per i finti sacerdoti della produttività) tassare ogni forma di “innovazione” tecnologica nella produzione che provochi crescita della disoccupazione.
In questa ottica, la rivendicazione del reddito attraversa le contraddizioni tra capitale e lavoro ma non solo a livello nazionale. Da anni è diventato evidente che la questione non è solo di introdurre anche in Italia una forma di reddito sociale già presente negli altri paesi della UE[19], ma di ridisegnare nel nostro paese come negli altri PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) un welfare rifondato sulla salvaguardia e la rivendicazione della distribuzione del reddito[20], come salario sociale prodotto, a tutti i lavoratori, occupati e no.
6 Agosto 2015
Osservatorio Sindacale CESTES USB
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